La nuova sfida professionale? Lavorare e raccontare il proprio lavoro. Con il personal storytelling

Nuove professioni – digitali e non –, nuove dinamiche lavorative e nuovi modi di essere lavoratori e lavoratrici hanno impattato con forza sul modo tradizionale di intendere la dimensione professionale. Questo l’ho vissuto anche sulla mia pelle, dopo diverse università cambiate nel giro di pochi mesi (tempi densi di angosce, che ricordo ancora con un […]

Nuove professioni – digitali e non –, nuove dinamiche lavorative e nuovi modi di essere lavoratori e lavoratrici hanno impattato con forza sul modo tradizionale di intendere la dimensione professionale.

Questo l’ho vissuto anche sulla mia pelle, dopo diverse università cambiate nel giro di pochi mesi (tempi densi di angosce, che ricordo ancora con un sorriso) e un progressivo orientamento verso il mondo del digitale. Da qui, un nuovo problema. Per anni, infatti, fin dai primi lavori, mi sono arrovellato su un grande interrogativo: come fare a spiegare a genitori e amici “analogici” il motivo per cui passavo così tanto tempo su Facebook, Twitter e LinkedIn?

Ciò che loro vedevano era semplicemente una colossale, gigantesca, buffa perdita di tempo. Ore e ore passate a creare relazioni online, a mostrare progetti e idee, a interagire con persone e aziende. Mi stavano quasi persuadendo 🙂
Poi, un giorno, ho visto la luce. O meglio: l’ho letta o ascoltata, non ricordo dove.

Con l’avvento del digitale non è solo importante svolgere bene il proprio lavoro, nuovo per noi e per il resto del mondo, ma anche mostrarlo, comunicarlo; se possibile, raccontarlo.

C’è un libro che ho letto anni fa e che mi ronza in testa da allora. Si intitola Teniamoci in Contatto. La Vita Come Impresa, pubblicato in Italia da EGEA nel 2012. L’opera, scritta da due pesi massimi del Web 2.0 come Ben Casnocha e Reid Hoffman, applica le leggi fondamentali dei social network alle relazioni lavorative e umane quotidiane. Immaginalo un proseguo virtuoso dei classici del personal branding, come l’articolo di Fast Company del 1997 The Brand Called You. Lacrime di nostalgia. Ricordo che, allora, il libro di Casnocha e Hoffman mi aveva certamente aperto alcune finestre.

Like e interazioni social sono diventati oggi un altro indicatore dell’efficacia lavorativa, indipendentemente dalla RAL finale o dagli scatti di carriera. Nei primi lavori (e penso un po’ a tutti noi) mi hanno permesso di accelerare questi scatti o di negoziare la stessa RAL. Oppure, ancora, di trovare nuove opportunità lavorative e di moltiplicare il mio valore sul mercato.

Lavorare e raccontare il proprio lavoro, la propria prospettiva, la propria vita: un doppio filone che, se ben governato, diventa moltiplicatore di valore. Premesso che non tutti potrebbero essere d’accordo con questa ipercomunicazione, la domanda diventa: come fare?

Il racconto non è proprio una banalità. Figurarsi online. Figurarsi per quei profili professionali non legati alla comunicazione, al marketing, alle vendite, alle professioni digitali; insomma, quelli non avvezzi alle tecniche di interazione e networking. Come si racconta il lavoro in ufficio? E le proprie idee? E la propria professionalità? E la propria visione professionale?

Non vorrei averti demotivato! La rubrica Passaporto Digitale è qui proprio per rispondere (anche) a tali domande. Il problema è che io, come sempre, da solo non ho le risposte.

Ho quindi pensato di coinvolgere due amici e colleghi esperti e stimati nell’ambiente: parlo di Francesco Gavatorta (d’ora in poi F.G.) e Andrea Bettini (A.B.), autori tra gli altri del libro Personal Storytelling. Costruire narrazioni di Sé efficaci pubblicato da FrancoAngeli. Il risultato? Un vero toolkit per qualsiasi lavoratore che abbia la necessità non più solo di lavorare, ma anche di raccontare il proprio lavoro. Quindi, per qualsiasi lavoratore.

