Specchio delle mie brame

All’età di 20 anni ho orgogliosamente pagato allo Stato le mie prime tasse da reddito di lavoro. Era il 1961 e lavoravo come redattore al giornale interno della Stanic Industria Petrolifera. Oggi – 56 anni dopo quella prima espressione di cittadinanza in omaggio al principio di ‘no representation without taxation’ –  continuo a farlo anno […]

All’età di 20 anni ho orgogliosamente pagato allo Stato le mie prime tasse da reddito di lavoro.

Era il 1961 e lavoravo come redattore al giornale interno della Stanic Industria Petrolifera.

Oggi – 56 anni dopo quella prima espressione di cittadinanza in omaggio al principio di ‘no representation without taxation’ –  continuo a farlo anno dopo anno, perfettamente consapevole di essere strafortunato.

Questo per dire che il  mio rapporto con il lavoro è sempre stato intenso, appassionato e allineato allo spirito di cittadinanza, ereditato soprattutto da una madre ribelle irlandese.

E già che tiro subito in ballo mia madre, da anziano maschilista e pur sforzandomi di non esagerare, non posso negare di avere scelto due aree di impegno professionale (il governo della comunicazione delle organizzazioni e il suo insegnamento come materia di studio universitario) in cui la componente femminile è sempre stata – è vero – numericamente prevalente. Non però di peso e neppure di rilevanza.

Mi consolo, ma so di prendermi in giro, dicendomi che sono le organizzazioni (private, pubbliche e sociali) ad essere popolate da maschilisti come e peggiori di me, anche quando di sesso femminile.

Nei decenni trascorsi su entrambi i lati dell’oceano in cui ho scelto di vivere e operare (New York e Milano-Roma), ho sempre pensato che il ‘tetto di vetro’ fosse, sì, un dato oggettivo ma che, inevitabilmente, si sarebbe frantumato. Non è ancora successo, in nessuna delle due sponde dell’oceano e in nessuna delle due professioni. Tant’è.

Quello di maschio ‘benignamente’ padrone attento a non esagerare con l’ipocrisia, attento però anche alla situazionalità e consapevole del dubbio sempre necessario per essere sereno senza fastidiosi sensi di colpa, è sempre stato il mio ‘modello-a-tendere’.

Potrebbe anche essere però che le mie diverse donne, di vita o di professione, me lo abbiano sempre lasciato credere. Chissà? Ma non mi tormenterò nel dubbio.

Dove però ‘casca l’asino’ è in quei sempre più rari momenti della verità, quelli in cui sei solo allo specchio, in cui nessuno ti guarda e non devi preoccuparti della tua ‘reputazione’ – intesa come quel che gli altri dicono di te agli altri quando tu non ci sei, classica malattia professionale in progressiva espansione nel mio settore – e ti trovi invece costretto a decidere da solo, ben oltre il dilemma bon-a-tout-faire del buonismo o cattivismo, indipendentemente dalle aspettative altrui o dai commenti dei social: l’autentica peste contemporanea dalla quale nessuno oggi è esente.

Per mia esperienza penso di poter dire che questo ‘momento della verità’ avviene più spesso quando hai l’impressione che i figli o i nipoti (non sono proprio la stessa cosa e in qualche modo mi sento più fragile con i secondi) si aspettino qualcosa da te, più di quanto non succeda con i clienti, gli studenti o le donne che frequenti.

Aree di crisi

Provo a spiegarmi:

Per me oggi vi sono almeno tre questioni centrali e globali del nostro tempo che investono ciascuno di noi e ci obbligano ad agire, comunque la si pensi, quando siamo davanti allo specchio senza difesa e senza paracadute.

Sono quelle del lavoro, della disuguaglianza e del governo dei flussi migratori.

Per ognuna di queste, negli ultimi tempi, si sono scatenate discussioni, polemiche, schieramenti (e fin qui niente di male o comunque di irreparabile) ma anche guerre, massacri, violenze per lo più con vittime innocenti e, quando anche sono colpevoli, spesso più strumenti di manipolazioni comunicative che non di obblighi forzati.

In una società che nel suo insieme, e non solo in Occidente, preferisce forse consegnarsi al governo degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale nella non infondata speranza che i nostri destini umani, come è stato dimostrato anche dal patto di Parigi delle Nazioni Unite e dal dietrofront USA sul cambiamento climatico, sarebbero altrimenti assai più nefasti per la sopravvivenza del pianeta e dei suoi abitanti, anche e non solo umani.

E queste tre questioni, diverse l’una dall’altra ma strettamente connesse, rappresentano le tre aree di crisi che abbiamo oggi di fronte io, i miei nipoti e i miei figli.

