Siamo uomini o caporali?

Padri o padroni? Ma forse sarebbe più corretto chiedersi, ricordando un celebre discorso di Totò, uomini o caporali? Perché quando si parla di caporalato si entra in un mondo oscuro, fatto spesso di truffe e condizioni disumane. “I caporali sono coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano – diceva Totò – questi esseri invasati […]

Padri o padroni? Ma forse sarebbe più corretto chiedersi, ricordando un celebre discorso di Totò, uomini o caporali? Perché quando si parla di caporalato si entra in un mondo oscuro, fatto spesso di truffe e condizioni disumane. “I caporali sono coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano – diceva Totò – questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla. Caporale si nasce non si diventa; a qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera”.

Di tipi di caporali ce ne sono tanti, arrivano a guadagnare cifre mensili astronomiche sulla pelle dei braccianti che gestiscono; ma bisogna tenere presente che il caporale c’è perché un imprenditore lo ingaggia. “E lo ingaggia – scrivono gli autori del terzo rapporto Agromafie e caporalato (a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto) poiché l’incontro della domanda e dell’offerta nei diversi contesti territoriali non avviene pubblicamente, all’interno di un collocamento trasparente e controllabile”. Centri per l’impiego e agenzie interinali non sono spesso in grado di soddisfare al meglio la domanda di lavoro proveniente dall’agroalimentare nei periodi di raccolta e si ricorre quindi al caporale. Ma si ricorre al caporale anche per avere, da parte dell’imprenditore che si rivolge ai caporali, un costo del lavoro minore. Non solo. Spesso c’è anche la mano della criminalità organizzata.

Il caporalato moderno, tra padroni e speranze

Il dato comune è uno: il caporalato moderno fa leva sulle speranze di una vita migliore e sulla necessità di avere un lavoro per potersi mantenere. Ecco allora che i caporali – quelli al grado più altro della gerarchia – diventano spesso veri e propri padroni della vita di altri: decidono chi far lavorare, per quanto tempo, con quale retribuzione, imponendosi sulla loro fragilità. “La privatizzazione della mediazione sul mercato del lavoro ha svuotato il senso alla ricerca di lavoro come fatto sociale”, spiega Leonardo Palmisanoscrittore e presidente della Cooperativa Radici Future, autore di molte inchieste sul tema caporalato – rispondendo alle nostre domande. “Ci si accredita presso un caporale o un’agenzia – spesso le cose coincidono – e si dipende da questo rapporto personale. Questo priva di valore i contratti e aumenta il potere ricattatorio dei soggetti privati”. E allora, per impedire i ricatti e il controllo dei caporali padroni, cosa si può fare? “Il ritorno al collocamento pubblico può essere una soluzione. Del resto, quando c’era e funzionava i braccianti erano più tutelati. L’altra soluzione è aumentare i contratti a tempo indeterminato in agricoltura, che sono pochissimi”.

Viaggio tra le operazioni contro il caporalato

Il fenomeno del caporalato è ancora purtroppo ben presente. Sono tanti, troppi, i fatti di cronaca che irrompono nella realtà quotidiana lasciando intravedere un’altra realtà, sommersa, che si riesce a percepire come se si guardasse da un buco della serratura. Proprio ai giorni scorsi risale l’arresto di due fratelli in provincia di Cosenza con l’accusa di sfruttamento del lavoro e intermediazione illecita aggravati dalla discriminazione razziale. Secondo le indagini, infatti, i bianchi avrebbero ricevuto una paga più alta rispetto ai neri. Secondo anche quanto riportato dai principali organi di stampa, le condizioni dei lavoratori erano disumane, sotto la morsa della sorveglianza dei due fratelli, i lavoratori in nero erano costretti a mangiare a terra e a vivere in baracche. Ma basta tornare allo scorso luglio, quando la Corte d’Assise di Lecce ha chiuso il primo grado del processo Sabr, che ha visto la condanna di imprenditori e caporali per aver sfruttato e ridotto in schiavitù migranti impegnati nella raccolta di angurie nelle campagne attorno a Nardò. L’inchiesta è partita dopo la rivolta dei braccianti stranieri della masseria Boncuri, guidati da Yvan Sagnet. Condizioni di lavoro disumane, 12 ore di lavoro al giorno sotto il caldo, per una retribuzione tra i 20 e i 25 euro al giorno, 30 per i più ‘fortunati’, controllati da una struttura gerarchica dei caporali, che si trattenevano tra l’atro parte del salario. Sempre dello scorso luglio è l’operazione della Polizia di Stato contro il caporalato denominata ‘Alto impatto – Freedom’, che aveva visto impegnate le Squadre Mobili di Agrigento, Forlì – Cesena, Latina, Lecce, Matera, Ragusa, Salerno, Siracusa, Taranto, Verona e Vibo Valentia, coordinate dal Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine. Erano state identificate 632 persone e controllate una cinquantina di aziende, arrivando a scoprire l’inosservanza delle norme di contribuzione e di sicurezza, oltre a casi di caporalato. In provincia di Ragusa, per esempio, alcuni braccianti venivano retribuiti con 30 euro al giorno lavorando per dodici ore giornaliere; in provincia di Latina i braccianti venivano costretti a vivere in container metallici dalle pessime condizioni igieniche. Questi sono solo alcuni esempi a fronte di casi che stanno diventando sempre di più un triste ordine del giorno.

