Scegliere un lavoro, si può?

Molti ritengono di non avere possibilità di scelta in ambito lavorativo. A volte tutto dipende da una scala mal costruita. Solo per qualche minuto spostiamo l’attenzione dalla dicotomia imperante in tutti i dibattiti sul mondo del lavoro: occupati vs disoccupati, al tema delle scelte professionali. Già, perché talvolta troppo immersi nel pessimismo finiamo per dimenticarci […]

Molti ritengono di non avere possibilità di scelta in ambito lavorativo. A volte tutto dipende da una scala mal costruita.

Solo per qualche minuto spostiamo l’attenzione dalla dicotomia imperante in tutti i dibattiti sul mondo del lavoro: occupati vs disoccupati, al tema delle scelte professionali. Già, perché talvolta troppo immersi nel pessimismo finiamo per dimenticarci che non si tratta – solo – di avercelo o no un lavoro, ma si tratta anche di compiere delle scelte.

A riportare la mia attenzione su questo tema è stato David Bevilacqua, co-fonder di Yoroi -azienda di sicurezza informatica con sede a Bologna-, che in occasione del Festival Nobìlita tenutosi a Bologna il 23 e 24 marzo, ha ripercorso le sue scelte professionali e le motivazioni che le hanno guidate in oltre 25 anni di carriera.

C’è chi scende e c’è chi sale

Prima motivazione in ordine cronologico per il giovane David in cerca di autonomia, il reddito; ho provato a fare un piccolo sondaggio home made, ho inviato un messaggio a 10 persone (medico, barista, avvocato, commercialisti, operaio, infermiere, psicologo…) con il seguente testo “domanda a bruciapelo: qual è il motivo principale per cui lavori?”. 8 persone su 10 hanno risposto “i soldi”; eppure lo psicologo Edward L. Deci, dell’Università di Rochester, insieme ai suoi colleghi ha effettuato già negli anni ‘70 delle ricerche – ben più fondate del mio sondaggio artigianale – approdando alla conclusione che le ricompense ricevute per un lavoro sono scollegate dalla motivazione che ci spinge a compierle.

Ma senza addentrarci in una disquisizione sul tema lavoro e soldi, torniamo a noi. Se vi aspettate che la testimonianza di Bevilacqua sia proseguita in un monologo di autocommiserazione per aver condotto la propria esistenza guidato esclusivamente dalla ricerca del vile denaro trascurando gli affetti e le passioni, cadete in errore. E’ proprio qui che inizia il bello, perché quando già iniziavo a scuotere la testa non trovandomi d’accordo con il porre il reddito in cima alle motivazioni che guidano le mie scelte professionali, sul maxi schermo dell’Opificio Golinelli appaiono altre parole: stabilità, prossimità, status, valori, fun, purpose, tempo, contaminazione.

Ed eccoci presentata l’idea che non esiste una scala fissa di valori che orientano le scelte lavorative, ma bensì una scala “mobile”. Mobile non come quelle dei centri commerciali dove alla lunga finisci comunque per poggiare i piedi sugli stessi gradini, ma mobile nel senso letterale “che può essere mosso, spostato”. Un cambiamento nella nostra vita può farci desiderare di spostare il gradino del reddito, e di mettere prima di esso la ricerca di un impiego vicino al nostro domicilio.

Il lettore più attento potrebbe chiedersi su quali parole apparse sullo schermo ho annuito, visto che sopra ne ho citata una che ha suscitato il mio dissenso; probabilmente non saprei rispondere incuriosita com’ero dal guardare come ogni parola suscitasse sui volti delle persone in platea emozioni diverse: condivisione, disappunto, rimpianto, soddisfazione. Credo che ognuno dei presenti abbia rivisto in quella scala di parole un pezzo della propria storia e uno spiraglio sul proprio futuro, uno sguardo rivolto a quelle parole che oggi non abbiamo messo in alto nella nostra scala ma che un giorno potrebbero salire in cima.

