L’Italia dell’arte, l’Italia delle lobby

Certamente anche nel mondo dell’arte esistono le lobby, ovvero delle cordate, palesi o occulte, per favorire una galleria, o un artista, o una tendenza rispetto ad altre, e dunque bisogna rendersene conto e cercare di immunizzarsi rispetto a esse. In genere a formarle e a tenerle in vita ci possono essere interessi materiali, pecuniari, nel […]

Certamente anche nel mondo dell’arte esistono le lobby, ovvero delle cordate, palesi o occulte, per favorire una galleria, o un artista, o una tendenza rispetto ad altre, e dunque bisogna rendersene conto e cercare di immunizzarsi rispetto a esse. In genere a formarle e a tenerle in vita ci possono essere interessi materiali, pecuniari, nel qual caso potrebbero apparire addirittura legittime; basta esserne consapevoli e schivarle. Ma qui voglio parlare di un genere particolare di lobbies, che nasce per ossequio rispettoso, privo di lumi critici, verso certe credenze prese per buone in misura assoluta. Io ne ho sofferto per esperienza personale.

Ho sperimentato sulla mia pelle questa inerzia spirituale in almeno due casi, che si potrebbero anche ricondurre alla cattiva applicazione di un sillogismo. Ho dedicato un articolo attentamente motivato per togliere al grande Leonardo la paternità di due ritratti che gli si attribuiscono: la Dama con l’ermellino e la Belle ferronnière, proponendo di riportarli più credibilmente al pennello del suo allievo Boltraffio, come gli veniva riconosciuto nella prima metà del Novecento. Ma niente da fare: si tratta di due capolavori – premessa maggiore –, solo Leonardo è capace di capolavori, e dunque – conclusione – solo lui ne può essere l’autore.

Un caso di tutt’altra natura riguarda il pur grande Umberto Eco, nei suoi rapporti col corso di laurea DAMS (Discipline dell’Arte, della Musica e dello Spettacolo), nato nel 1971 all’Università di Bologna. Si trattò di una creazione universitaria molto vivace, per un certo verso geniale – premessa maggiore. Solo Eco, tra i molti suoi docenti, è da considerarsi geniale, e dunque – conclusione errata – solo lui ne può essere stato il creatore. Anche se invece ne fu il beneficiario, essendo chiamato a farne parte quando il DAMS esisteva già da due anni. Ma vallo a dire alla maggioranza silenziosa: è come pretendere di sfondare un muro con la testa.

 

L’Italia delle lobby artistiche: il caso dell’Arte povera

Ci sono dei movimenti che si affermano con rilievo assoluto, sia nel loro preteso fondatore sia nei membri che si ritengono farne parte legittimamente. Guai a mettere in discussione questi veri e propri dogmi. Uno di questi riguarda l’assoluto primato che in Italia viene assegnato all’Arte povera, tanto che, quando ci furono per un anno intero delle manifestazioni per celebrarne il ventennale dalla nascita, mi permisi una battuta ironica osservando che si doveva mutare il primo articolo della nostra Costituzione, quello che la dice fondata sul lavoro: no, pardon, diciamo piuttosto che è fondata, appunto, sull’Arte povera.

Non è che sia tutto falso e improprio. Senza dubbio quel movimento fu, e continua a essere, di notevole importanza, e bisogna anche riconoscere che Germano Celant ne è stato un sicuro sostenitore e interprete, ma non si può dimenticare che accanto a lui ci furono anche Tommaso Trini e Daniela Palazzoli. Io stesso qualche contributo all’affermarsi di quel fenomeno l’ho portato. Ma Celant, con abile e indefessa attività promozionale, ha fatto fuori i compagni di strada, ponendosi in un ruolo che non è tanto dello storico-critico d’arte, ma piuttosto dell’“Amministratore Delegato”, o meglio, del “CEO” di una sorta di società per azioni, il che del resto risponde al suo linguaggio critico, privo di lumi, di palpiti, di immagini, steso proprio con una asciuttezza impiegatizia. Inoltre, se si va a vedere, pago di quella sua scoperta, in tutti gli anni successivi Celant ha rinunciato a quello che pure dovrebbe essere il fine principale di un critico militante: il piacere di andare a scoprire nuovi talenti. Invece il Nostro, contento dei lauti dividendi che gli sono giunti da quella sua prima e quasi unica scommessa, non ha voluto metterla a rischio esponendo nuova carne al fuoco.

Bisogna anche riconoscere che forte e numerosa è la pattuglia dei Poveristi presenti all’atto fondativo: Anselmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Kounellis, Mario e Marisa Merz, Penone, Zorio. Non ho mai mancato di riconoscere il loro valore e di dedicargli scritti vari, ma accanto a loro c’erano altri artisti del tutto equipollenti e degni di nota, come per esempio Agnetti, De Dominicis, Mattiacci, Olivotto, Parmiggiani, Vaccari, Vettor Pisani, e probabilmente altri ancora. Non ho mancato di aggiungere questi nomi alla pattuglia dei Poveristi con tanto di marchio ufficiale di consacrazione, il che accadde particolarmente quando alla Biennale di Venezia del 1972 Francesco Arcangeli ebbe l’idea geniale di collocare la partecipazione italiana nel segno della dialettica “opera o comportamento”, chiamando me a gestire la seconda parte del quesito.

