Editoriale 83. Dietro il grande schermo

Più o meno eravamo in ferie quando il 31 luglio scorso è iniziato il lungo sciopero delle troupe del cinema italiano, sei giorni più tre. Una partita che ad oggi è ancora aperta, del resto la ferita prende aria già da vent’anni. Un contratto fermo dal 1999 quello degli operatori dei cinema per quanto riguarda […]

Più o meno eravamo in ferie quando il 31 luglio scorso è iniziato il lungo sciopero delle troupe del cinema italiano, sei giorni più tre. Una partita che ad oggi è ancora aperta, del resto la ferita prende aria già da vent’anni. Un contratto fermo dal 1999 quello degli operatori dei cinema per quanto riguarda i minimi da riconoscere a montatori, scenografi, tecnici delle luci e delle riprese, attrezzisti. 

Gli operatori da un lato, e con loro i sindacati confederali; le associazioni dei produttori dall’altro: Anica, Apa e Ape che rimandano le accuse al mittente contestando il punto di partenza: bisogna gestire la vertenza partendo dalle tariffe del 2015 e non del ’99. Poco cambia dal punto di vista di chi il cinema lo fa con le mani e con la schiena, con la competenza della tecnica multiforme, i ritmi feroci e le programmazioni dell’ultimo minuto, con lo sforzo fisico e le acrobazie, i budget attaccati all’osso più dei cani.

Il pensiero va al cinismo di Boris che dodici anni fa raccontò l’approssimazione e il disagio delle produzioni cinematografiche buttando a terra il vaso della polvere di stelle di cui pensavamo fosse fatto il cinema prima di quella serie tv. 

Nei vent’anni in cui da fuori è cambiato il mondo, il cinema da dentro è rimasto fermo.

Manca la formazione a detta degli operatori, mancano i fondi a detta dei produttori, manca il pubblico in sala a detta dei numeri, mancano le buone politiche a detta degli attori.

Il paradosso è che noi guardiamo i film per aprirci un varco mentre il cinema si è sempre chiuso a riccio senza farci vedere gli aculei perché al grande pubblico basta solo il grande schermo. In questo numero di Senza Filtro abbiamo raccolto storie e interviste da chi non parla mai quando si parla di cinema perché il loro lavoro non è recitare o dirigere ma sparire per garantire suoni, costumi, voci, ambienti, luci, locandine, trucco, pubblicità, contatto col pubblico, memoria molte volte eterna. 

Alla domanda su quanto sia complesso trovarsi buone produzioni per lavorare, la risposta di un operatore di lunga data è stata “È un giro chiuso, si tratta di amicizie. Un po’ lecchi, un po’ devi essere bravo tu”.

Per essere fedeli alla realtà più del cinema, abbiamo chiesto ai nostri autori di scovare chi lo tiene davvero in piedi questo mondo, almeno in Italia.

Il nostro cinema è figlio di un’operosità di testa e di mani, così come di tecnologia e di ingegno, che non fanno base nella solita Roma ma si innervano dalle province d’Italia: Formello, Arezzo o Matera per le sartorie che vestono persino i film da Oscar; Spello o Vicenza per i festival minori solo sulla carta che parlano a voce bassa ma fonda; Bolzano o Busto Arsizio con le nuove scuole di cinema che a sorpresa fanno concorrenza alle grandi; Fabriano, Ortona e Foligno che hanno fatto nascere i divi del porno che sono prima figli dei paesi e poi del pubblico ben nascosto. Certo Roma offre set a cielo aperto e una storia del cinema che soffia ad ogni strada ma Roma l’antica era pur sempre la città il cui divertimento maggiore erano le venationes, il dare la caccia agli animali più o meno feroci che venivano liberati di mattina presto dentro il Foro romano o il Circo Massimo per essere catturati o uccisi prima del duello ufficiale tra i gladiatori. Erano leoni, leopardi, tigri, cervi, orsi, cammelli e capre; più venivano importati da lontano e più il potere di Roma cresceva agli occhi del popolo. I lupi erano sacri, niente caccia violenta per loro.

