Spoiler – “La previsione dei tempi” nel prossimo Senza Filtro

Los Angeles, 2029. John Connor ha un sogno: liberare la Terra dal dominio di Skynet, la rete di supercomputer, che raggiunta l’autocoscienza si ribella all’uomo e scatena un olocausto nucleare. Los Angeles, 1984. T-800 è un cyborg venuto da un futuro non troppo lontano, un’unità di infiltrazione, parte uomo e parte macchina. Sotto ha uno […]

Los Angeles, 2029. John Connor ha un sogno: liberare la Terra dal dominio di Skynet, la rete di supercomputer, che raggiunta l’autocoscienza si ribella all’uomo e scatena un olocausto nucleare. Los Angeles, 1984. T-800 è un cyborg venuto da un futuro non troppo lontano, un’unità di infiltrazione, parte uomo e parte macchina. Sotto ha uno chassis da combattimento in superlega, controllato da un microprocessore totalmente blindato, fortissimo, ma al di fuori è normale tessuto umano. Vivo. Carne, pelle, sangue, capelli elaborati per i cyborg sono difficilissimi da distinguere. La polizia lo chiama «il killer dell’elenco telefonico», per gli omicidi seriali di donne, tutte rigorosamente con lo stesso nome. Ma il vero scopo del Terminator è cambiare il corso della storiaterminare Sarah Connor, una giovane studentessa universitaria, che serve pasti veloci a clienti molesti in una piccola tavola calda. E ancora ignara madre incinta proprio di John Connor, futuro capo della resistenza contro le macchine (Terminator, J. Cameron, 1984).

Detroit, 2029. Il poliziotto Alex Murphy viene brutalmente massacrato durante il primo giorno di servizio nel nuovo distretto. La multinazionale OCP, che si sostituisce all’amministrazione pubblica nel contrastare il crimine nelle strade, prende la palla al balzo: sequestra il corpo di Murphy e lo converte in cyborg. Ed ecco che, in uno scenario degradato e distopico nasce Robocop, automa corazzato e invincibile, «parte uomo, parte macchina, tutto poliziotto», con tanto di memoria computerizzata. La gente lo ama, il crimine lo detesta. Perché, «quando il crimine regna, non c’è giustizia» (Robocop, P. Verhoeven, 1987).

New York, 1988. L’indice di criminalità negli Stati Uniti ha raggiunto il 400%. Quella che un tempo era la libera città di New York è diventata il carcere di massima sicurezza per l’intero Paese. Un muro di cinta di 15 metri circonda l’isola di Manhattan. Non ci sono guardie dentro il carcere: solo i prigionieri e i mondi che si sono creati. E le regole sono semplici: «una volta entrati, non si esce più». New York, 1997. Ora. Snake Plissken (Jena, nella versione italiana) è un ex eroe di guerra solitario e maledetto, pluridecorato prima, ergastolano poi. Plissken ha 24 ore di tempo per infiltrarsi nella Manhattan claustrofobica del futuro, liberare il presidente degli Stati Uniti, ostaggio di una banda capeggiata dal Duca e portare in salvo un nastro magnetico contenente importanti segreti di Stato. E soprattutto, per evitare che le due microcapsule esplosive, che il commissario di polizia Bob Hauk gli ha iniettato nel collo, gli tolgano la vita (Escape from New York, J. Carpenter, 1997).

Insomma, nel cinema cyberpunk e postmoderno della Hollywood degli anni Ottanta, lo scenario è dominato da matrici e innesti artificiali, città degradate e dispositivi elettronici. Dalla dialettica uomo-macchina e, soprattutto, dalle anticipazioni in chiave distopica del futuro: quelle che oggi chiamiamo le previsioni dei tempi. Ed ecco, che autori come John Carpenter e Ridley Scott, David Cronenberg e Paul Verhoeven prendono in prestito le storie di Kafka, Huxley, Orwell e Dick che, miscelate in salsa chimica e psichedelica, danno vita a mondi futuri dominati da cyborg, allegoria di un corpo umano che cessa di esistere nel significato letterale del termine, per aumentare le sue capacità: un corpo umano capace di tramutarsi in una sorta di Frankenstein, che dopo avere vestito i panni della robot ribelle nella Metropolis del futuro (Metropolis, F. Lang, 1927), abbandona l’espressionismo per rinascere in uno scenario decadente e ipertecnologico, dominato da macchine e multinazionali.

