Regione che vai, crisi industriali che trovi

In tempi di recessione le crisi industriali sono come un virus, un’epidemia che si allarga a macchia d’olio e che attraversa i gangli vitali dell’economia reale, toccando in primo luogo la vita di migliaia di famiglie che da un giorno all’altro vedono modificare la loro esistenza in peggio. Un trattamento molto diverso da quello che […]

In tempi di recessione le crisi industriali sono come un virus, un’epidemia che si allarga a macchia d’olio e che attraversa i gangli vitali dell’economia reale, toccando in primo luogo la vita di migliaia di famiglie che da un giorno all’altro vedono modificare la loro esistenza in peggio. Un trattamento molto diverso da quello che viene riservato ai manager, che in molti casi, malgrado il fallimento, se la cavano con una ricca buonuscita.

Un morbo incontrollabile, quello delle crisi aziendali, e troppo spesso incurabile, nei confronti del quale i governi e la politica, sempre più distanti dal territorio, di frequente sono colti di sorpresa e incapaci di intervenire con strumenti adeguati.

 

La geografia delle crisi industriali in Italia

Il campanello d’allarme o se volete il termometro più evidente delle crisi aziendali è la cassa integrazione. Alcuni dati forniti dalla Cgil sono più eloquenti di qualsiasi commento: al Ministero dello Sviluppo Economico ci sono ben 160 tavoli aperti per affrontare la febbre aziendale. Oltre 200.000 i lavoratori coinvolti, di cui 60.000 a rischio. Le “Aree industriali di crisi complessa” sono venti, e coinvolgono 70.000 lavoratori, gran parte dei quali in mobilità in deroga (assegno di 500/600 euro). 23 gruppi industriali sono in amministrazione straordinaria, ma il dato devastante è che la Cigs per cessazione registra un incremento del 78%.

Molto spesso, come si vede analizzando alcuni dei casi più drammatici, le crisi aziendali si aprono quando avviene un cambio di proprietà e l’imprenditore che ha aperto la crisi viene sostituito da capitale straniero. Il più delle volte poi, e questo la dice lunga sulla finanziarizzazione dell’economia e sulla fragilità del capitalismo italiano, il capitale straniero è costituito da fondi di private equity, che talvolta intervengono nelle crisi aziendali con atteggiamento predatorio, privo in alcuni casi di strategie industriali.

Il caso più recente – pieno di brutti segnali, dicono in Cgil – arriva da Bologna, dove la giapponese Calsonic Kansei, controllata dal fondo statunitense KKK&Co, ha annunciato ai bolognesi la triste notizia: 910 lavoratori della Magneti Marelli in cassa integrazione per tredici settimane tra Bologna e Crevalcore. Il colosso Magneti Marelli, ceduto da Fca ai giapponesi, è costato 6,2 miliardi di euro. Quello che preoccupa maggiormente i sindacati è che, dalle promesse di investimento annunciate dal CEO Beda Bolzenius, si è passati alla cassa integrazione per 300 tra tecnici e ingegneri che costituivano il cervello delle strategie aziendali. Come spesso avviene quando si tratta di capitale straniero che viene in Italia a fare shopping, nella fase di transizione non si è parlato né di investimenti né di rimodulazione delle strategie industriali, ma soltanto di redditività e compatibilità di mercato.

 

Massimo Brancato, Cgil: “Le crisi? Colpa di un capitalismo debole e di uno Stato assente”

Massimo Brancato, responsabile per la Cgil delle aree di crisi, proprio in riferimento all’ultima acquisizione della Magneti Marelli da parte di un gruppo straniero, controllato a sua volta da un colosso finanziario, ci racconta tutto il suo scetticismo: “È il classico esempio di confusione e assenza di strategia. Premettiamo subito che la Magneti Marelli fino a ora non era un’azienda in crisi; anzi, è stata per decenni uno dei gioielli di famiglia di Fiat-Fca. A un certo punto, cosa assai discutibile, Fca ha deciso di vendere Magneti Marelli. La cosa preoccupante è che la Exor, finanziaria degli Agnelli, non ha investito i 6 miliardi nel settore automotive: una parte dei proventi della vendita è stata impiegata per pagare i dividendi, e un’altra parte è stata destinata alla Tesla. Eppure la crisi dell’automotive è evidente”.

 

 

Mi pare che non sia soltanto il settore auto a languire sotto i colpi della crisi. I dati che ci avete fornito sulla cassa integrazione sono impressionanti, e se poi si disaggregano si scopre che sono trasversali a tutti i settori industriali. Dentro ci troviamo la Whirlpool, la Pernigotti, i poli industriali della campagna, l’area industriale di Trieste, l’Ilva di Taranto. Insomma, se si facesse la mappa delle crisi industriali si scoprirebbe che nessuna regione è esente dallo stato di crisi conclamata. Che cosa hanno in comune queste crisi industriali?

Direi in primo luogo un’assenza di politica industriale. Il paradigma del liberismo che si basava sull’offerta è fallito. Ora si tratterebbe di fare politiche di sostegno della domanda interna anche attraverso investimenti pubblici. Per il momento mi pare che nessuno si muova in questa direzione. Il neoministro Patuanelli ha annunciato che si vuole riaprire questa questione della politica economica. Staremo a vedere.

Nel ricostruire alcune delle più importanti crisi industriali ho notato che c’è un’altra cosa in comune: il salvataggio delle imprese italiane avviene quasi sempre con l’intervento di capitali stranieri. Raramente il ruolo di “cavaliere bianco” viene assunto da un imprenditore italiano, se si esclude Alitalia dove sembra che la proprietà resti al di qua del confine. L’altra anomalia è che spesso ci sono fondi di private equity dietro le acquisizioni.

È così. È una storia che viene da molto lontano, e non è affatto una bella storia. Sempre più spesso, con una logica tutta finanziaria, dietro i salvataggi o i passaggi di proprietà delle aziende in crisi ci sono i fondi, che per loro logica hanno come obiettivo i profitti a breve termine, alla faccia della responsabilità sociale delle imprese. È la logica della finanziarizzazione dell’economia. D’altronde è altrettanto vero che non ci sono imprenditori italiani in grado di farsi carico delle crisi, e questo è un tema che riguarda la debolezza del nostro capitalismo. E poi, a differenza dell’epoca in cui lo Stato era presente con l’Iri, oggi non c’è nessun intervento regolatore. È per questo che gruppi stranieri possono permettersi di venire in Italia, firmare un accordo e dopo pochi mesi stracciarlo con richieste di cassa integrazione o smembramenti dell’azienda, come è avvenuto nel caso Ilva e Whirlpool. Un caso emblematico è quello della Perla, marchio storico della lingerie italiana. Nella crisi aziendale della Perla si condensano tutti i vizi di cui abbiamo parlato: appena è entrata la proprietà straniera è stata snaturata la mission industriale dell’azienda e il suo marchio.

E aggiungerei, cosa ancora più grave, che la Perla ha rischiato di essere schiacciata dai giochi finanziari della società d’investimento olandese Sapinda Holdings e dai fondi controllati da H2O, asset management della banca d’investimento Natixis.

E dire che nella vicina Germania abbiamo anche esempi virtuosi di investimenti produttivi. La Volkswagen ha deciso ad esempio di investire sull’auto elettrica: ha messo sul piatto 40 miliardi e ha coinvolto circa 7.500 lavoratori per produrre auto a emissione zero. Mi risulta che Exor, la finanziaria degli Agnelli, nell’auto elettrica per il momento abbia investito un miliardo.

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