Io risposi invitando due Poveristi DOC, come Mario Merz e Fabro, ma subito affiancandogli i “cani sciolti” De Dominicis, Olivotto e Vaccari. In realtà Arcangeli, sempre preciso e corretto nelle sue mosse, non aveva mancato di invitare a quell’impegno anche Celant, il quale però si era rifiutato con sdegno, perseguendo una lucida politica di gestore assoluto del Poverismo, senza lasciare margine a degli outsider.

 

Povertà critica: peggio gli epigoni del capofila

Ma, detto tutto ciò, non sono ancora arrivato sull’obiettivo del presente scritto, dato che in definitiva si può riconoscere che Celant è in diritto di sostenere con ogni mezzo i suoi prodotti, ovvero di essere il primo lobbista di se stesso. Quello che non va è il coro dei poveri di spirito che si è allineato negli anni a questo diktat, senza alcun interesse economico, ma solo per mancanza di lume critico, frastornati dall’immensa pubblicità che quella proclamazione solitaria risultava capace di produrre attorno a sé, e anzi di venire incrementata dall’apporto di tanti corifei, vittime di una specie di risucchio psicologico.

Ma c’è di peggio, dato che in definitiva all’Arte povera si deve riconoscere di essere stato un fenomeno tempestivo, tra i primi ad apparire sul finire degli anni Sessanta, e numeroso quanto al numero dei membri partecipanti. Qualche anno dopo il vento cambiava, come succede regolarmente nella vicenda degli stili, e come certo non sfugge a me, che proprio per questo mi proclamo un fenomenologo degli stili. Poco dopo, cioè subito agli inizi degli anni Settanta, un’oscillazione pendolare ci portava dal culto del nuovismo a oltranza e del futuro verso un recupero del passato e del museo. Per dirlo in formula, fu l’avvento del postmoderno, o del rétour à, della citazione, remake e così via, con esempi in tal senso che scaturivano dal seno stesso del Poverismo, basti pensare ai casi di Paolini soprattutto, ma a anche di Boetti, di Fabro, di Kounellis.

E proprio dalle file di quel gruppo emerse il giovane Salvo, con perfette operazioni “citazioniste” da manuale, cui faceva da sponda, dalle parti di Bologna, il caso di Luigi Ontani. Ebbene, sono stato il primo a raccogliere i segni di una simile inversione di tendenza e a dedicarle una mostra presso lo Studio Marconi di Milano, intitolata “La ripetizione differente”, che può essere perfino una definizione alternativa alle altre etichette allora più diffuse. In quella mostra, oltre ai casi estratti dalle file poveriste e affini a quel clima cambiato, elencati sopra, c’erano proprio Paolini, Fabro, Kounellis, ma soprattutto i due “nuovi nuovi”, come poi avrei denominato una balda schiera di loro seguaci, Ontani e Salvo. Non c’era Carlo Maria Mariani dato che, all’altezza del ’74, non era ancora giunto a quella sua formula di perfetto copista di capolavori inesistenti del museo, per cui sarebbe divenuto il numero uno del movimento detto tipicamente dell’Anacronismo. E tanto meno ci potevano stare i futuri campioni della Transavanguardia, Chia, Clemente, Cucchi, Paladino, che allora veleggiavano tra cauti e prudenti disegnini e reperti fotografici ancora di provenienza concettuale.

Forse è vero che non fui lesto nel brevettare i Nuovi-nuovi, ma i colleghi dell’Anacronismo erano usciti pubblicamente in piazza. In definitiva Achille Bonito Oliva arrivò buon ultimo, sul chiudersi di quel decennio, riunendo i quattro sopra nominati, e Nicola De Maria, sotto l’etichetta di Transavanguardia. Non so se fu la pregnanza del titolo o l’abilità di lobbista che seppe conseguire; sta di fatto che quell’“ismo” ha portato via l’intero piatto sul tappeto. Da quel momento in poi era come se si dovesse sdoppiare l’articolo di base della nostra Costituzione considerandola pure fondata proprio sulla Transavanguardia, divenuta come un dogma: nulla da fare contro di esso. A nulla serve osservare che Salvo e Ontani erano arrivati prima a certi traguardi, e che proprio quest’ultimo al momento è l’artista più considerato nel nostro Paese e anche all’estero. In proposito ho coniato un termine, “celantabo”, inteso a consacrare una simile accettazione supina di un primato imposto a furor di popolo. Di critici fatui e irresponsabili, timorosi di apparire condannabili se osano uscire dal coro e ragionare con la propria testa.

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