Nella foto sotto, ecco Andrea (a sinistra) e Francesco (a destra) in un momento insieme. Se vuoi conoscere le loro anime (e guardare le loro foto) più professionali, trovi i loro profili LinkedIn rispettivamente qui e qui. Contattali ed entraci in relazione: non rimarrai certo deluso.

Ma adesso è il momento di iniziare con l’intervista.

Mercato del lavoro e professionalità: nuove priorità all’orizzonte

Perché sul posto di lavoro (ma non solo) è importante, oltre al fare e al sapere, il sapersi raccontare?

F.G.: Ciò che siamo non prescinde dal lavoro che facciamo, e viceversa. Potenzialmente potremmo creare dei compartimenti stagni della nostra vita, in cui i vari ruoli che recitiamo non si incrocino mai. È però innegabile che ciò che mostriamo agli altri anche sul posto di lavoro fa parte del nostro bagaglio identitario: tutto viene ricondotto alla nostra esperienza umana, e per questo tutto diventa parte di quel bacino da cui attingiamo per costruire le nostre storie. Quindi, in primis, la ragione di considerare il sapersi raccontare una cosa buona è certamente una ragione utilitaristica, perché corrobora il nostro bisogno di condividere ciò che siamo. Allo stesso tempo, però, contribuisce a costruire il nostro profilo professionale – quindi assume certamente contorni di vantaggio sul posto di lavoro: non siamo fatti solo di skill, si potrebbe dire, e oltre le competenze c’è di più. Quel “di più”, talvolta, è il valore aggiunto di ogni professionista.

A.B.: Quando entriamo all’interno di un’organizzazione aziendale lo facciamo attraverso ciò che sappiamo fare, ma allo stesso tempo per ciò che siamo. C’è un tema di competenze specifiche, ma anche di assetto valoriale: non a caso trovare “la persona giusta” è una delle criticità di un’azienda. Soft skills, ma non solo. Pensiamo a come cambiano gli equilibri all’interno di un gruppo di lavoro sulla base degli aspetti caratteriali e personali dei singoli. È innegabile che a un candidato, prima di arrivare a un qualsiasi colloquio, è stata “scannerizzata” la sua identità digitale per trarne informazioni professionali e personali. Si parte da LinkedIn per poi arrivare a tutte le altre piattaforme social. È chiaro che in un contesto come questo dobbiamo essere in grado di “vendere” noi stessi in maniera efficace e coerente, e questo passa proprio dalla capacità di raccontare se stessi online.

Operai, impiegati, quadri, dirigenti, pensionati: ma dobbiamo stare online proprio tutti, oppure qualcuno può “sfuggire”?

F.G.: Online, a prescindere, ci stiamo tutti. Selvaggia Lucarelli, al di là delle valutazioni personali sulle modalità di interpretare la professione del giornalista, certamente è stata una pioniera nel mostrarci quanto le dimensioni della vita si compenetrano. Mi riferisco in particolare a quando si è messa a segnalare ad aziende e datori di lavoro i suoi hater e i commenti che lasciavano online. Nessuno sfugge, anche quando cerca di farlo, magari usando nickname e sotterfugi: questo perché tutti, in questo periodo storico, in un modo o nell’altro stanno online, anche quando evitano i social network e magari si limitano a usare sistemi di IM digitali. La fase del vero digital detox, il rifiuto del web, deve ancora arrivare. Essendo una cosa umana, anche la Rete così come la conosciamo a un certo punto passerà, ma non è certo argomento di quest’intervista 🙂