Le condizioni di lavoro dei braccianti 

Il quadro denunciato dai sindacati è agghiacciante: un lavoro nei campi che dura tutto il giorno, sebbene in alcuni casi – per esempio a Nardò – sia in vigore l’ordinanza anti caldo che vieta di lavorare nei campi negli orari più caldi (a Nardò l’ordinanza è uscita indenne dai vari ricorsi sulla legittimità presentati dalle imprese agricole); una retribuzione che prevede pochi euro all’ora o che addirittura è a cottimo o a cassone riempito; viaggi estenuanti per raggiungere i campi o abitare in provvisorie tendopoli allestite per le raccolte o in casolari fatiscenti. Il problema della presenza dei ghetti non è da sottovalutare: “Il ghetto è un fenomeno sociale determinato dal settore produttivo – spiega Palmisano – Si risolve soltanto con un sistema di accoglienza costruito da imprese, sindacati e enti locali. Non con gli sgomberi, che producono altri ghetti in altri territori. In Spagna ci sono riusciti, in Italia si preferisce non ammettere l’esistenza del fenomeno”. I vari sindacati sono impegnati nella lotta sul campo: da una parte cercano di far prendere coscienza ai braccianti dei loro diritti e dall’altro sono impegnati in costante dialogo con le istituzioni per rivendicare qualcosa che già dovrebbe essere un diritto: la dignità.

I dati

Basta guardare i dati resi disponibili dall’Ispettorato nazionale del lavoro per farsi un’idea delle condizioni dei braccianti in agricoltura. In Italia dal 1 gennaio al 30 giugno 2017 nel settore agricoltura, silvicoltura e pesca, sono state accertate violazioni a 2.217 lavoratori, di cui 78 extra comunitari clandestini. Sono 1.472 i casi di lavoro nero, 234 i fenomeni interpositori di esternalizzazioni fittizie usate per aggirare la normativa in materia di lavoro; 134 gli illeciti individuati in materia di lavoro, 218 le violazioni in merito alla salute e sicurezza lavorativa. E il fenomeno dello sfruttamento nei campi e del caporalato spazia da Nord al Sud dell’Italia: “Al Nord il fenomeno è meno evidente – spiega Palmisano rispondendo a una domanda sulle differenze del fenomeno tra Nord e Sud – perché si ha difficoltà a riconoscere la presenza di fenomenologie criminali e mafiose. Differenze enormi non ci sono, salvo che per i ghetti, tipici del centro Sud”.

Ma chi è il caporale?

Il fenomeno del caporalato solo recentemente è stato riconosciuto come reato, prima con l’art. 12 del Ddl. n.138 del 13 agosto 2011 – che ha introdotto l’art. 603 bis nel codice penale, il quale prevede il delitto di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” – e poi con la legge n.199 del 2016, che riconosce la responsabilità anche al datore di lavoro e che – fra le altre cose – prevede l’istituzione della Rete del lavoro agricolo di qualità, l’organismo nato per rafforzare il contrasto ai fenomeni di irregolarità a cui possono accedere tutte le imprese che ne fanno richiesta e che corrispondono a determinati requisiti. Ma, rispetto alla seconda metà del ‘900, la figura del caporale cambia radicalmente e non in meglio. Secondo le testimonianze raccolte nella tesi di laurea – disponibile on line – ‘Braccianti e caporali, ieri e oggi. Caporalato e lotte bracciantili nella Sicilia Sud orientale nella seconda metà del ‘900’, di Rosario Lupo, il caporale fino alla seconda metà del ‘900 era un bracciante che lavorava insieme agli altri e che grazie alla sua esperienza aveva un rapporto privilegiato con il proprietario o il mezzadro. Il caporale di allora – secondo quanto documentato – poteva guadagnare qualcosa in più rispetto agli altri, che dovevano imitarlo nei lavori. Ora, invece, i caporali sono passati da figura intermediaria dei padroni a essere padroni loro stessi. “Il passaggio è cruciale – spiega Leonardo Palmisano – perché rivela la grande debolezza culturale e morale del sistema agricolo italiano. I caporali diventano fornitori di servizi, dal trasporto alla mediazione sulle pratiche, tanto che le imprese – impigrite da un certo parassitismo, perché dipendono da fondi pubblici europei – si affidano a loro praticamente per tutto quello che serve. Le mafie investono in agricoltura, finanziano gli agricoltori, dunque collaborano con le imprese e i caporali. In territori come la Capitanata e la provincia di Bari e Brindisi questo è evidente”. Non è questa la sede per parlare di criminalità organizzata ma è interessante notare le varie figure del caporalato moderno.

