Il Nord che non fa decollare l’Italia

Sulla portaerei nel Mediterraneo c’è un velivolo che non accende i motori, fermo da un secolo. È il Mezzogiorno, che proprio nel settore aeronautico ha esperienza importante, oltre che in quello automotivo, nell’agroalimentare e nel turistico. Quattro fondamentali filiere industriali del Paese, eppure la disoccupazione al Sud è sempre ampia. È messo nero su bianco […]

Sulla portaerei nel Mediterraneo c’è un velivolo che non accende i motori, fermo da un secolo. È il Mezzogiorno, che proprio nel settore aeronautico ha esperienza importante, oltre che in quello automotivo, nell’agroalimentare e nel turistico. Quattro fondamentali filiere industriali del Paese, eppure la disoccupazione al Sud è sempre ampia.

È messo nero su bianco nello studio della SRM, Società di Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, che per ogni investimento nel Meridione si attiva una rilevante quota di produzione al Centro-Nord, cioè una sensibile ricaduta positiva sul resto del Paese, poiché le due Italie non sono affatto separate ma interdipendenti. La politica nazionale sembra ignorare che il rilancio dell’economia del Mezzogiorno sia la condizione essenziale per la ripresa di quella italiana intera. Il miope sistema, condizionato dall’alta finanza e dall’industria, continua a lasciare al Nord la quota maggiore di ricchezza prodotta per tagliare fuori mercato il Sud, al quale si destinano meno aeroporti, meno ferrovie, meno autostrade, meno università, meno scuole, meno asili, meno tecnologia, meno investimenti pubblici e meno spesa corrente (stipendi, pensioni, sanità), ma più sussidi statali per diseducarlo alla produttività e per strozzarne l’autonomia. Ne conseguono accuse e lamenti, molto più utili a neutralizzare la concorrenza di quanto non sarebbero le infrastrutture e le fabbriche in un Mezzogiorno che è mercato di sbocco delle merci settentrionali dalla scientifica creazione del “triangolo industriale” di fine Ottocento firmata dall’Italia liberale a trazione settentrionale.

«E’ assurdo pensare che l’industria si localizzi nel Sud, è più conveniente trasferire la manodopera verso il Nord». Così rispose l’armatore ligure Angelo Costa, presidente di Confindustria negli anni della ricostruzione industriale con gli aiuti del Piano Marshall, al politico sindacalista pugliese Giuseppe Di Vittorio che chiedeva di investire parte dei finanziamenti americani per un minimo sviluppo industriale nel Sud, colpito da maggiori distruzioni. Così fu rivitalizzato il “triangolo industriale” e così l’imprenditoria settentrionale fece perdere la grande occasione alla parte più penalizzata del Paese. Oggi sono oltre 60 i miliardi, su base annua, spesi dai meridionali per l’acquisto di beni e servizi “made in Nord”, ben oltre la somma destinata della ridistribuzione dei trasferimenti statali, dall’area più ricca dello Stivale a quella più povera.

In virtù delle esistenti interdipendenze tra le due economie italiane, il dramma sociale della disoccupazione al Sud diventa un problema anche per il Nord, il quale si vanta di una certa autonoma e si lamenta di essere frenato nel suo slancio dalla zavorra meridionale. Il fatto è che il potere d’acquisto al Sud influenza il pil del Nord: meno è gonfio il portafogli del meridionale e più va in difficoltà la produzione settentrionale.

Da qualche anno le statistiche Eurostat circa il PIL pro capite espresso in potere d’acquisto delle regioni degli Stati membri dell’Unione Europea indicano che Calabria, Sicilia, Puglia, Campania, Basilicata, Sardegna e Molise sono le più povere d’Italia, ma anche tra le ultime d’Europa, messe meglio solo di alcune aree di Bulgaria, Romania, Ungheria e Polonia. Le statistiche Eurostat vengono pubblicate annualmente, e leggendole con attenzione non si sarebbe dovuto attendere la Svimez per apprendere che è il Sud-Italia la macroarea più arretrata dell’Eurozona, e non la Grecia. Ma gli economisti dell’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno hanno fatto un po’ di chiasso informando gli italiani del fatto che 1 cittadino meridionale su 3 è a rischio povertà, e che dal 2000 al 2013 il Sud è cresciuto del 13%, la metà della Grecia che ha segnato +24%. Imbarazzante il dato fornito da Confindustria per l’anno 2014: al Sud hanno chiuso oltre 88 mila aziende, e quelle ancora in vita hanno visto calare il fatturato (- 1,8%). Sono crollati i consumi, come pure gli investimenti, ed ecco spiegata la prima vera crisi del Nord.

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, con la colonnina di mercurio sopra i 40 gradi d’Agosto, ha lanciato la bolla contro i piagnistei, ipotizzando per metà settembre un masterplan per il rilancio del Sud. Lo ha fatto alla riunione della Direzione del PD, limitando la discussione al suo partito ed escludendo le altre forze politiche. Il Sud sta ancora aspettando quel masterplan, e fin qui si è dovuto accontentare di una finale tutta pugliese degli US Open di tennis femminile, con Renzi in prima fila a New York invece che a Bari per l’inaugurazione della Fiera del Levante. Mentre il premier faceva proclami, veniva inaugurato il raddoppio di un tratto del Canale di Suez, con nuove opportunità aperte per i porti europei, ma quelli pronti allo smistamento dei container. Non quello di Gioia Tauro, il più grande hub del Mediterraneo, privo di collegamento intermodale e chiuso nel suo isolamento.

 Il fatto è che al Sud l’Alta Velocità non ci arriva, mentre sempre più meridionali fanno il tragitto inverso con biglietto di sola andata. Si mettono alle spalle la loro terra, dove le mafie continuano a impattare sul sistema economico, senza il dovuto contrasto e in nome del clientelismo. È un flusso umano unidirezionale che va a portare vantaggi altrove, senza scambio. È così che si tiene in vita il divario Nord-Sud, un vero e proprio unicum nel panorama dei Paesi economicamente avanzati. Demagogia e retorica, da un secolo a oggi, sono gli strumenti per far intendere che è un’impresa annullarlo.

 

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