Terremoto Marche e lana Sopravissana: la vera pecora è la politica

La lavorazione della lana di pecora è un processo antico che sta perdendo valore nell’Italia odierna. Nei Monti Sibillini però ci sono due donne che hanno scelto di rimanere dopo il sisma e guardare il futuro, studiando e indagando il passato, se pensiamo che l’uso di questa materia prima risale al 5000 a.c.  È la storia […]

La lavorazione della lana di pecora è un processo antico che sta perdendo valore nell’Italia odierna.

Nei Monti Sibillini però ci sono due donne che hanno scelto di rimanere dopo il sisma e guardare il futuro, studiando e indagando il passato, se pensiamo che l’uso di questa materia prima risale al 5000 a.c.  È la storia di Silvia Bonomi e Giulia Aberti, un incontro tra Ussita e Montefortino, la forza di due donne caparbie, volenterose, che hanno riscoperto uno dei più antichi mestieri dell’uomo, la pastorizia.

Da sempre utilizzata per l’abbigliamento, l’arredamento ovvero tendaggi e tappeti, e per le imbottiture di cuscini e materassi, la lana di pecora rientra perfettamente nell’urgenza ecologica che stiamo vivendo, un nuovo metodo di osservare il rispetto della natura e dell’ecosistema.

Proprio la sua riscoperta diventa una sfida per il recupero di lane locali italiane che da rifiuto diventano risorsa.

Due volte l’anno, il mondo della pastorizia, oltre la produzione del latte e della carne, produce centinaia di quintali di lana tosata che il mercato non riconosce più vendibile ma onerosa da smaltire per l’allevatore. Questo prodotto potrebbe al contrario diventare una vera e propria risorsa del territorio che la produce, identificarne le peculiarità e la forza delle tradizioni. Se negli ultimi anni, il consumo e l’uso della lana hanno subìto una forte contrazione, si può affermare che l’uomo non ha saputo ricreare con le fibre sintetiche le stesse caratteristiche della lana. Dopo la tosatura, la raccolta, successivamente lavata e cardata, veniva filata ed erano proprio le donne, più o meno giovani, a occuparsi di questa lavorazione.

Paradossi dal cratere

“Essere allevatore di pecore, in montagna”, racconta Silvia, “vuol dire ripercorrere le strade, gli usi e le tradizioni dei nostri nonni. Vuol dire lavorare duramente, avere orari impossibili, zero giorni di ferie, ma vuol dire anche avere tante soddisfazioni, soprattutto quando si riesce a focalizzare l’attenzione sui nostri territori, duramente colpiti dal sisma, attraverso la qualificazione e creazione di prodotti locali.

Dopo il sisma, Silvia, come Giulia e tanti altri allevatori sparsi nel vero cratere sismico, si ritrovano ogni giorno a lavorare alle prese con difficoltà amplificate.

“Abbiamo lavorato in condizioni proibitive, facendo andirivieni forzato dal mare dopo il 30 ottobre 2016, percorrendo 250 km tra andata e ritorno”, prosegue.

Adesso Silvia vive in un modulo abitativo provvisorio, in condizioni sgradevoli anche a causa della scarsa coibentazione.

Lavorare e allevare il bestiame in territori montani era complicato già prima del sisma. Non si sono mai riconosciute davvero le evidenti differenze con le zone pianeggianti e meno esposte a climi duri, quelli invernali con metri di neve da spalare. Una differenziazione richiesta a gran voce dall’inizio del post sisma e che mai concretamente ha trovato accoglimento da parte di nessun Governo o istituzione con potere decisionale. Dopo il terremoto, con le macerie ancora da smaltire, gli allevatori si sono trovati a combattere con ulteriori criticità.

Le agevolazioni da parte del Ministero dell’Agricoltura si sono rivelate erogazioni a macchia d’olio. I beneficiari maggiori sono stati tutti quegli allevatori che spostano gli animali in montagna nei mesi estivi, e dunque posseggono un maggior numero di capi. Ma lo sforzo e il sacrificio maggiori appartengono al contrario a quelli, come Silvia Bonomi, che sono stanziali, ovvero vivono quotidianamente in montagna con il bestiame, tutti i mesi dell’anno, e non possono permettersi numeri di capi elevati proprio perché, durante il rigido inverno, devono mantenere e alimentare il gregge, in stalla. Oltre il danno, la beffa: possedendo un numero minore di pecore o di mucche, gli allevatori colpiti seriamente dal sisma sono stati quelli meno agevolati.

 

Pecore Sopravissane al pascolo

Pecore Sopravissane, donne ardite

La grinta che contraddistingue le persone abituate alla montagna – in questo caso le donne del cratere sismico – hanno fatto sì che i Sibillini non perdessero i veri guardiani della loro bellezza, che si battono regolarmente per i loro diritti, per far conoscere i territori, con le asperità che li contraddistinguono. L’approccio alla lavorazione della lana racconta proprio la simbologia del passato, la continuità con quello che è in fondo al cuore, all’infanzia, tra i racconti della gente che conosci sin da piccolo.