I caporali moderni, tra controllo e profitto       

I caporali, in generale, sono figure di intermediazione tra la proprietà agricola e i braccianti lavoratori. Quando si pensa a un caporale nel senso stretto del termine, viene in mente una figura che controlla la gestione della vita quotidiana dei lavoratori (soprattutto stranieri ma anche italiani): ne gestiscono gli spostamenti, l’alloggio, la paga e i contatti sociali. Il controllo sul bracciante che lavora è pressoché totale. Alcuni sottopongono i lavoratori a veri e propri ricatti e si fanno pagare per il servizio di intermediazione o per quello di trasporto, qualcuno vende anche generi di prima necessità a un prezzo più alto. Di solito c’è una gerarchia precisa: il capo vero e proprio, il vice, i caporali intermedi, magari che lavorano con la squadra e il caporale che si occupa del trasporto. Il guadagno dei caporali varia in base a vari fattori, il posto nella gerarchia – per esempio – o il numero di braccianti che gestisce e controlla. “Un caporale con una squadra di 50 braccianti – specifica Palmisano – arriva a toccare una cifra quotidiana che si aggira attorno ai cinquecento euro. Per una stagione di sei, sette mesi, è una cifra enorme, che spiega il loro arricchimento e conseguente investimento nella terra, che ora costa molto poco”. Poi ci sono i caporali stranieri, magari diventati tali dopo una condizione di bracciante. Il motivo per cui si trova anche questa figura è da ricercare in vari fattori: “Un rapporto linguistico, innanzitutto, tra stranieri. Poi di fiducia tra padrone e caporale. Il caporale assicura che la raccolta avvenga in tempo adeguato. Il padrone è contento e si disinteressa delle condizioni di lavoro e di vita dei braccianti”. Ma fra le nuove forme di caporali ci sono anche i tour operator fittizi: coloro che formalmente sono trasportatori ma che che nella realtà trasportano solo braccianti, per lo più in pulmini stracarichi.

La maschera della legalità e il caso di Paola Clemente

Le nuove figure di caporalato però mettono in atto i meccanismi più svariati, spesso dietro una parvenza di legalità che però è solo una maschera, dando vita al fenomeno del cosiddetto ‘lavoro grigio’, cioè quando il lavoratore è formalmente assunto in modo regolare ma in realtà i contratti non sono rispettati. Questo è purtroppo un fenomeno in crescita e ben spiegato nel rapporto “Agromafie e caporalato”. Ci sono per esempio in alcune aree le cooperative fittizie, quelle che di mutualistico hanno ben poco e che spesso sono gestite da una sorta di caporalato collettivo. L’imprenditore si rivolge loro pagandole di solito una cifra minore rispetto a quella che pagherebbe se ingaggiasse i braccianti in modo diretto. In questo quadro compaiono anche le agenzie interinali (non tutte, sia chiaro) che entrano in un giro dove tutto sembra lecito ma ben poco lo è e che campa sulla pelle dei braccianti, indipendentemente dalla nazionalità.

Come non richiamare alla mente il caso di Paola Clemente, morta nei campi di Andria (Bari) il 13 luglio 2015? Risalgono al febbraio scorso i sei arresti eseguiti dalla Compagnia della Guardia di Finanza di Trani e dal Commissariato della Polizia di Stato di Andria a seguito delle indagini avviate dopo il decesso della bracciante e che hanno smascherato una moderna forma di caporalato dietro un’apparente e lecita fornitura di braccianti agricoli a mezzo di agenzie di lavoro interinali. Paola Clemente allora è divenuta la vittima eroina di un meccanismo venuto alla luce dopo la sua morte: un sistema di sotto pagamento basato su un riconoscimento di minori giornate lavorate, senza le indennità previste dalla legge. Secondo le indagini, ai braccianti sarebbe spettata una retribuzione giornaliera di 86 euro mentre sarebbe stata loro corrisposta una paga di circa 30 euro. Sulla vicenda ancora non sono stati resi noti gli sviluppi: i sindacati attendono il processo.

