Introspezione sui freelance che fanno rete

Stefano Pasqui lavora dal 1973 come psicologo sociale, del lavoro e dell’organizzazione, in particolare sui temi della gestione delle risorse umane e del benessere lavorativo.Fra le sue pubblicazioni, il libro “Networking – Saper stare nella complessità delle reti organizzative” [ed. Anima Mundi, 2003]. Chi lavora da freelance deve necessariamente essere portato, o quantomeno allenarsi, all’autonomia […]

Stefano Pasqui lavora dal 1973 come psicologo sociale, del lavoro e dell’organizzazione, in particolare sui temi della gestione delle risorse umane e del benessere lavorativo.Fra le sue pubblicazioni, il libro “Networking – Saper stare nella complessità delle reti organizzative” [ed. Anima Mundi, 2003].
Chi lavora da freelance deve necessariamente essere portato, o quantomeno allenarsi, all’autonomia e all’auto-organizzazione; non necessariamente però questo significa lavorare da soli, anzi spesso una delle svolte-chiave della vita del freelance è quando capisce che può “fare rete” con altri freelance, sia per compensare reciprocamente punti di forza e di debolezza, sia per affrontare progetti la cui complessità va oltre le competenze di un singolo.
Quali problemi possono nascere quando un individuo con spiccata propensione all’indipendenza si mette in rete con altri?

I problemi principali che deve affrontare chi è abituato a lavorare in totale autonomia e si trova a un certo punto a costituire una rete sono legati alla necessità di cambiare il proprio modo di pensare, prima ancora che di agire.
È come se un calciatore abituato a tirare di destro dovesse iniziare a tirare anche col sinistro: quanto è allenato a farlo? È in grado di usare entrambe le modalità, quindi sa essere autonomo, analizzare i dati e prendere decisioni da solo, ma può anche farlo in team, oppure ha sempre e solo contato su se stesso e quindi può trovarsi a disagio perché non si fida di come lavorano gli altri e vuole tenere sotto controllo tutto?
Lavorare insieme significa imparare a fidarsi della parte di lavoro che fanno gli altri, anche se fino a ieri ci siamo fidati solo di noi stessi. Se uno si ritrova a fare il lavoro due volte per mancanza di fiducia, ben presto penserà “allora vedi che si fa prima a lavorare da soli?”
Quindi, chi passa dalla condizione di totale indipendenza a una situazione di partnership deve innanzitutto domandarsi fino a che punto si è “fossilizzato” nel lavorare da solo, e come costruire l’atteggiamento mentale giusto.

Una situazione che ho vissuto o che ho visto accadere più di una volta: ci si mette insieme per un progetto, le cose funzionano bene e si continua a lavorare insieme pur restando ciascuno con la sua partita IVA e senza che i progetti comuni vadano a impegnare il 100% del tempo di ciascuno. Però, di fatto, si è formata una piccola rete, una comunità che funziona come un organismo strutturato, in cui ci si è assegnati dei ruoli e si è trovato un modus operandi comune. Poi, a un certo punto, sorge la necessità – o l’occasione – di allargare la rete coinvolgendo anche altre persone. Serve chiedersi quali siano i rischi e le criticità di questa situazione, come affrontarle e superarle. E se le cose non funzionano, come fare a sanare le ferite che si creano?