Silvia e Giulia non hanno fatto altro che ascoltare il luogo che le circonda, nonostante la devastazione del sisma, ascoltarsi tra di loro e diventare “resistenti” grazie alle proprie origini, allo studio di esse, alla volontà ferma e decisa di fare dell’unione una forza e una risorsa. Combattere il vicino di casa, piuttosto che quello poco distante, non aiuta il territorio a crescere e a farsi conoscere.

La forza di queste due donne punta a superare quella delle pecore che allevano, le Sopravissane. Non bisogna limitare il lavoro dell’allevatore al semplice governo del bestiame. Silvia Bonomi è un esempio valido, per capire cosa rappresenta la figura dell’allevatore oggi, quanto tesoro abbiano fatto degli insegnamenti dei nonni, ma di come si ritrovino a doversi informare, conoscere, migliorare, soprattutto pensando alla burocrazia che attanaglia il lavoro già di per sé faticoso.

I capi certificati di pecora sopravissana” – spiega Silvia, che tiene particolarmente al giusto riconoscimento della razza autoctona – sono circa 1800 su suolo nazionale. Fino al 2016 è stato tutto poco chiaro, purtroppo. Il fallimento di Ara Marche, Associazione Regionale Allevatori, aveva comportato il poco controllo sul territorio, quindi qualsiasi pecora col vello simil-Merinos era ritenuta Sopravissana. Ora che ha preso in mano la situazione la direzione centrale ASSONAPA (Associazione Nazionale della Pastorizia), i numeri si sono notevolmente ridotti, ovviamente a discapito di quei furbetti che per lungo periodo hanno usufruito di contributi ed agevolazioni. Meglio così, comunque, almeno si hanno dati certi su cui iniziare a lavorare.”

Reti di lana

Silvia ha deciso di puntare sulla lana in un momento storico che non riconosce ancora pienamente il valore assoluto di questa materia prima, e ha scelto di farlo creando rete e condivisione con un’altra ragazza, Giulia.

“A nostro avviso, dati anche gli eloquenti segnali che ci sta inviando il pianeta – dice Silvia – dobbiamo effettuare un “progresso inverso”: abbandonare le fibre sintetiche, colpevoli di aver devastato il pianeta, in virtù di fibre naturali eco sostenibili, riciclabili, rinnovabili. Un maglione di lana, ci teniamo a ricordarlo, è letteralmente eterno perché lo si può rinnovare più volte. Ovvio che le fibre naturali animali e vegetali debbano essere di buona qualità, e la lana Sopravissana è una lana a derivazione Merinos.

Che mercato incontra la lana, oggi? Preparato, disinteressato, attento, curioso? “Sta tornando alla ribalta. Abbiamo ricevuto molte telefonate e mail di persone interessate al nostro progetto in cordata, tra cui anche alcune importanti firme della moda. Vedremo cosa ne verrà fuori.”

Le due giovani donne sognano di rilanciare la maglieria con la lana della pecora sopravvissana. Il progetto mira a diventare volano economico e apre nuove possibilità, anche ad altre donne appassionate di allevamento e pastorizia che vivono nei Sibillini. Dopo il sisma del 2016, potrebbe essere dunque la lavorazione della lana un nuovo spunto di rinascita e ripresa economica, sociale e collettiva.

“Giulia Alberti è stata una conoscenza provvidenziale, la famosa “manna dal cielo”, racconta. “Lei sta sviluppando un progetto nel comune di Montefortino che vedrà la nascita di un altro piccolo nucleo in conservazione di pecore Sopravissane e un lanificio in grado di trasformare la lana di pecore dal vello sucido, ovvero appena tosato, in filo. Un miracolo tutto marchigiano che torna a vedere la luce. Montefortino infatti era un Comune famoso per la lavorazione della lana e comparto di maglieria. Questo terremoto ci è servito anche per capire che quando si stenta ad andare avanti bisogna voltarsi indietro ed imparare nuovamente dal passato”.

Rilanciare un prodotto totalmente naturale, senza alcuna fibra sintetica, potrebbe rappresentare anche per le zone del sisma una nuova cultura di prospettive in termini professionali, la riscoperta delle origini e l’unione tra le imprese agricole del territorio dei Sibillini. Partendo da una razza che si stava estinguendo, si potrebbe raggiungere il traguardo di un nuovo circuito produttivo, tutto marchigiano.

“Fare rete, specialmente tra donne – ci spiega Silvia – “aiuta la correlazione tra un prima e un dopo”.

Il risvolto, oltre che economico, potrebbe essere anche sociale e comunitario?

Decisamente. Sappiamo che un filo di lana pregiata, invisibile e impalpabile come il miglior cachemire dei Sibillini, tenace e resistente come la miglior lana sa essere, aiuterà una serie di realtà femminili imprenditoriali ad entrare in cordata, a mettersi in gioco, ponendo al centro le proprie competenze, la sperimentazione di nuovi percorsi, la creazione di nuovi prodotti unici ed inimitabili che i turisti potranno trovare solo venendo a conoscere il territorio del cratere marchigiano così duramente colpito dagli eventi sismici.

Il gomitolo della perseveranza, delle idee, dello studio, dell’amore per la propria terra, tutto al femminile, si sta avvolgendo nel cuore dei Sibillini.

 

Foto di copertina: ledonnedellalana.it

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