Angela Deganis

È verità universalmente riconosciuta che un manager da solo, seppur provvisto di buone competenze, ha bisogno degli altri per vivere felice e contento sul posto di lavoro.

Si può essere felici sul posto di lavoro?

Non lo diciamo per educazione, per pudore, per paura di ritorsioni, ma sappiamo che a volte lungo i corridoi lavorativi serpeggiano malcontenti, relazioni complesse, difficoltà di comprensione. Ne sono sempre più cassa di risonanza i movimenti globali delle Grandi dimissioni e del Quiet quitting, scaturiti nei casi più felici da queste medesime riflessioni e, in quelli più gravi, da situazioni di sopruso e abuso verso lavoratori non retribuiti, mal pagati e talora vessati, maltrattati.

Non c’è solo da assistere al fenomeno, c’è da chiederci che fare, soprattutto chiederci cosa succede dopo che ce ne siamo andati o cosa fare se proprio non possiamo andarcene perché frenati dal mutuo o dall’affitto da pagare, dal mantenimento dei figli, da un mercato lavorativo che ci offre poche possibilità di scelta.

“A volte sei tu che mangi l’orso. A volte è lui che mangia te”, asserisce Sam Elliott in una scena di quel sincretico connubio di saggezza che è Il grande Lebowski, film dei fratelli Coen. 

Chiediamoci se possiamo accettarlo o se abbiamo margini di azione, e quali.

Offro alcuni spunti di riflessione che potrebbero aiutarci a sostenere la nostra immagine allo specchio anche a fine giornata.

Testa e cuore

Stare bene è questione di testa e di cuore. Testa per prendere consapevolezza di chi siamo noi, di chi è l’altro – il collega, il capo – e di quali sono le regole che sottendono la struttura che ci ospita – l’azienda, il negozio, l’agenzia, la scuola. Cuore per accogliere noi stessi e gli altri e insieme capire come convivere.

E se la nostra felicità lavorativa avesse proprio a che fare con le coordinate temporali e spaziali della fisica della testa e del cuore, con la misura temporale (meno tempo indefesso chini sulle scrivanie), con la distanza spaziale (meno coinvolgimento emotivo) e con un sapiente gioco di sottrazione?

In questa matrice della felicità possiamo stare meglio se dedichiamo un giusto numero di ore e di energie all’occupazione professionale e con la giusta distanza emotiva; possiamo invece star male se lavoriamo non stop, con un forte approccio identitario alla professione, confondendo chi siamo con quello che facciamo. Oppure diventare stachanovisti, equilibrati nonostante le stra-ore lavorative ma soli perché sempre in ufficio; per non dire rigorosi del cartellino, quelli che non stanno più di otto ore di lavoro ma le vivono una a una con sofferenza.

La rete

Sappiamo che da soli non ce la possiamo fare e che l’unica possibilità di uscita è il networking, fare rete tra di noi, solidarizzare tra anime affini e rimboccarsi le maniche. È il superpotere delle relazioni, garanzia di una vita longeva e felice, come attesta la ricerca dell’Harvard Study of Adults Development iniziata a Boston nel 1938 e conclusasi 85 anni dopo su un campione di 2000 persone. Il risultato? Chi intesse relazioni appaganti con il prossimo, con cui condividere gioie e dolori, vive più a lungo e meglio. Ed è meraviglioso.

Umorismo

Sorridere allunga la vita e la carriera. Un sorriso che nulla ha a che fare con la satira sprezzante ma affonda le sue radici nell’empatia, nell’accoglienza, nella comprensione dell’altro e nella capacità di sorriderne insieme. Proprio quell’erma bifronte che sorride del pianto della faccia opposta di cui parla Luigi Pirandello nel saggio critico “L’umorismo” del 1908.

Ikigai

La disciplina giapponese della ‘ragion d’essere’ ci aiuta ad apprezzare le piccole cose quotidiane, a focalizzarci sul ‘qui e ora’, circondandoci il più possibile di serenità, e a portare valore nelle nostre vite e in quelle degli altri.

Pensiero

Non rinunciamo mai alla riflessione, all’usare la nostra testa, al capire cosa ci circonda, parlandone con gli altri, aiutandoci con letture che sviluppino il nostro senso critico.

 

Se leggendo vi è sembrato tutto banale o retorico, vi invitiamo a praticare alcune di queste stupefacenti banalità.

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