Infrastrutture e conflitti locali, come se ne esce?

Le Opere Pubbliche com’è ben noto rappresentano un formidabile volano di sviluppo locale e riproducono quindi un critico crocevia d’interessi politico-elettorali, finanziari, ambientali e occupazionali. Ma non tutte le Opere Pubbliche sono uguali: se per la costruzione di scuole, ospedali, case popolari, tali interessi sono comunemente convergenti e la programmazione e l’esecuzione dei lavori non […]

Le Opere Pubbliche com’è ben noto rappresentano un formidabile volano di sviluppo locale e riproducono quindi un critico crocevia d’interessi politico-elettorali, finanziari, ambientali e occupazionali. Ma non tutte le Opere Pubbliche sono uguali: se per la costruzione di scuole, ospedali, case popolari, tali interessi sono comunemente convergenti e la programmazione e l’esecuzione dei lavori non trovano particolari opposizioni e ostruzionismi (sia a livello dei partiti, con un consenso bipartisan, sia a livello di lobby locali), le infrastrutture vere e proprie, legate cioè al sistema dei trasporti, dell’energia, del ciclo dei rifiuti, scatenano invece interessi non solo divergenti ma di solito conflittuali.

Questa dicotomia vale non solo per le Opere Pubbliche ma anche per gli investimenti privati, quando un imprenditore, nell’ambito della programmazione pubblica o delle opportunità offerte dalla legislazione vigente, decide di impiegare denaro nel campo delle infrastrutture, ugualmente gli interessi divergenti entrano in competizione e l’investimento diventa “meno brillante”. Se la divergenza o convergenza d’interessi sono sempre state il campo di battaglia proprio della politica, la vera recente novità è il modo in cui negli ultimi anni si è trasformato il terreno in cui gli attori sono chiamati a intervenire.

Alla base di questi mutamenti troviamo quel fenomeno sociale e politico denominato sindrome NIMBY (Not In My BackYard – il cui significato corrisponde a “non vicino a casa mia”) che si sviluppa – dal basso, più o meno spontaneamente – su fronti diversi: quello amministrativo, quello sociale, coinvolgendo un numero crescente di cittadini e quello della percezione, in quanto i comitati fanno in genere ricorso a slogan e parole d’ordine di grande impatto ma di dubbia fondatezza scientifica, che assumono forza di verità anche grazie alla reiterazione e alla semplificazione estrema.

Specularmente al rigetto da parte dei cittadini ad avere nuove opere infrastrutturali sul proprio territorio, che si presuppone possano portare danni in campo ambientale, si sviluppa nelle amministrazioni pubbliche, soprattutto da parte degli esponenti politici, il cosiddetto NIMTO (Not In My Term of Office, il cui significato corrisponde a “non durante il mio mandato elettorale”), un modo di agire che porta a prendere tempo, a evitare di decidere per timore di provocare ripercussioni sul consenso degli elettori. Ma la sindrome NIMBY è in grado di allargarsi, superare i confini del proprio giardino e/o della propria comunità, ingigantirsi fino a diventare NIABY (Not In Anyone’s Backyard, “no nel cortile di nessuno”), essere più incisivo come BANANA (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anyone, “non costruire assolutamente nulla in nessun luogo vicino ad alcuna persona) o NOPE (Not in Our Planet Earth “non sul nostro pianeta terra”).

È poi importante sottolineare come molto spesso gli acronimi richiamati sopra (solo una piccola parte dei quali sono effettivamente circolanti nel nostro Paese) vengano utilizzati come sinonimi, dando per scontata la prospettiva dalla quale si collocano nella lettura dei fenomeni oppositivi. Al contrario, un’analisi un po’ più attenta consente di operare delle distinzioni significative. In particolare negli Stati Uniti si parla di razzismo ambientale perché si è scoperto che le minoranze razziali, gli afro-americani, i latini, i nativi, sono più esposti ad ogni tipo di inquinamento. Insomma più che di NIMBY, si parla di PIBBY (Put Into Black’s BackYard, “metti quello che ti dà fastidio nel giardino del nero”).