È tempo di dire a chi cerca il cinema da lavoratore e non da spettatore che esiste un’alternativa al farsi sbranare dai potenti ed è uscire dai circoli saturi e supremi per cominciare a nutrire un cinema meno di dominio e più di rispetto. Se si concede la similitudine, anche chi lavora da invisibile viene dato in pasto come gli animali nell’arena: in pasto alle solite logiche e ai soliti nomi, dalle regie al doppiaggio, dalle scuole agli attori. Arduo, senz’altro, ma chi lo dice che non possa nascere un modello nuovo? Anche nel cinema, i grandi lo sono sempre di nome e raramente di fatto e magari è il momento di rimettere a posto i pesi e le parole. Una volta il cinema era sacro quanto la televisione, il teatro, un libro, le Istituzioni, le feste comandate. La sacralità, però si sa, con gli anni fa la muta e sposta gli altari.

Scrivo questo editoriale in treno mente rientro da una serata bolognese con i Manetti Bros, registi che hanno scelto di affondare il tratto sui luoghi comuni, sullo stereotipo di genere, sui sentimenti che non vanno presi troppo sul serio ma mischiati bene, sulla faccia nuova di un’Italia che solo ripartendo dalla pancia potrà riossigenare la mente. 

Stanno iniziando le riprese per Diabolik, convinti che fosse l’unico fumetto da poter girare in Italia perché italiana era la firma delle sorelle Giussani e italiano il profilo del protagonista: gli interni li gireranno a Bologna, gli esterni urbani un po’ a Milano e un po’ a Trieste per il mare. A loro che hanno tolto il cellophane di paura dentro cui per anni era stato messo sottovuoto il cuore di Napoli, chiedo se si rendono conto di aver ridato Napoli ai napoletani e agli italiani e di aver liberato il cinema dai pregiudizi.

“Ora che me lo dici metto insieme i pezzi e forse è vero ciò che dici perché dal nostro set in poi la città ha ricominciato a ospitare le troupe e il cinema ha ripreso contatto con le strade e con la gente. Non sai che fatica era stata ottenere i permessi per le riprese di Song’e Napule nel 2013. Al centro di Napoli non si poteva più girare, che follia. Più chiudi più sbagli”. Dei due fratelli romani, Marco Manetti ha la responsabilità del maggiore e i sentimenti che gli scappano prima delle parole, Antonio ci mette più i silenzi e l’obiettivo lucido. Parlarci da vicino è riuscire a entrare nella cameretta di quando erano bambini mentre raccontano di essere cresciuti fianco a fianco, due lettini e una televisione in comune. La loro matrice è avere ormai da anni la stessa troupe di tecnici e di operatori, li hanno formati in casa, ci crescono insieme. Il loro modo di lavorare somiglia più al calore di una compagnia di teatro che alle produzioni  medie italiane a chiamata ingrata. “Il cinema, quando lo vivi tutti i giorni, ha una necessaria gerarchia dei ruoli ma c’è da stare attenti. Se vuoi lavorare bene, quella gerarchia devi rispettarla ma non devi mai scordarti che chi lavora con te non è un ruolo ma una persona. Il grande rischio del cinema è quando si sconfina nella gerarchia umana”, aggiunge Marco. 

C’è speranza, allora, anche tra i romani non più antichi e anche nel cinema. Come del resto Pompeo che nel 55 a.C. organizzò uno spettacolo cruento per far divertire i romani ma le grida disperate degli elefanti spinsero la folla a piangere per loro e lui fu costretto a sospendere definitivamente la caccia dopo essere stato aggredito verbalmente dal popolo.

Cosa sta accadendo oggi dietro il grande schermo è bene saperlo perché potrebbe essere persino più affascinante degli stessi film.

 

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