A.B.: Partiamo dal principio che, anche se decidiamo di rimanerne fuori, possiamo stare tranquilli che tracce di noi online ci saranno ugualmente, dal momento che almeno una volta un amico, un collega o qualcun altro avrà pubblicato foto e/o commenti su di noi. Per questo credo che sia fondamentale innanzitutto conoscere gli strumenti, dopodiché scegliere quali utilizzare, e infine farne un uso intelligente; come in tutte le cose, il buon senso è la prima regola. Vale per i ragazzi e vale allo stesso modo per le persone adulte. Decidiamo noi se e cosa raccontare. Come in tutte le grandi trasformazioni oggi abbiamo questi strumenti per comunicare e comunicarci: devono rimanere delle opportunità, non degli spazi dove amplificare gli errori che già facciamo nella vita reale. Purtroppo spesso i social diventano dei grandi bar sport, dove regna la mediocrità, il linguaggio è discutibile e l’ego prevale sulla capacità di ascolto; ma questo è colpa dell’online o dell’atteggiamento che abbiamo noi come individui?

Faccio un focus particolare e delicato: perché un Amministratore Delegato dovrebbe stare online, e che cosa dovrebbe raccontare?

F.G.: Il CEO può interpretare l’anima dell’azienda, un ruolo fondamentale. Gli house organ cominciano con l’editoriale del CEO, che traccia bilanci e indica direzioni. Se il CEO racconta che cosa osserva, al di là del limite che la sua scrivania impone, ecco che si può leggere qualcosa di più di un semplice progetto aziendale: è quella che può definirsi, con una bellissima espressione, una certa idea di mondo. Richard Berson è diventato un vero riferimento in questo senso, costruendosi un profilo da storyteller (si direbbe di questi tempi) andando al di là del suo ruolo in Virgin. Gli esempi sono molteplici, e certamente si può concepire un racconto d’azienda coerente partendo dalla voce del CEO – sempre che il consiglio d’amministrazione poi ne sia felice (passateci la battuta!).

A.B.: Bella domanda. Il CEO è il primo ambasciatore di un’azienda, e anche solo per questo motivo dovrebbe stare online. C’è una narrazione personale, la sua, che affianca quella dell’impresa stessa. Non c’è bisogno di citare i grandi capitani d’impresa, ma è normale che la sua capacità di trascinare i collaboratori e di far capire il suo valore all’esterno passi anche dalla sua narrazione online. Questa non è solo un’esigenza degli uffici stampa, che si occupano di comunicare la parte corporate di un’impresa; piuttosto si tratta di capire se alla guida di quell’impresa c’è una persona non solo capace, ma anche dotata di un sistema di valori coerente con quelli dell’azienda stessa. Che cosa dovrebbe raccontare? Sicuramente dovrebbe umanizzare una figura che spesso è solo legata a numeri e prestazioni. La storia di un’impresa passa anche da qui, dal momento che è un racconto collettivo, dato da tutte le persone che ci sono dietro, il CEO in primis. Un’unica avvertenza: fondamentale è non creare un personaggio, ma mettere a fuoco le caratteristiche umane della persona.

Il vostro manager personal storyteller preferito.

F.G.: Ce ne sono così tanti che forse consigliarne uno sarebbe fare un torto agli altri. Lasciamo qui il brivido della suspense, e teniamo il giudizio per noi 🙂

A.B.: Ne ho diversi e ognuno mi piace per alcuni aspetti, quindi sarebbe limitativo citarne solo uno. Diciamo che l’elemento che li accomuna è la coerenza, l’essere se stessi. Comunque sia preferisco sempre chi è semplice e lineare nella sua narrazione. Per quanto mi riguarda, l’era dei fenomeni è finita da tempo.

Leggo sempre più spesso del concetto di hidden labor – ovvero di lavoro non pagato, di sfruttamento. Ecco, quanto c’è di hidden labor nel fare personal storytelling sui media digitali?

F.G. A mio parere niente. Il personal storytelling è il futuro dell’employee advocacy, perché non c’è un’autentica attività di advocacy se manca – scusate il gioco di parole – l’autenticità. Se un dipendente decide di raccontare qualcosa di sé, e in quel flusso di esperienze unisce degli elementi di natura professionale, allora emerge con forza un valore narrativo che può rivelarsi valore aggiunto per l’azienda (o un boomerang, se a essere condivisa è un’esperienza negativa). Lasciamo da parte i termini legati al concetto di sfruttamento, che purtroppo si riconducono a dimensioni decisamente più drammatiche del lavoro.