Ma esiste anche una notevole differenza nell’articolazione della società civile, cioè tra movimenti e tra associazioni di categoria o quelle riconosciute (con decreto ministeriale per la tutela di interessi ambientali o culturali). Infatti, a dispetto delle prime, le seconde hanno un ruolo preciso nella formazione del processo decisionale: ruolo che può essere diretto (partecipazione a commissioni consultive, osservatori, ecc.) o indiretto (possibilità di lobbying in fase propositiva o di ricorrere alla magistratura amministrativa in fase autorizzativa/realizzativa). Invece i comitati non hanno capacità giuridica e quindi sono esclusi dal processo decisionale formale e non possono neppure bloccare un’opera con ricorsi al TAR, in quanto non portatori di interessi legittimi (quando ricorrono alla magistratura amministrativa lo fanno tramite soggetti terzi abilitati, generalmente associazioni riconosciute come WWF, Italia Nostra, ecc.).

Eppure sono proprio i comitati ed i movimenti ad avere la maggiore visibilità mediatica, assumendo il ruolo di opinion leader, e quindi il potere di influenzare, a volte anche in maniera determinante, l’agenda politica, portando una radicale metamorfosi nel processo di decision making in tutte le sfere politiche e istituzionali. E in questo mutamento non pochi osservatori intravedono un pericolo per la democrazia.

Infatti un eccesso di democrazia, intesa come partecipazione, come libertà di tribuna,  può portare a una devianza, ad una degenerazione del sistema politico, sempre meno in grado di definire autonomamente la propria agenda e sempre meno in grado di confrontarsi con una certa parte dell’opinione pubblica, svincolata dai canali tradizionali di costruzione del consenso. Queste difficoltà della democrazia e del sistema politico sono ben evidenti dinnanzi a quelle che vengono definite appunto le “sindromi da contestazione”, cioè quelle forme di protesta nei confronti dell’establishment da parte di singoli e privati cittadini che, sfiduciati dalle forme e canali di rappresentanza, si autorganizzano in movimenti civici e comitati spontanei per manifestare la propria contrarietà a determinate scelte politiche, principalmente – ma non esclusivamente – connesse alla realizzazione di infrastrutture. È infatti sintomatico che queste proteste nascono praticamente tutte con lo stesso obiettivo, cioè l’essere “contro” a qualcosa (sono rarissimi i casi in cui i cittadini si aggreghino spontaneamente “per” qualcosa) e si differenziano tra loro piuttosto per i risultati perseguiti e per le modalità di lotta.

Ecco quindi che negli ultimi decenni la costruzione di infrastrutture pubbliche, impianti per lo smaltimento dei rifiuti, centrali per la produzione di energia elettrica o siti industriali viene sempre più di frequente osteggiata dalle comunità locali, che temono gli effetti negativi derivanti dalla loro realizzazione. Le cause della conflittualità territoriale sono molteplici e spesso legate fra loro. Uno dei fattori scatenanti è l’ineguale distribuzione dei costi e dei benefici. Generalmente, a essere messa in discussione non è quindi l’utilità dell’impianto o dell’infrastruttura, necessari a soddisfare gli interessi generali (mobilità, produzione di energia, smaltimento dei rifiuti), quanto il fatto che la popolazione locale sarà l’unica a sopportarne le temute conseguenze negative in termini d’impatto ambientale, rischi per la salute, effetti sulla qualità della vita.

Ma la percezione del rischio legata al nuovo impianto, e il senso di paura che naturalmente ne deriva, è talvolta accresciuta da aspetti emotivi e irrazionali, che la mancanza di trasparenza e di un’adeguata campagna d’informazione da parte delle istituzioni e delle imprese coinvolte non aiuta a sconfiggere. Il misconoscimento della necessità di coinvolgere i cittadini, la cui coscienza ambientale è andata crescendo nel tempo, mette in evidenza una carenza culturale nell’azione di amministrazioni locali e aziende, che spesso sottovalutano il tessuto sociale, generando così opposizioni locali incontrollate. Ma se proviamo a ribaltare il punto di osservazione della questione, a vedere il rovescio della medaglia, si nota come accanto a questo fenomeno se ne verifica spesso uno opposto.