Ecco allora la maschera della legalità nei contratti: il riconoscimento di un numero di giornate lavorative inferiore rispetto a quelle effettivamente lavorate, le differenze tra l’ammontare della busta paga che il lavoratore firma (prima) e la cifra reale che percepisce (meccanismo questo che porta in sostanza a far pagare i contributi di fatto al lavoratore stesso) o l’occupazione in più aziende in modo che si possano gestire facilmente le giornate lavorative da riconoscere al bracciante. Senza contare la condizione delle donne, che in genere ricevono un salario ancora più basso rispetto a quello degli uomini e che spesso sono ricattate a livello sessuale.

Il caporale pentito

Il mondo dei caporali è ben spiegato da un caporale pentito (non fa più il caporale dal 2015) la cui storia è inserita proprio come testimonianza diretta nel rapporto agromafie. L’uomo è arrivato in Italia nel 2009, ha la patente e ha fatto le superiori. In Italia all’inizio ha lavorato come bracciante e dopo un anno un caporale gli ha chiesto di aiutarlo. “Io appartengo al gruppo di caporali lavoratori – spiega il caporale pentito nel rapporto – nel senso che stiamo con la squadra, ma ci sono caporali che trasportano solo le persone e poi svolgono altre attività illegali. Questo è il motivo che mi ha spinto a uscire dal giro (…). Vendono anche droghe, portano a prostituirsi le donne, hanno rapporti con la criminalità locale (…) e chiedono soldi ai lavoratori dicendo che non lavoreranno più se non accettano le loro condizioni”. E ancora: “Quando il capo è un italiano vuol dire che è davvero un boss, poiché gestisce anche 10/15 furgoni (…) Di questi boss tutti hanno paura (…) caporali che truffano i braccianti non sono rari, così come non sono rari gli imprenditori che promettono una cifra e poi non la rispettano”.

La Commissione parlamentare d’inchiesta: “Taluni imprenditori agricoli preferiscono l’illecito”

Anche il tema del caporalato è oggetto della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con particolare riguardo al sistema della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, nel resoconto degli inizi di agosto di quest’anno.  “Si è potuto accertare che la reale (e non apparente) retribuzione oraria media di un bracciante agricolo da sud a nord varia da 2,5 a 4 euro all’ora per lavori di certo usuranti, spesso con esposizione alle intemperie, senza nessuna garanzia sindacale, contrattuale, di tutela della salute e della sicurezza – si legge nella relazione – (…) con specifico riferimento al settore agricolo la medesima legge 199 del 2016 prevede anche forme positive per aiutare le imprese nel mercato e nella commercializzazione dei prodotti mediante l’istituto della rete del lavoro agricolo di qualità. Ma una mera consultazione del numero di domande giunte soprattutto da quelle province in cui è maggiormente diffuso lo sfruttamento e il caporalato dimostra che taluni imprenditori agricoli preferiscono giacere nella loro attività nell’ambito dell’illecito sfruttamento del lavoro anziché regolarizzare e incentivare la propria azienda attraverso la rete lavoro agricolo di qualità. Rimane sullo sfondo il tema dei controlli. Senza controlli non si potrà mai applicare alcuna legge che tuteli effettivamente il lavoro nella dignità, nell’uguaglianza, nelle garanzie di diritti che il nostro paese ha conquistato ormai da molti decenni. La considerazione che l’Ispettorato Nazionale del Lavoro debba ancora completamente decollare, e che comunque nel campo dell’agricoltura abbia ridotte possibilità di intervento in materia di sicurezza, dimostra che ancora bisogna insistere sulla competenza e sul coordinamento degli ispettori del lavoro e degli ispettori delle aziende sanitarie locali che rimangono l’organo di vigilanza per definizione nell’ambito della sicurezza del lavoro”. Ecco allora i paradossi: ci sono gli strumenti ma in pochi li osservano. Il problema è che la poca attenzione o la poca informazione può portare a gravi condizioni di lavoro che possono avere ripercussioni sulla salute del singolo se non sulla vita.

