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Startupper a cinquant’anni
Molti anni fa promisi a me stesso che a cinquant’anni avrei cambiato vita. Oggi posso dire di aver avuto la possibilità di onorare quella promessa. È servito un po’ di coraggio per trasformare in realtà un voto fatto tanti anni prima, senza aver ben chiaro quale scenario si sarebbe presentato una volta raggiunti i cinquanta. […]
Molti anni fa promisi a me stesso che a cinquant’anni avrei cambiato vita. Oggi posso dire di aver avuto la possibilità di onorare quella promessa.
È servito un po’ di coraggio per trasformare in realtà un voto fatto tanti anni prima, senza aver ben chiaro quale scenario si sarebbe presentato una volta raggiunti i cinquanta. E così, dopo venticinque anni di lavoro senza mai un’interruzione, per la prima volta mi svegliavo la mattina senza avere un impiego e senza un’agenda piena di impegni che si impossessava letteralmente delle mie giornate – e della mia vita.
La vita dopo il cambiamento
In questi due anni la domanda più ricorrente che ho ricevuto è stata: ma non ti manca la tua vecchia vita? Poche volte sono stato così sicuro della risposta: non c’è stato un solo momento in cui ho pensato di voler tornare indietro. Perché quando le scelte sono ponderate e si ha la fortuna di poterle prendere in piena libertà e totale consapevolezza, non c’è più nulla da rimpiangere o di cui sentire la mancanza.
Inoltre ci si rende conto che il telefono suona molto meno, ma che quando lo fa vale quasi sempre la pena di rispondere, anche senza bisogno di controllare prima chi stia chiamando, perché chi chiama vuole parlare con la persona che sei, e non con il ruolo che rappresenti.
Non avevo un’idea chiara di come si sarebbe configurato il mio futuro lavorativo, ma avevo una solida certezza: il mio concetto di ricchezza era passato dal possesso di beni al possesso di tempo, e in questo contesto avrei ricercato la mia nuova dimensione. Tornare in possesso del proprio tempo non significa avere molto tempo libero, ma avere la possibilità di scegliere come occuparlo.
Cinquant’anni, startupper
Il caso ha voluto che dopo pochi mesi incontrassi sulla mia strada un giovane talento di Cesena e un ex collega, che stavano lanciando, supportati da un importante investitore, una startup nel mondo della Cyber Security: servivano tempo ed esperienza, e io disponevo di entrambi.
Nel corso degli anni avevo conosciuto molte startup e diversi startupper. A essere sincero non ne ero mai stato particolarmente attratto per un semplice motivo: raramente avevo percepito la voglia di fare impresa rispetto al desiderio di fare denaro. I più cercavano di creare un’azienda attorno a un’idea, da vendere nel giro di pochi anni a qualche grande corporation per diventare milionari. Come se l’Italia fosse la Silicon Valley, o Israele.
Il numero di exit rilevanti (cioè, nel caso delle startup, la vendita di società ormai avviate, per fare guadagno) nel nostro paese si conta sulle dita di una mano. In più, delle oltre 8.000 startup innovative create in Italia negli ultimi cinque anni solo 300 superano i 500.000 euro di ricavi all’anno, e ogni anno ne fallisce il 6%. Se hai cinquant’anni e una solida carriera manageriale di successo alle spalle, la prospettiva di rischiare di fallire nella tua prima avventura imprenditoriale è un’ipotesi che sei meno propenso ad accettare. A 30 anni, forse, l’avrei vissuta con più leggerezza.
Sì, perché il fallimento come elemento intrinseco del processo di innovazione, che si teorizza nelle aule, sicuramente vale nella cultura anglosassone ma di certo non in Europa e in Italia, dove fallire equivale a cucirsi addosso una lettera scarlatta da portare con sé per il resto della vita.
Quando ho chiesto al mio socio che cosa volesse realizzare e quale fosse il suo sogno mi ha detto: “voglio creare la più innovativa e ammirata azienda italiana nel nostro settore”. Finalmente: era impresa, e non finanza. Perché se fai impresa il profitto diventa un sottoprodotto del lavoro. La spinta non è massimizzarne il valore nel breve termine per trarne il massimo profitto, ma creare i presupposti per continuare a crescere in modo sostenibile nel lungo periodo.
La lezione delle startup
Questa è stata la mia prima esperienza diretta nel mondo delle startup high tech, e si è rivelata molto più formativa di quanto avrei mai potuto immaginare: la prima cosa che ho imparato è che il passato rischia di diventare il più grande limite per immaginare il futuro. È necessario ripartire da zero, studiare, sviluppare nuove competenze, mettersi in discussione e rivedere molte idee e principi che si ritenevano scolpiti nella pietra.
Esperienza e network sono fondamentali e imprescindibili, ma non possono essere l’unica risorsa su cui contare. È necessario trovare il giusto equilibrio tra competenza ed esperienza, che quasi inevitabilmente spesso si traduce in un equilibrio di tipo generazionale: far convivere gli over 50 con gli under 30, creare un contesto che da un lato non freni la spinta creativa e innovativa e dall’altro valorizzi l’esperienza e la razionalità.
Come l’eccessivo legame con il passato rappresenta il più grande freno che oggi professionisti e aziende hanno nel processo d’innovazione, allo stesso modo credo che il giovanilismo estremo che nutre la retorica narrativa del mondo delle start up, e che si sta diffondendo nel mondo delle aziende, rischia di essere il più grande ostacolo al processo di generazione del valore di impresa.
Tirando le somme
A distanza di due anni continuo a vivere con quella fantastica sensazione che possa ogni giorno succedere qualcosa di nuovo, che si apra un nuovo capitolo. Ora che il lavoro è una parte importante ma non più totalizzante della mia vita paradossalmente ha liberato ancora più energie, passione e voglia di fare. Perché non sono le ore di lavoro che determinano l’impegno, bensì il proprio grado di coinvolgimento intellettuale ed emotivo a un progetto.
Il foglio bianco si riempie ogni giorno di nuovi colori, e la possibilità di scegliere quotidianamente che forma dargli è un privilegio al quale difficilmente potrò mai rinunciare.
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