Il paradosso tutto italiano di un turismo culturale

Il turismo culturale sarebbe nel DNA italiano, ma passa attraverso varie criticità, nonostante le istituzioni si sforzino, senza troppi risultati, di tracciare una strada sostenibile. Una formazione ancora debole e che non sempre risponde alle esigenze delle imprese, un’eccessiva concentrazione del turismo in poche zone a discapito di altre, l’ancoraggio alla tradizione, le problematiche legate all’accoglienza […]

Il turismo culturale sarebbe nel DNA italiano, ma passa attraverso varie criticità, nonostante le istituzioni si sforzino, senza troppi risultati, di tracciare una strada sostenibile. Una formazione ancora debole e che non sempre risponde alle esigenze delle imprese, un’eccessiva concentrazione del turismo in poche zone a discapito di altre, l’ancoraggio alla tradizione, le problematiche legate all’accoglienza e l’ancora debole sviluppo dei servizi aggiuntivi capaci di attrarre categorie come i giovani sono solo alcuni dei limiti italiani. Per superarli è necessario un costante dialogo fra istituzioni e territorio, lavorando per un rinnovamento e per un modello di sviluppo che stia al passo della società e al concetto stesso di cultura. Ne parliamo con Franco Iseppi, presidente del Touring Club Italiano.                                                                                        

Si può parlare di turismo culturale, oggi, in Italia?

Nel nostro Paese è nato il turismo che affonda le sue radici nei Grand Tour ottocenteschi, che erano viaggi culturali e di formazione per le élite europee. Il turismo culturale, dunque, è nel DNA dell’Italia, e costituisce oggi una motivazione di visita molto importante. Gli ultimi dati statistici ci dicono che le presenze nelle nostre città d’arte sono quasi 110 milioni (il 27% del totale), poco al di sotto di quelle registrate nelle località balneari (117 milioni). Se si guarda alla provenienza dei viaggiatori, si coglie subito il ruolo del nostro patrimonio come attrattore per l’incoming: il 33% delle presenze straniere in Italia si concentra nelle città d’arte (quota che scende al 21% per gli italiani), a conferma che il nostro Paese nell’immaginario collettivo mondiale è fortemente identificato con arte e cultura. Questo modello, pur rivelatosi vincente negli anni, è chiamato a evolversi anche alla luce dell’evoluzione stessa del concetto di cultura, come ci ricorda la Convezione di Faro e come emerge dagli obiettivi fissati per il 2018, Anno Europeo del Patrimonio Culturale, iniziativa non a caso avviata grazie al lavoro di un’europarlamentare italiana, Silvia Costa. Cultura è oggi più che mai un termine con molti significati, e definisce “oggetti” e concetti molto ampi: il turismo culturale è dunque caratterizzato da diverse motivazioni che riguardano non solo la visita di beni storici e artistici ma anche la partecipazione a mostre, fiere e concerti, il desiderio di approfondire la conoscenza delle tradizioni, del folklore, dell’artigianato e dell’enogastronomia.

In Italia il turismo culturale ha dei limiti, come per esempio un piano strategico ancora troppo debole e un’eccessiva concentrazione del turismo in pochi luoghi a discapito di altre zone poco valorizzate nonostante l’alto potenziale. Qual è, allora, la direzione da seguire?

Il Piano Strategico del Turismo è un documento di indirizzo, sicuramente meno di contenuto, ma in questi ultimi anni è stato comunque importante perché ha indicato una strada chiara verso il tipo di turismo che l’Italia intende perseguire, mettendo in evidenza parole d’ordine come sostenibilità e territorio. Si tenga conto che oggi le prime cinque città d’arte italiane per presenze totali (Roma, Milano, Venezia, Firenze e Torino) attraggono oltre il 50% di tutte le presenze nelle località culturali del nostro Paese; una concentrazione molto forte in pochi luoghi che negli anni ha prodotto distorsioni e problemi nel cosiddetto “turisdotto”, e che sono sotto gli occhi di tutti. Occorre dunque un’inversione di tendenza: per il Touring bisogna individuare una via italiana al turismo, ovvero un modello di sviluppo che provi a interpretare i nostri principali asset in chiave contemporanea senza snaturare l’identità del Paese. In questa direzione vanno una serie di iniziative che il TCI promuove per partecipare attivamente alla crescita della cultura turistica del nostro Paese. Un primo progetto è Bandiere Arancioni, che di fatto ha dato concretezza a tutta l’attività editoriale sull’Italia minore che ha caratterizzato il Touring a partire dagli anni Ottanta. La Bandiera è un marchio di qualità assegnato a 230 paesi dell’entroterra che si sono distinti per le loro caratteristiche di unicità e l’impegno in un’offerta di qualità. Attraverso il volontariato culturale e l’iniziativa Aperti per Voi, poi, la nostra associazione sta contribuendo a riaprire quei luoghi dell’Italia altrimenti negati alla fruizione e che contribuiscono a rendere l’offerta culturale più ampia e meno concentrata nei soliti luoghi.