I sindacati: “C’è la legge ma non sempre corrisponde a realtà”  

La sicurezza e la dignità del lavoro agricolo sono temi prioritari anche per i sindacati. Tuttavia, si apre un nuovo paradosso: quello che la legge scrive in modo chiaro e netto non sempre corrisponde alla realtà. “Nel foggiano la legge 199 non è ancora arrivata – spiega Giovanni Minnini, Segretario nazionale Flai Cgil, che insieme ad altri durante questi mesi si è recato nelle zone tra Lecce e Foggia a parlare con i braccianti. “Si è lavorato alla raccolta del pomodoro e adesso si sta cominciando a lavorare alla raccolta dell’uva da tavola. Tranne qualche piccolo cambiamento, qualche denuncia in più di giornate lavorative, sono le stesse condizioni dell’anno scorso. Sembra che ci siano due livelli: uno teorico – con una legge ben scritta, che oltretutto fornisce tutti gli strumenti e le opportunità alle imprese che vogliono essere nella legalità – e dall’altro lato un mondo reale, che è fatto di campi nei quali le persone continuano a essere pagate ancora 25 euro al giorno, lavorando più ore di quello che il contratto consente”. In ogni caso “c’è la necessità di far partire la rete di lavoro agricolo di qualità. Questa cosa non può essere lasciata cadere nel nulla perché altrimenti si continua a lasciare l’alibi alle imprese che hanno bisogno del caporale per continuare a lavorare. Se non partono queste cose non si può contrastare il fenomeno con trasparenza”. Anche l’Unione Sindacale di Base è andata direttamente sui campi. Ne parla Aboubakar Soumahoro, dell’esecutivo nazionale USB: “Sono gli stessi braccianti a portare avanti il lavoro sindacale, in questo senso abbiamo un buon riscontro”. La posizione è chiara: “Siamo contrari alle intermediazioni. Basta vedere il caso di Paola Clemente”. Anche riguardo i proprietari la posizione è netta: ricevono i contributi e dunque deve esserci il rispetto dei contratti: “Le aziende ricevono parte dei finanziamenti europei tramite le Regioni, ma perché devono ricevere di fatto soldi dai contribuenti se manca il rispetto contrattuale?”. Non manca una riflessione sulle abitazioni: “Proponiamo l’inserimento abitativo in unità abitative dignitose: con l’integrazione di azienda e finanziamenti europei si possono prendere appartamenti e i soldi risparmiati si possono usare per la formazione rivolta a tutti”. Aboubakar ha anche rilasciato recentemente un’intervista al giornale svizzero ‘Le Matin’ (24 agosto 2017) in cui parla proprio del mancato rispetto dei contratti: “Ci sono più controlli contro il lavoro sommerso, per cui ora molti lavoratori hanno contratti. Ma questi non sono rispettati. Quello che dobbiamo fare prima di tutto è cercare di tornare ad una forma di normalità in cui le regole sono rispettate. Per cambiare la situazione, abbiamo bisogno di un’alleanza tra lavoratori, consumatori e, se possibile, una parte degli agricoltori. Perché, se quest’ultimo guadagna meno, il lavoratore sarà necessariamente pagato meno. I lavoratori agricoli devono essere sindacati, a prescindere da dove provengano”.

La strada da seguire: “Ribaltare l’immoralità”

Qui si parla, insomma, di una dignità calpestata, sia che ci riferisca agli italiani sia che ci si riferisca agli stranieri. Nel 2017 i diritti dovrebbero essere garantiti a tutti ma non lo sono, dando spazio a figure come i caporali padroni, che di certo di paterno non hanno alcunché. La strada da seguire? Semplice quanto ovvia, la traccia Leonardo Palmisano: “Per gli stranieri deve valere la regola del “sono come gli italiani”. Quindi contratti simili e certi, giornate registrate, documenti non sequestrati, alloggi sicuri e non di fortuna, integrazione lavorativo, sindacalizzazione e accesso alla sanità pubblica e gratuita, come alle scuole per i figli dei braccianti. Si tratta di diritti sanciti dalla Costituzione, semplicemente”. Ma l’ovvietà dei diritti è calpestata dalla corsa sfrenata al profitto. E allora tutti noi dobbiamo fare fronte comune per – come sottolinea Palmisano – “Ribaltare l’immoralità di un pezzo importante del sistema produttivo nazionale. Le imprese sono responsabili insieme alle multinazionali di questa nuova schiavitù. Una democrazia non lo deve più tollerare, altrimenti ci rimettiamo tutti”.

 

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