In Videodrome, definito da Andy Warhol “L’Arancia Meccanica degli anni Ottanta” e metafora dello strapotere televisivo, Max Renn è il proprietario di una piccola TV via cavo, che trasmette pornofilm a base di sadismo e capaci di trasportare l’ignaro spettatore in una realtà perturbante e allucinatoria (Videodrome, D. Cronenberg, 1983). Quella realtà dominata dallo showbiz, in cui le persone non sono quelle che sembrano e in cui, venuto in possesso di uno strano paio di occhiali da sole, il disoccupato John Nada cercherà in tutti i modi di denunciare il complotto degli alieni, intenzionati a sottomettere un’umanità condizionata da continui messaggi subliminali (They Live, J. Carpenter, 1988). E quella stessa realtà, «da qualche parte nel Ventesimo Secolo», dominata dal potere e dalla burocrazia e all’origine dei guai che capitano allo sventurato funzionario Sam Lowry che, come il Winston Smith orwelliano, si scopre prima inaspettato oppositore del sistema, per poi venirne inevitabilmente soggiogato (Brazil, Terry Gilliam, 1985).

E, mentre nella Los Angeles infetta e sovrappopolata del 2019 (ci siamo quasi!) l’ex poliziotto Rick Deckard torna in servizio per dare la caccia ai replicanti, androidi organici dotati di memoria artificiale (Blade Runner, R. Scott, 1982), negli Stati Uniti del 2084 l’operaio edile Doug Quaid si rivolge all’agenzia Recall per organizzare un viaggio virtuale su Marte, salvo poi scoprire di essere già stato sul pianeta nei panni di Hauser, agente segreto a servizio dello spietato dittatore locale (Total Recall, P. Verhoeven, 1990). E la realtà extraterrestre non fa eccezione. A metà del XXII secolo, un’astronave si aggira per lo Spazio: è la navicella scout Dark Star, in viaggio da venti, lunghi anni in missione intergalattica. Il tran-tran dell’annoiato equipaggio — scandito da erba, rock e dialoghi fenomenologici con una bomba — procede tutto sommato tranquillo, ma all’improvviso il viaggio prende una piega inattesa e l’equipaggio diventa preda delle manie claustrofobiche della bizzarra mascotte aliena, a forma di pallone da spiaggia, destinata ad essere trasportata sul pianeta Terra, mentre la bomba si rivolta contro la stessa Dark Star e diventa fondamentale «parlare con lei». (Dark Star, J. Carpenter, 1974).

Nel cinema, però, previsione dei tempi non significa solo tensione al futuro, ma anche confronto col passato: dialettica tra fascinazione e decostruzione, partecipazione e distanziazione, necessità della memoria e fatalità dell’oblio. E così, nel Giappone post-bellico un’attrice francese rivive l’amore infelice per un soldato tedesco attraverso una notte di passione con un architetto e trasforma il ricordo, uno stato, in memoria, un atto (Hiroshima mon amour, A. Resnais, 1959); mentre nella piovosa Boulogne-sur-Mer, Bernard è ossessionato da Muriel, morta sotto tortura in Algeria, in una dimensione in cui la memoria incide sulla realtà e viceversa (Muriel ou le temps d’un retour, A. Resnais, 1963). Ma è in una delle opere-simbolo del realismo poetico francese, sceneggiata da Jacques Prévert sulla base di un fait divers (un fatto di cronaca nera), che il tema della memoria irrompe in tutta la sua violenza. Ucciso Valentin, il rivale in amore, l’operaio François si barrica nella sua modesta stanzetta e, assediato dalla polizia, rivive i fatti che lo hanno condotto al tragico epilogo (Le jour se léve, M. Carné, 1939). Nel lungometraggio di Carné, tutto concorre a costruire la dimensione soggettiva e memoriale della narrazione. Un piccolo orso di peluche, una spilla, alcune fotografie sono gli oggetti che François e Françoise si sono scambiati nel corso dei mesi e che permettono al protagonista di ricostruire mentalmente il passato; i tre flashback soggettivi articolano la narrazione su due livelli temporali: presente e passato, realtà e memoria. Mentre il commento sonoro, dominato dalle percussioni secondo un ritmo di tre in tre, annuncia la morte che, come nella tradizione dell’opera lirica, bussa sempre tre volte.

In definitiva, dunque, sebbene l’essere umano sia tradizionalmente spinto verso un’idea di decodifica del passato e inconoscibilità del futuro, il cinema la pensa in modo diverso. E, per una Sarah Connor ancora inconsapevole del destino che la attende e scoraggiata di fronte all’ennesima soverchieria di un cliente dispettoso, una cosa è certa: «Non prendertela, — le spiega una collega — i clienti saranno così anche fra cent’anni».

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