Editoriale 14. Sud

Quando questa estate, da Tokio, Renzi ha invitato il Sud a non cedere a piagnistei, subito si è riaperta la voragine meridionale, più che la questione. Una voragine che, a dire il vero, negli anni è diventata lo svuotatasche con cui l’Italia si è alleggerita ogni tanto di qualcosa: tutta l’Italia, però, non solo lo […]

Quando questa estate, da Tokio, Renzi ha invitato il Sud a non cedere a piagnistei, subito si è riaperta la voragine meridionale, più che la questione. Una voragine che, a dire il vero, negli anni è diventata lo svuotatasche con cui l’Italia si è alleggerita ogni tanto di qualcosa: tutta l’Italia, però, non solo lo Stato. Per emarginare un’idea geografica bastano piccoli pensieri da parte di molti.

Il Sud è sempre un “ ma” a cui abbiamo tolto qualcosa. L’italiano ci va in vacanza ma non ci vivrebbe, del Sud ti innamori ma non te lo sposi, lo leggi ma ti sembra una fiction.
Ci siamo chiesti, allora, come lavora questo Sud e su cosa sta investendo oggi, quali sono gli ingranaggi nascosti che lo fanno andare più veloce o rallentare, come le imprese interpretano le proprie risorse. In questo numero abbiamo raccontato il Sud senza dare troppa voce ai numeri perché sappiamo bene che non brilla in matematica.

Però due dati servono. Nell’ultimo Rapporto 2015 sull’economia del Mezzogiorno, Svimez attesta che dal 2007 al 2014 il pil continua a segnare ancora un meno: oltre alla crisi economica, insomma, anche quella del settimo anno. L’altro numero aggiornato alla fine dello scorso anno riguarda gli occupati, nemmeno 6 milioni: un livello così basso si era toccato solo nel ’77, che sembra davvero lontano per essere preso a riferimento. A febbraio di quell’anno, in ritardo di dieci sugli altri Paesi europei, l’Italia avviava la programmazione a colori sui suoi canali Rai. Pensare che il lavoro al Sud sia arretrato fin là preoccupa non poco e il rischio del “sottosviluppo permanente” citato dall’Osservatorio non è cosa da niente.

Abbiamo intercettato il Sud dalle antenne di chi ci vive e ci investe. Dai pastifici storici del distretto campano abbiamo capito che il Made in Italy è una certezza legata alla manodopera locale, dalle macchine della cultura è emerso che il cinema del Sud sta finalmente superando la forza di gravità romana, le pubblicità dedicate a questa fetta di Italia partono con buoni propositi ma finiscono per penalizzarla, la riforma del Jobs Act ha fatto schizzare l’impiego dei voucher ma senza che i tanti dubbi trovassero risposte, alle società di selezione campane abbiamo chiesto che lavoro si trova quando le persone lo cercano.

Nicola Lagioia, lo scrittore pugliese premio Strega 2015, in una intervista circolata subito dopo la sua vittoria e a commento dello scambio a distanza tra Renzi e Saviano, ha usato per il Sud la metafora delle troppe primavere rivoluzionarie per dire che l’estate non si è vista ancora.
Ecco perché abbiamo voluto spalancare lo sguardo sulle ombre cinesi dei temi caldi come l’Ilva e le regie nascoste, del caporalato messo in chiaro dall’autore dell’ultimo Rapporto sulle agromafie, dei call center usati impunemente come gli uno, nessuno e centomila che Pirandello non avrebbe mai voluto.
Abbiamo scavato andando aldilà della politica che innesca troppi corti circuiti e pochi circuiti virtuosi, non ci interessavano le parole al vento. Una volta parlava Bellavista, che almeno non sprecava il fiato e le metteva in fila bene le parole e la saggezza. Trent’anni dopo, purtroppo, l’Italia è ancora lì tra i Bellavista e i Cazzaniga ma “accà – ancora – sta tutta ‘a munnezz’n terra”.

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