La riforma della scuola: l’attimo fuggente è fuggito

Quando mi è stato proposto di scrivere un commento dall’interno sulla (ennesima!) riforma della scuola, la tentazione di rispondere no è stata fortissima. Più forte, però, è stato il desiderio di sfruttare l’opportunità, finalmente, di mettere qualche puntino sulle “i” e di sfatare alcuni miti e leggende metropolitane che avvolgono il mondo della scuola e, nello […]

Quando mi è stato proposto di scrivere un commento dall’interno sulla (ennesima!) riforma della scuola, la tentazione di rispondere no è stata fortissima. Più forte, però, è stato il desiderio di sfruttare l’opportunità, finalmente, di mettere qualche puntino sulle “i” e di sfatare alcuni miti e leggende metropolitane che avvolgono il mondo della scuola e, nello specifico, gli insegnanti. E così, eccomi qui, a cercare di spiegare cosa mi piace (poco) e cosa non mi piace (tanto) di questa riforma, decisamente calata un po’ troppo violentemente dall’alto e con poche opportunità di confronto con gli attori principali del settore istruzione, insegnanti e studenti.

Tutto ciò che leggerete da qui in poi, è frutto di una riflessione dall’interno del mondo della scuola, ma è una riflessione a titolo puramente personale, nei limiti del possibile senza bandiere politiche, sicuramente senza sigle sindacali, improntata al buon senso (spero!) di una professionista che nel settore della scuola lavora da circa quattordici anni, ma anche di una cittadina che paga le tasse e che vorrebbe vedere il suo contributo al funzionamento della macchina dello Stato messo a frutto e fruito in maniera sicuramente migliore di quanto non avvenga adesso.

Credo sia doverosa una premessa: come molti altri settori dell’amministrazione dello Stato, anche il settore dell’istruzione è un grande calderone in cui si riversano istanze di varia natura. È un aspetto che in qualche modo promana dalla natura strategica del comparto: possono facilmente convenire tutti sul fatto che senza persone istruite e formate, ben poco possiamo ricavare da tutti gli altri settori che muovono l’economia di un paese. In generale, i dati europei non credo smentiscano questa mia affermazione. Sarebbe, però, fin troppo facile far valere l’uguaglianza che a investimenti ingenti nel settore istruzione/formazione corrisponda un paese con un PIL sempre in crescita: vale per alcuni paesi europei ma di certo non vale per l’Italia. E allora dobbiamo chiederci: perché? Perché nel mondo dell’istruzione si investe poco, ma soprattutto, ahimè, si investe male. Malissimo.

La fetta più grossa del bilancio dell’amministrazione è la voce “dipendenti”. Circa il 93% delle risorse economiche è speso in risorse umane. E anche qui, l’uguaglianza elementare che ne deriva è: se il settore scuola non funziona e la voce di budget più ingombrante è quella dei dipendenti, allora si deve tagliare sui dipendenti e investire da un’altra parte. Già, tagliare sui dipendenti. Questo è il desiderio inconfessabile, neanche poi tanto, di buona parte degli italiani: mandiamone a casa quanti più possibile e cominciamo a risparmiare. Il “dagli al docente” è uno sport praticato ultimamente da molti, con grande soddisfazione e con una spiccata tendenza a diventare a breve disciplina olimpica, con l’obiettivo di conquistare un paniere di medaglie, quasi tutte d’oro, nel 2016 a Rio. Spero si colga il sarcasmo della mia affermazione, ma spero non si pensi che voglia star qui a difendere una categoria, di cui vedo, prima che i pregi, soprattutto i difetti. Credo anche, però, che sia doveroso far comprendere che, a fronte di un numero, certo non esiguo, di incompetenti, lavativi, mangiapane a tradimento o chiamateli come più preferite, ma che pur sempre però costituiscono una minoranza, c’è un maggioranza silenziosa che con dignità, abnegazione, passione, spirito di sacrificio, porta avanti il suo lavoro lontana dai riflettori e purtroppo, spesso, con una prospettiva di carriera pari a zero.