Il più grande dei miei nipoti ha compiuto 21 anni e la più piccola 4.

Allo specchio

Eccomi dunque davanti allo specchio:

  • rispetto al lavoro, anche i nipoti – come lo fui io e poi i loro genitori – seguono strade di successo e, rispetto alla grande maggioranza dei loro coetanei, sono a dir poco privilegiati. Di certo hanno avuto, e sicuramente avranno, parecchie più difficoltà di quante non ne abbia avute io, indipendentemente dalle future sorti di Singularity (sempre più simile a Scientology). Ma è pur certo che, per lavorare, i miei nipoti dovranno imparare a programmare oltre che a parlare, scrivere e fare di conto.

Ricordo che diversi anni fa una delle mie migliori studentesse americane, oggi responsabile di una importante associazione di imprese e fondazioni filantropiche, mi diede da leggere il manoscritto originale di Program or be Programmed e poi mi portò anche a conoscere il giovane autore Douglas Rushkoff, intorno a birra e hamburger. Un momento rilevante, non tanto per il simpatico l’autore, ma per l’intensità della sua ossessione.

Oggi, molti anni dopo, leggo sulla migliore letteratura manageriale che la caratteristica prevalente di una digital mindset (dai, facciamoci del male, diciamolo in inglese) è l’abilità programmatori, assolutamente indispensabile per iniziare a comprendere lo scenario circostante.

Non sono in grado e mi mancano le conoscenze per sapere se davvero Singularity finirà per produrre una rimozione e sostituzione massiccia di posti di lavoro, ma quello che so è che molte di quelle sostituzioni riguarderanno non soltanto funzioni hard (come avvenne all’epoca dei luddisti contrari alla rivoluzione industriale) ma anche tante di quelle soft.

Alcuni amici sostengono convinti che, per esempio, la selezione del personale, l’adozione e l’applicazione dei sistemi premianti, le ricerche di opinione e di mercato, la comunicazione e la pianificazione pubblicitaria, nonché la scrittura di articoli e libri o l’insegnamento, insomma tutte le competenze soft potranno essere sostituite, e con risultati assai più efficaci, da applicazioni di Intelligenza Artificiale. Non stento a crederlo e mi pare verosimile.

L’altro giorno una giovane diciassettenne mi chiede ‘Cosa mi consiglia per l’Università’? Ma tu, cosa vorresti fare da grande? Le chiedo io. Domanda cretina, lo so. Risposta: ‘Il tuo lavoro mi piace da matti’. ‘E perché?’ ‘Perché fai cose, vedi gente’. Povero Moretti. Dovrei dunque dirle: ‘Impara a programmare domande e risposte meno banali’. Mah.

Il momento della verità è che mentre due giovani su tre non trovano, non cercano o hanno rinunciato a cercare lavoro, due ultracinquantenni su cinque perdono o sanno che lo stanno per perdere. Fa male.

Insomma cosa avevano in mente i Costituenti quando settant’anni fa scrissero all’articolo 1: L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro? In che senso?

Certo, se avessero scritto sui lavoratori, i cattolici non lo avrebbero votato perché troppo vicino alle repubbliche filosovietiche, come abbiamo appreso pochi giorni fa a Milano da Cassese e Colarizi a Palazzo Marino dove Laterza ha tenuto la prima delle Lezioni di Storia dedicate al settantesimo della Costituzione.

L’unica cosa certa che mi sento di affermare è il dubbio. Non so e non saprei cosa dire e cosa consigliare. Forse è meglio che decidiate da soli. In fondo 56 anni fa, feci anch’io così. I miei non si intromisero mai.

  •  rispetto alla disuguaglianza, il contributo migliore che i miei nipoti potranno dare credo potrà essere nell’assumere impegno, coinvolgimento e partecipazione in autoespressioni di cittadinanza sia in Italia che fuori, con le rispettive competenze e conoscenze così come con le proprie poche o tante risorse materiali, a sostegno e supporto di coloro che si impegnano per promuovere e conquistare la creazione e diffusione di modalità di vita meno orrendamente frastagliate dalla disuguaglianza.

Intendiamoci, sono molte le organizzazioni e le istituzioni che oggi operano in questo settore (private, pubbliche e sociali) e che si propongono di ricavare benefici anche economici per i propri addetti. Quindi non parlo soltanto di attività di puro volontariato. Ma bisogna pur saper distinguere, come anche nei lavori più tradizionali, tra il padrone serio e il bandito. E siamo in un ambito dove i soldi pubblici sono una parte importante (ma perché in altri settori non è così?) e il rischio di sbagliare è alto.

