La Svezia a caccia di idraulici ed elettricisti

In Svezia mancano esperti di mestieri antichi ma necessari alla vita moderna. In Finlandia ci sono pochissimi blogger. In Danimarca grazie all’uso indiretto di incentivi europei, c’è chi è diventato viticoltore. La Norvegia attira giovane turismo professionale grazie ai suoi stipendi alti. Gli immigrati d’oltreconfine però tornano spesso molto velocemente a casa. È il singolare panorama […]

In Svezia mancano esperti di mestieri antichi ma necessari alla vita moderna. In Finlandia ci sono pochissimi blogger. In Danimarca grazie all’uso indiretto di incentivi europei, c’è chi è diventato viticoltore.
La Norvegia attira giovane turismo professionale grazie ai suoi stipendi alti. Gli immigrati d’oltreconfine però tornano spesso molto velocemente a casa. È il singolare panorama delle professioni che la Scandinavia offre oggi di sé.

In comune questi Paesi hanno una certa invidia atavica per i climi mediterranei che rendono più quotidiano il contatto con la bellezza, della natura e dell’arte. Presupposto, questo, che facilita enormemente creatività, produttività generale e rapporti umani. Questi ultimi costituiscono la nota dolente condivisa dagli scandinavi, poco inclini alla comunicazione diretta e quindi facili prede di rapporti ad alta tensione sul lavoro.

L’esempio più immediato è quello della Norvegia. Il Paese più ricco d’Europa vanta una nota politica del lavoro protezionista. Il fatto di vivere di petrolio con stipendi molto alti non mette i professionisti di ogni rango al sicuro da un futuro post-petrolio incerto. Il timore che benessere e privilegi possano finire da un momento all’altro induce i norvegesi ad un mercato del lavoro “chiuso”, interno ai confini.

Se mancano ingegneri e geologi, ad esempio, preferiscono rallentare i lavori anziché ingaggiare competenze estere che, introducendo competitività, metterebbero a repentaglio gli attuali stipendi alti. Quando invece si tratta di semplice manovalanza, scatta l’abuso classista, come ha testimoniato qualche tempo fa, ai media, Johan Andersson, uno dei 10mila svedesi che oggi lavorano in Norvegia. Moltissimi vi rimangono per un periodo molto breve, perché non reggono la pressione e perché arrivare ad un salario dignitoso non è cosa rapida.

Johan, 25 anni, trasferitosi a Oslo per guadagnare di più, racconta di quanto sia stato semplice trovare incarichi da tuttofare, e di come solo lavorando sette giorni su sette sia passato dall’aver in tasca l’equivalente di 60 euro, ad un reddito annuo che oscilla tra i 70 e gli 80mila euro. Ma racconta anche di come i norvegesi considerino gli svedesi “dei cugini ritardati”, dei balordi dediti unicamente al gioco e alla bottiglia, e di come preferiscano vederli impegnati in incarichi considerati umili, per sentirsi in una posizione di dominio.

In Svezia, d’altro canto, si fatica a trovare elettricisti o idraulici capaci, dopo che diverse scuole professionali hanno chiuso i battenti a causa di iscritti insufficienti, mentre secondo i dati resi noti da Maria Rankka, Amministratore delegato della Camera di Commercio di Stoccolma, la capitale è diventata una delle cinque città più tecnologiche al mondo, con un numero di startup che rasenta la Silicon Valley, New York e Pechino.

In Finlandia, moderna e attraente per l’apprezzata qualità di vita, la professione di blogger, generata dall’era digitale per antonomasia, stenta a decollare. Motivo. Ha appena 5,4 milioni di abitanti e gli interscambi si moltiplicano con fatica e risultano limitati. Difficile anche poter contare su una forma di contaminazione con altri giovani, come ad esempio gli svedesi, perché entra in gioco un conflitto antropologico. Quest’ultimi non sono affatto abituati a fare o a subire critiche dirette, siano esse costruttive e demolitive. I finlandesi, al contrario, vanno dritti al punto senza tergiversare, col risultato che l’interlocutore d’oltreconfine si irrigidisce fino al silenzio.

In Danimarca, infine, una sfida per pochi è diventata professione per molti: la produzione di vino. Il sentire comune vuole che il nettare degli Dei possa maturare solo in climi caldi. Così la Danimarca, alla fine del ‘900 contava appena 10 coraggiosi vignaioli. Nel 1999 Torben Andreasen, giovane agricoltore, decise di riscattare il suo Paese, semplicemente introducendo nuove varietà di uva, capaci di sopportare le temperature più rigide. Viene fondata la Dansk VinCenter ad Avedøre.

Nel 2000 la Danimarca viene riconosciuta dall’Ue come Paese produttore commerciale di vino e quindi beneficiaria di incentivi e finanziamenti. Nel 2009 le aziende divennero 60, oggetto di interesse da parte del Dipartimento dell’Economia danese, che conta oggi oltre 1.400 addetti al settore. Tra essi, tre nomi eccellenti che si sono messi alla prova all’estero: Peter Sisseck, che firma il rosso più costoso di Spagna, il cugino Hans Vinding-Diers, enologo che a suo tempo si è cimentato nel Brunello della Tenuta di Argiano, fino al Principe Henri de Laborde de Monpezat, consorte dell’attuale Regina di Danimarca che nel suo Château in Francia firma tra gli altri il Rosé Principe di Danimarca, che lui stesso serve in tutte le occasioni ufficiali.

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