A.B. Nulla. Non può esserci. Lo trovo un termine che non si può associare al personal storytelling perché è in antitesi con il concetto stesso di una narrazione coerente, con l’essere se stessi. La narrazione del sé deve passare dalla spontaneità e dalla definizione dei propri confini personali riguardo che cosa raccontare. Ognuno deve essere padrone della propria storia.

Riassumete ai lettori e commentate il video della filiale di Banca Intesa Sanpaolo, diventato un caso virale alcuni mesi fa?

https://www.youtube.com/watch?v=uYdeo_Grgbo

F.G.: Un gruppo di dipendenti partecipa a un contest aziendale, realizzando un video. Il video viene girato con uno smartphone, e fatto passare a un amico esterno al gruppo da un insider. L’amico, forse credendosi simpatico, lo mette online. Da lì diventa virale, inizialmente interpretato anche da noi addetti ai lavori come attività di content marketing ridicola. Solo dopo si scopre che quel video non doveva finire online ma rimanere coperto dal segreto della intranet. Questi i fatti. Il commento è uno solo: manca ancora una sensibilità di fondo all’utilizzo dei media digitali, e probabilmente, al di là delle competenze complesse, le aziende (comprese le prime linee) dovrebbero dedicare un po’ di monte ore all’ABC del digital, dove per ABC intendiamo la capacità di capire i confini di un mezzo, le sue potenzialità, i suoi pericoli. Un’attività da fare anche nelle scuole, a mio modesto avviso.

A.B.: Non mi piace tanto tornare su questo caso, perché mi sembra un modo per riaccendere i riflettori su quello che per quanto mi riguarda è stato un incidente. Non voglio discutere sulla colpa o sul dolo; comunque sia, è un tema di responsabilità. È un contenuto che non doveva uscire dal contesto per il quale era stato creato. Tutto il resto sono parole e opinioni.

Dal mio punto di vista, credo che il caso di Banca Intesa Sanpaolo insegni una cosa importante, ovvero che la teoria è davvero tanto avanti rispetto alla realtà dei fatti – almeno in Italia. Siete d’accordo?

F.G.: Assolutamente sì, ma come dicevamo su: si può rimediare, cercando di far passare i concetti di quella che potremmo definire “cultura alla digitalizzazione”. Probabilmente un discorso non solo limitato al nostro Paese, ma che vale per tutto il mondo.

A.B.: Purtroppo sì, ma non ne farei un limite solo territoriale. È una questione culturale e valoriale. Spesso mi capita di discutere su questi aspetti e devo dire che mi trovo in difficoltà a dare una risposta definitiva, dal momento che c’è sempre un pressappochismo sul tema digitale. Non è solo una questione legata alla privacy; riguarda la capacità di gestire un nuovo sistema di comunicazione che ha cambiato le nostre abitudini nel fare e dire le cose.

Vi saluto con una curiosità, a proposito di pratiche viziose: ma gli assicuratori contattano anche voi su LinkedIn, per poi iniziare a tartassarvi ovunque con le loro polizze inutili e fastidiose? O sono l’unico fortunato?

F.G.: No, però ogni tanto qualcuno scrive chiedendo un consiglio su come muoversi nel mercato del lavoro, segno forse che c’è chi ha percepito l’utilità di costruire una reale strategia narrativa che valorizzi il proprio io professionale – o che semplicemente ci ha scambiato per recruiter. Gli assicuratori per ora non ci hanno scritto. In ogni caso penso sia solo questione di tempo, vista la lucidità con cui già ci tartassano le compagnie telefoniche!

A.B.: Ci sono due cose che mi strappano un sorriso. Una è proprio questa. L’altra riguarda quelle persone che, in particolar modo su Facebook, dopo averti chiesto l’amicizia non lasciano passare nemmeno un secondo per invitarti a mettere un mi piace su una loro pagina. Anche qui è questione di stile. C’è un po’ di strada da fare anche su questo fronte.

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