Peraltro è importante anche ricordare che oggi, assai più di ieri, si può saltare da un impegno all’altro e la ‘tenuta per la tenuta’ non è più di per sé un valore come lo era una volta.

Detto questo, non so immaginare come potrà essere una società – quella in cui invecchieranno verosimilmente i miei nipoti – dove lo scontro fra chi ha sempre di più e chi ha sempre di meno, assomiglierà sempre di più a un conflitto armato sia tradizionale che digitale se non si riesce a trovare qualche leva di equilibrio (forse Singularity?).

La recente crisi della globalizzazione, il ritorno catastrofico dello Stato Nazione, la crisi dell’Europa e le ammalianti sirene della Città-Stato, non credo possano utilmente supplire alla crescente e sempre più palese urgenza di regole del gioco globali nella produzione e ripartizione delle risorse economiche, culturali, finanziarie, agricole, industriali (sempre che questi termini abbiano ancora senso).

Il valore del multiculturalismo, ormai considerato dai più una bestemmia, non trova più cantori né fra le OTT (quelli che chiamo i Robber Barons del XXI secolo) che sulla globalizzazione hanno costruito le loro immense fortune, né fra le imprese multinazionali finanziarie e industriali che sulla connettività hanno consolidato imperi, né fra i comunicatori che comunque sono sempre consapevolmente stati al soldo dei primi due e oggi si trovano ad esaltare il localismo; del resto, alla fine, neppure le Nazioni Unite riescono più a suscitare meritevoli visioni e idee di uguaglianza. Ricordo, come esempio di visione lungimirante, quell’illuminato direttore generale indiano delle Nazioni Unite, l’indiano Shashi Taroor, oggi tornato alla politica del suo Paese, che concepì e produsse le prime edizioni di un ciclo di lezioni per i dirigenti che prendeva il toro per le corna, dal titolo ‘unlearning intolerance’. Tutto un programma. Quel livello di visione non mi pare ci sia più.

  • Infine, rispetto al governo dei flussi migratori che è l’ovvia conseguenza degli altri due temi fin qui descritti, penso che – davanti allo specchio e diversamente dalla nostra radicata cultura autoriferita e fondata su valori strutturalmente occidentali – i miei nipoti dovranno essere capaci nel loro cammino di riconoscere, rispettare, condividere e convivere con le differenti identità e i valori di ciascun ‘diverso’.

Ricordo il grande sociologo britannico, oggi Lord Anthony Giddens, che già nel lontano 2004 a Madrid mi argomentava come la globalizzazione avesse avuto il grande, incommensurabile merito di aver fatto scoprire all’Occidente il valore della diversità.  Non ci avevo mai pensato, ma neppure sapevo dell’esistenza dei Maori e dei Papua o di tante altre cose del mondo. Certo banale, ma non per me solo 13 anni fa.

Già, ma per noi Italiani un immigrato è, sì, diverso da noi bianchi, ma è uguale all’altro immigrato (e a tutti gli altri) indipendentemente dai valori, dalle competenze, dall’origine, dalla religione, dalla cultura e dall’esperienza che ciascuno porta con sé.

Non riesco ad immaginare un così colossale e inutile spreco di valore, di risorse, di opportunità che poi oggi è anche fonte di discriminazione, violenza, povertà e fame. Siamo un Paese che muore e si spopola, e abbiamo bisogno disperato di idee, valori, principi, mestieri, braccia, abilità e competenze. Macché.

E’ come se i nostri nonni e bisnonni fossero ancora oggi lì, a Ellis Island, che era comunque assai più accogliente, un secolo fa, dei nostri campi profughi o, peggio che mai, di quelli libici dove li abbiamo rispediti a spese nostre, in una operazione di ‘pulizia etnica’ di altra natura, pur di non vederli.

Davanti allo specchio, e temendo di ascoltare le fesserie verosimilmente circolanti fra i nipoti, mi sono ripromesso di non affrontare questo tema se non lo facevano loro per primi. Con mia sorpresa lo hanno fatto loro con me l’altra sera durante una cena e sono rimasto sorpreso dalla qualità, profondità e intelligenza delle loro osservazioni.

Prima che questo Paese, cui pur sempre mi sento legato, si spopoli del tutto e venga trascinato alla dissoluzione da frane, alluvioni, terremoti anche indotti dalla incuria della mia generazione e di quelle che mi hanno seguito, spero proprio che la palla tocchi presto ai miei nipoti. E chiudo con un ‘ottimismo della volontà’; come altro definirlo, del resto?

 

(Photo credits: Sopa Design Studio)

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