Insomma, ditecene quante ne volete, ma non diteci che siamo casta e non diteci che siamo corporazione. Il mondo degli insegnanti è quanto di più disomogeneo e disarticolato esista e in cui la solidarietà e lo spirito di corpo sono dei perfetti sconosciuti, vuoi anche perché da diversi anni a questa parte è in atto una guerra tra poveri, fomentata da più forze politiche, che non ha fatto altro che dividere ancora di più la categoria.

Spiegare il mondo della scuola a chi non lavora al suo interno è difficilissimo. Lo è anche per chi ci lavora, perché i meccanismi che lo regolano sono farraginosi, barocchi e per certi versi anacronistici. Cosa non funziona nel mondo della scuola? Tutto. Cosa migliorerà la riforma? Praticamente, nulla. Fatte salve le finalità e gli scopi nobilissimi esposti nell’art. 1 del DdL ancora in discussione in parlamento, i restanti venticinque sono un gran pastrocchio, una specie di festival del “vorrei ma non posso”, ma soprattutto, e questo mi sembra veramente vergognoso, oltreché fortemente contraddittorio, un continuo ripetere e sottolineare “senza alcun onere aggiuntivo di spesa, senza alcun onere oltre quelli previsti dalla legge”: senza, senza, senza, senza. Senza un soldo in più. “Innoviamo, aggiorniamo, formiamo, costruiamo, rimoderniamo, mettiamo in sicurezza, offriamo lo school bonus, offriamo la carta del docente” però “senza” spendere un centesimo in più di quelli che già stiamo spendendo adesso oppure rimandando a decreti-legge e ordinanze del futuro e sempre se il MEF ci dirà che ci sono i soldi per farlo. Mi sembra di sentire “eh, vorrei abbattere quella parete e creare una stanza da letto in più per il secondo figlio in arrivo, ma dovrò farlo senza pagare il muratore, oppure lo pagherò se ci saranno i soldi anche se non so quando questo accadrà e se accadrà”. A invarianza di spesa. Il muratore, con ogni probabilità, mi lascerà correre dietro un martello e, francamente, non mi sento di dargli torto.

Il guaio è che questo è quello che avviene ormai da anni nel mondo della scuola. Tutto quello che si fa, si fa per buona volontà, si fa gratis et amore Dei. E qui so già che si scatenerà la ridda di polemiche sul fatto che non possiamo lamentarci dei nostri lauti stipendi, perché, in fondo, il nostro contratto di lavoro è praticamente un part-time di lusso. Già. Il nostro contratto di lavoro (invariato dal 2006), prevede 18 ore settimanali di attività didattica frontale, cioè in classe, per circa 33 settimane; 80 ore, cosiddette “funzionali” all’insegnamento (consigli di classe, collegi docenti, incontri scuola-famiglia); sospensione dell’attività didattica nei periodi delle festività natalizie, pasquali e ovviamente i famigerati tre mesi di vacanza all’anno (a dire il vero il contratto dice che sono 32 gg + 4, domeniche e festivi esclusi, il che di solito mi porta ad essere in ferie dal 20 luglio al 31 agosto e soprattutto non mi consente di fruire delle ferie in nessun altro periodo dell’anno, eccezion fatta per 5 giorni, facenti sempre parte di quei 32+4 di cui sopra, che possono richiedere e di cui posso fruire solo se garantisco di non arrecare alcun onere aggiuntivo alla scuola: in soldoni, se decido di prendere le ferie a marzo, devo trovare un po’ di colleghi disposti a sostituirmi gratis, a puro titolo di favore personale). Il resto dei permessi di cui fruisce un docente sono esattamente gli stessi di tutti gli altri dipendenti pubblici e in parte anche dei privati, cioè motivi di famiglia, lutto, visite mediche e naturalmente assenze per malattia e, altra vexata quaestio, la legge 104/92. Lo stipendio di base si aggira intorno ai 1300€, come docenti di scuola secondaria di primo grado.

