Uscire dall’azienda e mettersi in proprio: ne vale sempre la pena?

Il sognare un chiringhito in riva la mare a Santo Domingo, gestire un agriturismo in Salento o un B&B alle Cicladi sono tutti elementi costituenti della sindrome post ferie. Il solo pensiero di rientrare nei grigi vestiti dell’ufficio, la sveglia del mattino, il traffico in tangenziale, la coda alla mensa, le giornate trascorse tra quattro […]

Il sognare un chiringhito in riva la mare a Santo Domingo, gestire un agriturismo in Salento o un B&B alle Cicladi sono tutti elementi costituenti della sindrome post ferie. Il solo pensiero di rientrare nei grigi vestiti dell’ufficio, la sveglia del mattino, il traffico in tangenziale, la coda alla mensa, le giornate trascorse tra quattro mura con persone che mai avremmo scelto come accompagnatori nel nostro Tempo ci proietta verso alternative improbabili e oniriche.

Sindrome post ferie a parte, c’è chi, ogni anno,  tra i lavoratori “subordinati”, decide spontaneamente o forzatamente di intraprendere la strada del lavoro autonomo.

Nel corso degli ultimi 5 anni si sono aperte ogni anno in media 500 mila nuove partite IVA, registrando un picco di 574 mila nel 2014, in virtù di un regime fiscale “di vantaggio”.

L’Osservatorio sulle Partite Iva del MEF di luglio conferma la tendenza in flessione, già registrata nel 2015: siamo a -10,7% rispetto all’anno precedente, riduzione che riguarda in particolare le società di persone e la fascia dei giovani fino a 35 anni. Malgrado questa tendenza, il confronto con l’anno precedente mostra un aumento tra quelle appartenenti alla fascia di età tra i 36 e i 50 anni. Chiaro segno che l’esodo tra lavoro dipendente e lavoro autonomo sta continuando e riguarda soprattutto ed ancora gli “over 40”.

Laddove la scelta di chi decide di mettersi in proprio è autodeterminata, il desiderio di riappropriarsi del proprio tempo è sicuramente uno degli elementi motivazionali più presenti. Il tempo del lavoratore dipendente è scandito dalle regole della timbratura, della pausa pranzo, delle scadenze di budget, delle riunioni. Il tempo è sempre e solo χρονος (chronos) , il tempo quantitativo, quello dello scandire cronologico, inesorabile e indeformabile. Una piccola violenza quotidiana al nostro tempo personale, al tempo interno o καιρός (Kairos) “momento giusto o opportuno”, il tempo qualitativo, quello autodeterminato e sentito. Tempo per fare le cose che ci  piacciono, che ci appagano.

Decidere del proprio tempo, cosa fare e cosa non fare, cosa mettere prima e cosa dopo. Identificare i propri obiettivi e darsi le priorità e non subire le imposizioni di un sistema standardizzato, talvolta sordo e cieco all’innovazione e al cambiamento. Appropriarsi o riappropriarsi della libertà di fare e di sbagliare, della facoltà di scegliere e di rischiare. Questa spinta è tanto più forte quanto più si possiede competenza e autonomia di pensiero, quanto più si è consapevoli delle proprie capacità e potenzialità.

“So fare tante cose e le so fare bene, è ora che lo faccia per me e non per qualcun altro” mi ha detto qualche settimana fa una persona che conosco e che stimo. Si tratta di una giovane donna che ha sviluppato quelle che vengono chiamate capacità manageriali: definizione delle strategie, pianificazione delle attività, problem solving, comunicazione e coinvolgimento delle persone. Lei sente di portare valore in quello che fa ma che questo valore non le è riconosciuto lì dove lavora. Dare un senso al nostro agire quotidiano, portare valore aggiunto è una delle leve più potenti della motivazione, non solo al lavoro. Quando questo bisogno viene disatteso ci si trova di fronte a persone ed organizzazioni piatte e senza futuro.

Per questo mi sento di poter affermare che le motivazioni  ad uscire dall’azienda sono inversamente proporzionali alla capacità che l’organizzazione ha di gestire e motivare le sue persone. Forse basterebbe fare un questionario sui desideri di fuga e sulle motivazioni di questa fuga per sostituire le indagini di clima aziendale.

Quando è così, quando la scelta di uscire è di natura reattiva perché non ci si sente valorizzati e compresi, il rischio che l’esperienza del lavoro in proprio si traduca in un fallimento è molto alta. Non per altro che per i presupposti.

Fare impresa mette in gioco competenze che solo in parte si sviluppano in azienda. 