Posto fisso e scala mobile: qualcosa non torna

Persino il Checco Zalone bambino nelle prime scene del film Quo vado? diceva di voler fare da grande “il posto fisso”. A confermare la nostra tendenza alla ricerca di staticità professionale ci sono le statistiche ufficiali europee in cui l’Italia è il secondo Paese con la maggiore proporzione di occupati nello stesso posto da più di 10 anni. Ma come la mettiamo con la scala mobile di cui sopra? Se le motivazioni che guidano le nostre scelte cambiano in base alla diversa importanza che attribuiamo a fattori come lo status o il tempo in fasi diverse dell’esistenza, ha ancora senso questa ricerca spasmodica del posto fisso? E’ vero, secondo l’ultima edizione del Randstad Workmonitor, l’indagine trimestrale della multinazionale dei servizi per la gestione del personale, sembra che il 74% degli italiani non ci creda più al posto fisso; ma ciò che onestamente un po’ rattrista è che questo cambiamento non sia frutto di una nuova consapevolezza culturale in cui gli italiani hanno apprezzato il valore della flessibilità, ma derivi semplicemente dall’essersi rassegnati all’idea che la carriera di una vita all’interno della stessa azienda non esista più.

Determinismo vs Responsabilizzazione

Tornare a parlare di scelte professionali ci fa scrollare di dosso un po’ di quel determinismo spesso protagonista quando si parla di lavoro: come se tutto ciò che attiene il proprio impiego fosse necessariamente determinato da altro da noi, come se il lavoro che svolgiamo non sia mai frutto di una scelta ma sempre un obbligo ineluttabile. Albert Bandura, psicologo canadese, parla di locus of control esterno per descrivere questa tendenza ad attribuire a cause indipendenti dalla propria volontà gli eventi della vita. Da un amico appassionato di viaggi costosi e con un lavoro che gli garantisce un reddito medio alto sento spesso ripetere questa frase “non mi piace il mio lavoro ma sono obbligato a farlo, non ho scelta altrimenti non potrei permettermi quel viaggio”. Siamo proprio sicuri di non avere scelta? O talvolta ci trinceriamo dietro la giustificazione di “essere obbligati a…” per non assumerci la responsabilità di scegliere?

Con la sua testimonianza a Nobìlita David Bevilacqua ci ha stimolati verso un processo di responsabilizzazione nei confronti del nostro lavoro. Re-spon-sa-bi-liz-za-zio-ne: parola lunga e corposa che dà il giusto peso al significato che contiene. Abbiamo sì un obbligo, quello di essere responsabili, di compiere delle scelte professionali e di essere coerenti con esse, di non avere timore di cambiare idea quando riteniamo che i gradini della nostra scala vadano spostati.

Scelte professionali o personali?

Ho iniziato questo articolo pensando di trattare il tema delle “scelte professionali”, giunta al termine non posso (anzi, “non voglio”, iniziamo ad applicare un po’ di presa di responsabilità) esimermi dall’effettuare un cambiamento semantico, passando dall’aggettivo “professionale” a quello personale”: appare quanto meno anacronistico dopo ciò che è stato detto sopra continuare a pensare che la sfera professionale possa essere tenuta disgiunta da quella personale, e che i nostri eventi di vita privata non incidano nelle nostre scelte. Scelte personali quindi, che in quanto tali non possono essere giuste o sbagliate.

Prima di concludere questo articolo dovrei almeno provare a rispondere alla domanda del titolo.

“Sì, si può scegliere. Ma non sempre.”

Ed è proprio questa consapevolezza che credo abbia spinto David Bevilacqua ad iniziare il suo speech con un atto di gratitudine. Si è mostrato riconoscente per non aver mai “sofferto di lavoro”.  E in un’epoca in cui troppo spesso si fa a gara a chi si lamenta di più credo che il riconoscere di essere stato fortunato ad avere la possibilità di scegliere, appaia come un qualcosa di inedito.

Pensiamoci, la prossima volta che ci viene da dire che “non abbiamo scelta”. Magari in realtà stiamo semplicemente scegliendo di restare fermi sulla nostra scala.

Photo by fiordirisorse [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr. Photographer: Felicita Russo

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