Cosa succede nella realtà dei fatti che ci rende così odiosi a tutte le altre categorie professionali? La totale mancanza di controllo sul nostro operato. Cerco di spiegarmi quanto più chiaramente possibile. Ho imparato in questi anni che ci sono, a occhio e croce, tre modi di fare l’insegnante: 1) faccio le mie 18 ore settimanali, le 80 funzionali, utilizzo tutti i permessi a mia disposizione, sfrutto i pomeriggi liberi per un secondo lavoro che probabilmente mi gratifica di più e che mi permette un’esistenza più dignitosa di quanto non me lo consenta lo stipendio di cui sopra; 2) faccio le mie 18 ore settimanali, le 80 funzionali, utilizzo tutti i permessi a mia disposizione e ogni tanto dedico un paio di ore a settimana ad aggiornare le mie lezioni e a calibrarle sulle reali esigenze della classe e, se capita, navigo anche in rete per vedere se c’è qualcosa di nuovo che potrebbe interessarmi. Il resto del tempo a disposizione scelgo di impiegarlo per altre cose che mi interessano, compreso il potenziale secondo lavoro o le lezioni private; 3) alle 18 ore frontali e alle 80 funzionali, ne aggiungo settimanalmente più o meno altrettante che sono ripartite in: preparazione degli interventi didattici, modulati e calibrati sulle reali esigenze della classe, differenziando e tenendo conto degli alunni con disturbi dell’apprendimento e alunni con bisogni edicativi speciali, preparando esercizi, schede di lavoro e verifiche che possano essere affrontate da tutti gli alunni (quanto sono belle le schede già pronte degli eserciziari che devi solo fotocopiarle e distribuirle in classe!), riscrivendo a volte il libro di testo perché nella tua classe il livello delle conoscenze di base è molto basso e a volte il libro di testo ha un lessico specifico di difficile comprensione, correggendo quotidianamente i compiti che hai assegnato; in auto-formazione, in auto-aggiornamento, in frequenza di corsi online e in presenza che non riguardino solo la tua disciplina che ti aiutino a crescere come professionista, perché non credi che fare l’insegnante sia un mestiere, ma una professione vera e propria; in redazione di progetti e attività extracurricolari perché credi che soprattutto nei contesti di particolare disagio socio-economico non ci si possa fermare alla lezione frontale ma bisogna cercare di sopperire alle carenze economiche, sociali, affettive offrendo ai tuoi studenti sempre qualcosa in più e mai qualcosa in meno; nella produzione di materiali alternativi a quelli previsti (a cominciare dai libri di testo), perché a volte i tuoi alunni sono così poveri che non hanno neanche i quaderni e il più delle volte te ne fai carico tu che porti a scuola i pacchi giganti di quaderni, quadernoni, penne, matite, colori, colla e nastro adesivo perché altrimenti loro passerebbero un intero anno scolastico anche senza possederne uno. E lo fai di tasca tua. Ma non lo dici, perché tanto con il tuo lauto stipendio puoi fare questo e altro. Poi continui a studiare la notte, a condividere materiali, a cercare di non fossilizzarti solo sulla tua disciplina, perché comunque, la realtà contemporanea ti vuole sempre up to date e devi dimostrare ogni giorno che le tue competenze sono aggiornate, sono qualificate e che non solo conosci bene la tua disciplina ma possiedi anche skills comunicative, gestionali, relazionali etc etc etc.