Non basta sapere le cose di cui si tratta ma è necessario comunicarle e venderle. Spesso chi decide di fare il consulente, lo fa perché è uno specialista nel suo ambito, che sia la Selezione, il Controllo di Gestione, i processi di Internazionalizzazione, il Change management. Ma come farlo sapere ai potenziali clienti (prospect)? Allora tutti, ma proprio tutti, si costruiscono un bel Sito Internet! Investono parte del TFR o dell’incentivo all’esodo, ci mettono dentro la spiegazione più o meno accattivante dei servizi offerti, i “contatti” e poi aspettano. Perché in Azienda tutti sanno dove andare per cercare quella competenza, la competenza è associata al ruolo e poi alla persona. La dimensione organizzativa abilita il riconoscimento. Ma in assenza di un’organizzazione, cosa davvero certifica, garantisce e dimostra la competenza?

Allora è necessario mettersi in gioco in prima persona nel proporsi e nel dimostrare, ma come? Per fortuna viviamo nel mondo dei social, del Personal Branding e della reputazione on line. Un piccolo piano di marketing personale: come mi hanno insegnato a L’Oréal, si inizia sempre dalla Value proposition – qual è l’atout, il mio valore unico e distintivo – poi si definisce il target – a chi è rivolto il mio prodotto, il mio servizio – e poi la definizione delle azioni per avvicinare il target. Ma come recita la tesi #1 del Cloutrain Manifesto: i mercati sono conversazioni.

E allora bisogna conversare. Conversare e donare il proprio know-how. Raccontare le proprie esperienze sui social, condividere le soluzioni applicate, farsi conoscere attraverso ciò che sappiamo offrire, con generosità ed autenticità. Questa è la parola magica: autenticità.

E’ un impegno di tempo e di energie, un investimento sul medio termine.

Ecco, l’imprenditore tipico è capace di visione strategica a lungo termine e contemporaneamente ha la capacità di trasformare la visione in azioni concrete, operosità sul breve. Questa capacità apparentemente “schizofrenica” di far convivere gli opposti,  l’altitudine della strategia e la concretezza della sua realizzazione, è una competenza e forse un’attitudine che difficilmente si sviluppa in azienda se non attraverso attenti percorsi di sviluppo. E, quindi, chi fa impresa provenendo dall’azienda spesso si trova nell’impasse del non saper “cosa fare per” o di non saper dove andare. Anche qui ci vuole metodo ed applicazione. Forzarsi anche con l’aiuto di qualcuno ad individuare gli obiettivi – il “futuro desiderato”, direbbe un coach – e stabilire un piano d’azione per ognuno dei sotto-obiettivi. E perseguirlo con metodo, allineando e adattando costantemente i due aspetti.

Detto ciò andiamo a dire ciò che nessuno dice mai del lavoro autonomo.

E’ vero che nessuno ti dice cosa fare e come farlo, è vero che tutto dipende solo da te, è vero che sei padrone del tuo tempo, ma è altrettanto vero che sei solo.

Questa, della solitudine, è una variabile spesso non considerata nei suoi tanti significati. E per chi, come me per esempio, trova appagamento personale e professionale dalla relazione con gli altri, con i colleghi; ama lavorare in gruppo o ancor meglio, ha la mente che gli si attiva in presenza del confronto o del contraddittorio; ha bisogno “fisico” di parlare con qualcuno. Insomma per chi ha una propensione particolarmente spinta alla socialità e alla relazione, il lavoro autonomo può rappresentare un’area di sofferenza.

Il non far parte di un’organizzazione che stabilisca regole e ruoli, confini e responsabilità, senso di appartenenza a un qualche cosa di più grande di me come individuo.

Il non poter più rispondere alla domanda inevitabile nel processo di riconoscimento sociale e/o conoscenza personale “che lavoro fai?” con un Job Title specifico, vantare un ruolo, ma essere confuso nell’insieme vasto dei Consulenti*.

Il non poter contare, almeno inizialmente, su una retribuzione fissa e costante, se pur piccola, tutti i mesi. Poter tollerare di non avere visibilità sui guadagni. Premurarsi a fare anche recupero crediti. Essere capaci di gestire una piccola contabilità personale. Acquisire competenze in ambito fiscale per non essere completamente alla mercé del commercialista per la fatturazione o la gestione dei costi deducibili e non. Accettare di avere più problemi di prima, in questa terra d’Italia, per accedere a mutui e finanziamenti.

Sentire il peso e la responsabilità diretta sulla sostenibilità economica di altre persone , di altre famiglie.

Queste sono tutte questioni che ci si deve porre prima di affrontare una strada “in proprio”.

Non tutti siamo fatti per essere imprenditori, sia che questo significhi ditta individuale o di capitali. Spesso ci si improvvisa perché mossi dal famoso impulso di fuga da sindrome post ferie o più comunemente perché obbligati da un Piano di ristrutturazione Aziendale. Ma fare il lavoratore autonomo o l’imprenditore è un mestiere, spesso un altro mestiere, per il quale bisogna sviluppare competenze specifiche in modo da poterlo affrontare e agire con consapevolezza e soddisfazione.

Uscire dall’azienda e mettersi in proprio: se ne valga sempre la pena lo sa soltanto ognuno di noi.

 

(Photo credits: Eutah Mizushima / unsplash.com)

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