L’ego gigante e la bambina

Erano i primi anni del terzo millennio quando mi recai in un’azienda del Nord-Est, convocato in qualità di consulente di direzione. L’azienda, gestita con pugno di ferro dal suo energico ottuagenario fondatore, veniva dallo stesso dichiarata florida e finanziariamente solida. Il titolare, orgoglioso della sua “bambina”, coma la chiamava lui, mi fece da Cicerone mostrandomi […]

Erano i primi anni del terzo millennio quando mi recai in un’azienda del Nord-Est, convocato in qualità di consulente di direzione. L’azienda, gestita con pugno di ferro dal suo energico ottuagenario fondatore, veniva dallo stesso dichiarata florida e finanziariamente solida. Il titolare, orgoglioso della sua “bambina”, coma la chiamava lui, mi fece da Cicerone mostrandomi le celle frigorifere dove teneva stoccato il fresco da distribuire alla GDO. Una quarantina di magazzinieri entravano e uscivano dai grandi portelloni senza apparentemente risentire dello sbalzo termico di circa 35 gradi a cui erano sottoposti.

Mi colpì in quel momento il capo magazziniere, che annotava su un foglio di carta i codici degli scatoloni in entrata e in uscita con una velocità decisamente elevata ma non sufficiente a gestire just in time il flusso delle merci, tant’è vero che il poveretto, al termine dello scarico, era costretto ad un continuo andirivieni in cella, per potere registrare correttamente tutti i codici. Mi chiesi come mai non usassero un lettore di codici a barre e mi annotai mentalmente la domanda per il titolare. Mentre andavamo nel suo ufficio, passammo attraverso gli uffici dell’amministrazione; sei impiegate erano indaffarate su pile di carte, faldoni, post it, appunti cartacei. L’unica espressione della tecnologia era il cacofonico rumore di un fax che sputava continuamente fogli. Ingenuamente, interruppi il loquace padrone di casa chiedendogli dove fossero i computer. «Quali computer?», mi rispose piccato.

Rimasi sinceramente sorpreso dalla contro-domanda, perché era ormai universalmente consolidata l’equivalenza “amministrazione (e non solo) uguale utilizzo del computer”. Il titolare, che alla parola “computer” si era decisamente irritato, aveva platealmente dichiarato: «Mai serviti! Cosa me ne faccio?», perché quando aveva iniziato si usava solo la carta e la matita. Detto questo, proseguì orgogliosamente «Venga con me, che le mostro il mio “computer”». Entrammo nel suo ufficio, frugò in un cassetto da cui estrasse un’agenda con il logo di una banca locale, al cui interno una miriade di foglietti e fogliettini inseriti tra le pagine le davano la forma di una fisarmonica. Commerciava con la GDO, decine di fornitori, 65 dipendenti, qualche milione di fatturato e non aveva un PC in ufficio. Sinceramente non sapevo cosa dire.

La consulenza venne erogata e il rapporto commerciale si concluse ma rimase quello amicale, soprattutto con il figlio cinquantenne del titolare che, tecnologicamente più attivo del padre e più sensibile all’innovazione, veniva tenuto lontano da ogni ruolo decisionale. Qualche tempo dopo seppi che l’anziano titolare aveva avuto un infarto, fortunatamente riconosciuto in tempo da una delle segretarie, era stato portato in ospedale, dove un intervento gli aveva salvato la vita. Al ricovero era seguita una lunga convalescenza da cui, contro ogni consiglio dei medici, il titolare chiamava diverse volte al giorno in azienda per monitorarne l’andamento. La degenza era per lui peggio della reclusione, perché ogni minuto lontano dalla sua “bambina” era una sofferenza mentale e fisica. Finalmente venne dimesso e, nonostante fosse sabato pomeriggio, come prima cosa non volle tornare a casa ma andare a vedere come stesse la sua “bambina”.

Al suo ritorno qualcosa era cambiato. Sulle scrivanie delle impiegate trovò meno carta e alcuni PC di ultima generazione, in magazzino i lettori ottici avevano sostituito le penne, il nuovo gestionale aveva permesso di acquisire altri clienti, mantenendo invariata la forza lavoro e quindi il fatturato aveva una previsione di crescita su base annua molto più alta rispetto a quella prevista. I costi di gestione erano stati ridotti del 25% e nel suo ufficio sedeva il figlio. Questo gli provocò un travaso di bile, cui seguì un secondo ricovero e la decisione di un vendicativo pensionamento volontario al grido di: «Prima o poi vi troverete nei guai e verrete a chiedermi una mano!». Il pensionamento non venne mai interrotto da alcuna richiesta di aiuto.

Le personalità degli imprenditori senza pc

Se pensate che questa sia una storia di altri tempi, posso garantirvi che non più di tre o quattro anni fa entrai in un’impresa con più computer di quelli che trovai negli uffici della “bambina” ma con la stessa venerazione per le agende da parte del titolare ottuagenario. Sinceramente non so spiegarmi quali siano i motivi per cui, nel mondo dell’azienda 4.0 si preferisca ancora la carta ai PC, però tra gli appassionati della cellulosa credo che si possano riconoscere alcuni comuni tratti della personalità:

  • l’eremita. Una miopica visione del mondo che concentra l’attenzione verso l’interno dall’azienda ma che impedisce di comprendere ciò che sta fuori;
  • il Re Sole. Vive nel binomio imprenditore uguale azienda o azienda uguale imprenditore, che porta alla lievitazione dell’ego e alla conseguente presunzione di infallibilità;
  • il semidio, la cui certezza di immortalità rende inconcepibile anche solo il pensiero di un passaggio generazionale;
  • il genio, che considera autentiche idiozie le idee degli altri, in primis quelle dei dipendenti;
  • il fossile. È forse l’errore più grande, ovvero continuare senza cambiare, senza modificarsi, senza evolvere.

Tutti atteggiamenti che prima o poi ti presentano il conto.

“Osservare, improvvisare, adattarsi ed infine raggiungere lo scopo”, diceva Clint Eastwood nel film Gunny (1986), che tradotto in una parola significa “cambiamento” e che a volte viene confuso con la parola “resilienza”. Simpatico ed abusato il termine, quello della resilienza: /re·si·lièn·za/ sostantivo femminile: “Capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi”. La resilienza, la possibilità di resistere ad un impatto senza perdere la struttura, vuol dire però “cambiare poco”, vuol dire scarso adattamento, significa continuare anche con delle ammaccature. Credo che la resilienza sia una qualità ottima ma sul breve periodo.

In un mondo che si muove velocemente, dobbiamo invece imparare ad essere liquidi. Tutti i fluidi newtoniani, come l’acqua, hanno legami molecolari forti che mantengono coese le molecole ma al contempo hanno la possibilità di adattarsi velocemente a qualunque recipiente. Le aziende dovrebbero imparare a fare la stessa cosa: mantenere forti i legami tra le persone e ad usarli come collante per adattarsi al cambiamento strutturale che il mercato impone. Volete sopravvivere alle crisi? Diventate persone e aziende liquide.  

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