L’opposizione alla realizzazione degli impianti nasce nella maggior parte dei casi semplicemente da un pregiudizio ideologico e da considerazioni di natura elettorale, non su un dibattito aperto, trasparente e approfondito sulla sostanza dei progetti, sulle necessità del paese e sui diritti dei cittadini. Anche i partiti semmai ci mettono del proprio, sfruttando queste occasioni per creare consenso (ed è statisticamente un atteggiamento bipartisan). E così il conflitto si è spostato: non si assiste più solo a un dibattito tra movimenti di cittadini che non vogliono la realizzazione di un’opera e chi la promuove e intende realizzarla, ma tra le maggioranze e le opposizioni politiche a livello locale, o tra le pubbliche amministrazioni locali e il governo centrale. La dimostrazione sta anche nel fatto che persino investimenti della cosiddetta “Green economy” vengono contestati: secondo il rapporto del Nimby Forum rispetto alle centinaia di impianti contestati, la metà sono da fonti rinnovabili. In particolare, sono aumentati i contenziosi riguardanti l’installazione di impianti a biomasse, eolico, e fotovoltaico.

Neanche troppo implicitamente, dunque, si vorrebbe alludere al fatto che dietro le reazioni oppositive si celino presunti interessi egoistici e localistici, “spiegando” di fatto le proteste con una sorta di deficit di “cultura civica” da parte della popolazione interessata. In altri casi, invece, si preferisce insistere sul fatto che l’antagonismo derivi dall’ignoranza, da una precaria o assente alfabetizzazione scientifica: chi protesta, in sostanza, non possiederebbe le cognizioni minime per capire i fatti più elementari della scienza, per questo non si fida, non ascolta, non comprende le ragioni degli esperti. In preda a una percezione del rischio eccessiva e irrazionale, rifiuta i numeri che scienziati e politici gli elencano in ogni incontro pubblico, e, con questi, rimanda al mittente anche i progetti che, sui quei numeri, si voleva fondassero la propria solidità.

Di fronte a questi fatti persino le istruttorie degli enti di controllo (ARPA, ASL, Genio Civile, Autorità di Bacino, ecc.) e dei tecnici chiamati a fornire il proprio parere risultano poco credibili e chi è convintamente contrario ad un’opera preferisce farsi una propria opinione navigando su internet e dare più credibilità ai blog ed ai gruppi su facebook piuttosto che ad ingegneri e periti della Pubblica Amministrazione. In altre parole più che ricercare informazioni e dati oggettivi sull’oggetto del contendere, spesso i contestatori vanno alla ricerca di mere conferme al proprio convincimento.

Ma allora come se ne esce? Sul terreno dei processi decisionali relativi alle opere infrastrutturali, occorrerebbe passare dal government alla governance, vale a dire dal governo come azione del soggetto pubblico che provvede direttamente a fornire soluzioni ai problemi, al governo come insieme delle azioni di soggetti diversi pubblici e privati. Con la governance, insomma, si intende un processo fondato su rapporti di collaborazione tra settore pubblico, settore privato e società civile che colloca al centro la dimensione concertativa e consensuale in modo da prevenire le proteste e i conflitti che solitamente insorgono di fronte a scelte calate dall’alto e da responsabilizzare i cittadini nei problemi che li riguardano. Nelle società post-industriali i conflitti in materia ambientale sono destinati a lievitare e, dato il contesto in cui insorgono, non si può pensare di risolverli con soluzioni autoritarie e unilaterali definite a valle della protesta (basti vedere come il cantiere dell’alta velocità in val di Susa sia diventato un serio problema di ordine pubblico).

Al contrario si tratta di scelte da condividere con gli interessati, non solo per anticipare i conflitti ma anche per valorizzare bisogni ed esperienze concrete – una sorta di “capitale sociale” – finalizzati a definire interventi più vicini alle esigenze reali e alle domande degli attori locali. Per uscire dall’impasse e, per dirla con Milton Friedman, dalla “tirannia dello status quo”, la via preferibile in una società aperta e democratica, insomma, è costruire e gestire il consenso sviluppando procedure di dialogo e rassicurazione, dando voce a tutte le istanze e, al termine di tale processo, adottare definitivamente politiche tali da distribuire equamente costi e benefici facendo in modo che l’equità sia visibile e percepita. Più facile a dirsi che a farsi. Ecco quindi che la figura del conflict manager (termine anglosassone che in Italia trova il corrispettivo in figure come il mediatore) dovrebbe assumere sempre più un ruolo insostituibile nella definizione e gestione dei processi decisionali, per passare appunto dal government alla governance.

 

[Credits Photo: Flickr]

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