Ecco, ora non so se i professori del tipo 1 e 2 siano la maggioranza, ma c’è forse da sperare che siano anche quelli più vicini alla pensione. In parte, a volte, li capisco, perché relazionarsi con le ultime generazioni di studenti non è per niente facile quando cominci ad avere sessant’anni, ma anche quando ne hai trenta. Quello che un po’ mi brucia è che non si tiene minimamente conto degli altri docenti. Vorrei che questa differenza venisse fuori concretamente. E vorrei essere valutata. Per lo meno, io voglio essere valutata, voglio il dirigente scolastico che entra in classe a sorpresa a vedere cosa sto facendo, se sto dando un buon esempio con il mio operato o se sto leggendo la Gazzetta dello sport o l’ultimo numero di Vanity Fair mentre i ragazzi scattano selfie e li postano sui social network. Io voglio che qualcuno controlli se tengo in ordine i miei strumenti, a cominciare dal registro, se assegno i compiti e poi li correggo, se faccio le verifiche e le riconsegno ai miei studenti in un tempo congruo e non facendo passare un mese e magari  facendo un’altra verifica nel frattempo. Voglio che qualcuno verifichi se la LIM che ho in classe la uso come se fosse un maxischermo o se ho delle competenze specifiche nell’uso didattico delle nuove tecnologie, se sono in grado di accendere un computer e produrre un documento di testo o se non so neanche cosa sia un programma di videoscrittura. Io voglio anche che mi venga dato un cartellino da timbrare in entrata e in uscita per essere sicuri che io sia presente a scuola quando comincia il mio orario di servizio e voglio anche che qualcuno controlli che non vada a farmi la spesa o che non utilizzi i permessi per malattia per andare in palestra E voglio soprattutto che tutte le attività aggiuntive che svolgo in autonomia, per senso del dovere, che riguardano la preparazione degli interventi didattici, le relazioni ai servizi sociali, l’aggiornamento online e in presenza, la ricerca e la produzione  di materiali, siano una parte consistente del mio contratto di lavoro. Io voglio un contratto di lavoro da 50 ore settimanali. Voglio essere valutata per tutto quello che faccio, nel bene e anche e soprattutto nel male, perché mi sia data la possibilità di migliorarmi e, qualora io non sia in grado di farlo, che mi si mandi pure a casa (l’altro grande tabù del mondo della scuola, impossibile licenziare un docente che non faccia il suo dovere). Però voglio anche che mi si diano gli strumenti per fare tutto questo.

I detrattori della nostra professione ripetono sempre che non dobbiamo lamentarci dei nostri stipendi o confrontarli con quelli degli altri paesi perché i docenti stranieri lavorano molto di più di noi. Generalmente, chi lo afferma non sa in che modo sono organizzate le strutture scolastiche straniere e quindi non sa che quello che per noi è demandato alla buona volontà del singolo, negli altri stati è parte integrante del contratto di lavoro che per l’appunto prevede un maggior numero di ore settimanali, ma non sa che queste attività si svolgono non tra le mura domestiche, ma a scuola, dove i docenti hanno i loro uffici, i loro strumenti informatici, i loro libri e la possibilità di fruire di tutti gli altri mezzi e strumenti messi a disposizione dalle istituzioni scolastiche. La tanto sbandierata riforma sul merito degli insegnanti in realtà non fornisce alcune risposta alle richieste di una valutazione seria che valorizzi realmente le eccellenze, nell’interesse prioritario della formazione degli studenti, prima ancora che del giusto riconoscimento economico.

Voglio essere valutata, ma voglio che a farlo siano persone che sanno come funziona la scuola, che siano più preparate e più competenti di me e che possano applicare un qualche criterio oggettivo. Perché in un contesto generale in cui il merito non è premiato, ho grosse perplessità nell’affidare la mia carriera futura a qualcuno senza alcuna garanzia. La riforma prova a “metterci una pezza”, rendendo ancora più farraginoso il sistema di reclutamento, che non tiene conto delle reali esigenze in termini di risorse umane, ma continua a voler fare della scuola il refugium peccatorum dei laureati, soprattutto delle discipline di ambito umanistico, che non trovano altri sbocchi lavorativi e che deve fare i conti con i richiami a livello europeo per una precedente scellerata politica che del precariato di lungo corso ha voluto fare il suo principale bacino elettorale. Con il risultato di fornirci una classe docente con un’età media elevata e fortemente demotivata, inesistente continuità didattica e assenza di una progettualità efficace di medio-lungo periodo.

Ecco perché la riforma non mi piace. Perché non dà le risposte che la scuola chiede e quelle poche risposte che cerca di dare sono vaghe e poco o per niente argomentate; perchè mette insieme in un unico calderone istanze che hanno diversa priorità, rendendo tutto prioritario, cambiando tutto senza cambiare davvero nulla; con una base ideologica che vuole essere prima di tutto punitiva perché ci vede come casta di privilegiati e soprattutto senza valutare l’apporto di chi nella scuola vive quotidianamente, in realtà geografiche, sociali, economiche profondamente diverse e che degli attori principali del processo di istruzione e formazione sembra non voler minimamente ascoltare la voce.

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