In Italia c’è anche un gap per quanto riguarda la formazione degli operatori rispetto alla media europea. Come colmarlo?

L’esigenza di adeguati percorsi professionali (di livello superiore e universitario) è sicuramente sentita per il settore turistico, che deve fare i conti con modifiche progressive della domanda e dei prodotti, ma probabilmente è ancora più forte per il settore culturale in cui storicamente le professioni hanno di solito privilegiato più l’oggetto (il bene culturale) che il soggetto (fruitore). A questo si aggiunge la necessità di guardare anche oltre il tradizionale mondo dei musei e dei monumenti per sviluppare professionalità sempre più legate all’organizzazione e alla gestione di eventi e manifestazioni, e all’integrazione della cultura con gli aspetti delle produzioni tipiche (artigianali ed enogastronomiche). La forte attrattività dell’Italia dovrebbe attirare nel turismo le migliori giovani intelligenze di casa nostra: per questo occorre puntare a una più qualificata e qualificante formazione tecnico-professionale, per la quale nel passato vantavamo livelli di eccellenza, date le caratteristiche labour intensive del settore; poi occorre ripensare la formazione universitaria, dove si è assistito negli ultimi anni a un progressivo scollamento tra offerta formativa ed esigenze espresse dalle imprese.

Come integrare l’identità coi tempi contemporanei?

La prima non può prescindere dai secondi. Per rispondere alle domande e ai bisogni  dei nuovi viaggiatori, alla radice delle pur robuste identità storiche dei nostri borghi, dei nostri comprensori, delle nostre città, bisogna innestare le nuove esigenze, soprattutto delle nuove generazioni, fatte di nuovi linguaggi, di innovativi strumenti offerti dalla tecnologia, dando quindi peso e spazio a chi vuole qualificare il suo modo di essere turista e viaggiatore: stabilire un rapporto virtuoso con le comunità ospitanti, favorire l’inclusione sociale, prendersi cura dei luoghi che attraversa. Se si vuole innovare la politica turistica bisogna tener conto di questi indicatori, saldandoli con le identità storiche dei luoghi. E il contesto integratore più efficace, dove si creano prodotti attrattivi e servizi utili, sono proprio i territori, intesi come aree di comunità omogenee, non certo come distretti amministrativi.

Secondo lei che cosa possono fare le istituzioni per invertire la tendenza che vede la poca attenzione italiana per la cultura (secondo i dati Istat una famiglia su dieci non ha un libro in casa) e per migliorare le richieste di qualità di quelle poche persone che invece la cercano, in modo da rendere il turismo culturale un vero motore per l’economia?

Vorrei rispondere riprendendo tre spunti che il Touring Club Italiano ha posto all’attenzione della discussione durante l’audizione presso la Commissione di studio per l’attivazione del sistema museale nazionale del MiBACT. È necessaria, in prima battuta, un’attività di forte raccordo tra istituzioni museali e territorio (cittadini, scuole etc.), in modo che vengano vissuti anche dal visitatore (turista, escursionista, residente) come entità integrate e non come universi paralleli. Se i siti di maggior attrazione generano direttamente flussi di turismo e si basano su un capitale d’immagine e di notorietà molto forti, le strutture più piccole e poco conosciute potrebbero avvantaggiarsi notevolmente da un più stretto rapporto con la dimensione locale (integrazione con le politiche turistiche, partecipazione a iniziative di sistema come le card di destinazione etc.). In questa attività di raccordo – e veniamo così al secondo punto – è fondamentale il ruolo della cittadinanza, soprattutto di coloro che sono disposti attivamente a contribuire alla valorizzazione del territorio. Il volontariato – in particolar modo quello culturale – è una risorsa importante per far rivivere luoghi di pregio storico-artistico e per aprirli a una dimensione sociale, altrimenti preclusa. Rafforza, inoltre, una percezione positiva nei turisti perché trasmette, attraverso l’attività dei residenti, un’immagine di cura e orgoglio del territorio. Infine il tema dei servizi aggiuntivi, in particolare delle attività utili per avvicinare ai luoghi della cultura target altrimenti difficili da attrarre. Giovani e famiglie sono esempi di segmenti della popolazione ai quali occorre proporre la visita non solo come momento di accrescimento della conoscenza ma anche come esperienza ludica: da questo punto di vista il nostro Paese, pur avendo fatto passi importanti negli ultimi anni, non è tuttora allineato con quanto succede all’estero. In conclusione, vorrei anche ricordare che un importante volano di crescita culturale – e anche della cultura del turismo – può essere rappresentato per i più giovani dai viaggi di istruzione, di cui il Touring è stato “inventore” agli inizi del Novecento. Oggi si tratta di una forma di turismo in declino per tanti motivi, che avrebbe senso però valorizzare ridefinendone le finalità, per contribuire a formare le nuove generazioni.

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