Qui bisogna entrare nella logica dei gruppi. Se noi lavoriamo insieme, già da un po’ dobbiamo prendere atto di aver creato una nuova entità, che chiamiamo “gruppo”. Si tratta di un’entità magari difficile da circoscrivere o definire, ma che bisogna prendere in serissima considerazione, perché è un’entità vivente a tutti gli effetti – come una foresta è un’entità vivente a se’ non riconducibile alla somma degli organismi e dei materiali che la compongono, tanto che, quando al gruppo si aggiunge un nuovo elemento, questo ne modifica inevitabilmente la struttura.
Su quali elementi inconsci – le abitudini a cui non facciamo attenzione – si basa il nostro gruppo? E sorpattutto spieghiamo il ruolo di un nuovo membro che entra a farne parte.
Le regole, le abitudini su cui ci siamo messi verbalmente d’accordo non costituiscono un problema, perché quando arriva un nuovo membro del gruppo gliele comunichiamo, anzi sono spesso la base su cui il nuovo arrivato decide o meno di entrare: “patti chiari, amicizia lunga”.
Il vero problema sta in tutte quelle abitudini comportamentali o di pensiero che noi attuiamo, ma non siamo nemmeno consapevoli di attuarle: sono frutto della nostra abitudine a stare insieme, ma non sono mai state formalizzate; di conseguenza, quando arriva un nuovo membro del gruppo, noi non gli spieghiamo esplicitamente queste regole, anche perché spesso si tratta di accenti, di modi di fare le cose, ma ci accorgiamo della loro esistenza nel momento in cui il nuovo arrivato si comporta in modo diverso.
Questo ci mette in crisi, lo viviamo come una ferita, un’offesa; in realtà non è stata una ferita volontaria, perché il nuovo arrivato semplicemente non sapeva che stare nel gruppo implicava anche questo aspetto.
Il modo di gestire questa situazione è, appunto, capire che non si tratta di una trasgressione volontaria, e semmai approfittare dell’occasione per riesaminare il modo in cui facciamo abitualmente le cose, evitando che certe abitudini si fossilizzino perché non sono mai state messe in discussione.
Non è possibile essere esaurienti a priori, proprio perché certe diversità si capiscono solo dandosi il tempo di giocare insieme: bisogna farlo, accettando che il nuovo arrivato metterà in crisi le abitudini consolidate e ci chiederà conto di modi di fare e di pensare che da un po’ di tempo non venivano rianalizzati. Poi questa analisi potrebbe condurre sia a riconfermare gli standard, sia a modificarli e arricchirli grazie al contributo del nuovo arrivato.
Ricordiamoci che l’abitudine ha due facce: da una parte ci fa risparmiare tempo ed energia, dall’altra mette a rischio la flessibilità, che invece è una dote essenziale.
E, visto dall’altro lato, per chi arriva o vorrebbe entrare in una rete già formata c’è la necessità di un atteggiamento speculare di attenzione e di consapevolezza, sapendo che si entra pensando di portare un contributo, ma anche di potersi scontrare con dei “qui si fa così”?

Certo. Quando io entro in un gruppo già formato, devo sapere che porto la mia diversità: i denominatori comuni li dobbiamo trovare insieme. Anch’io devo essere disposto a fare questa ricerca, e di nuovo la flessibilità è un requisito essenziale per lavorare in gruppo.
Flessibilità significa anche non irrigidirsi nel proprio ruolo, essere disposti a cambiare; il che non significa che io da psicologo devo diventare ingegnere elettronico, ma sicuramente devo essere disposto ad ascoltare anche la visione del mondo dell’ingegnere elettronico, perché so che la mia visione da psicologo è inevitabilmente parziale.

Questa osservazione mi porta dritta al tema della multidisciplinarietà. Siamo immersi in una realtà che cambia sempre più velocemente e, se da una parte abbiamo sempre più risorse di conoscenza potenzialmente disponibili, dall’altra è oggettivamente impossibile dominare per intero tutti gli aspetti di un problema; in questo scenario, mi sembra che le caratteristiche chiave dei gruppi di lavoro siano interdisciplinarietà e diversità. Quale atteggiamento serve per lavorare in modo costruttivo insieme a persone con competenze diverse dalle nostre? E, per chi vuole costruire un gruppo di lavoro multidisciplinare e ad alto tasso di diversità, quali sono i fondamentali per farlo funzionare bene?

C’è un presupposto fondamentale: accettare la realtà in tutta la sua complessità.
Per molto tempo la scienza ha cercato di irrigidire in schemi definiti la realtà; oggi ci stiamo rendendo conto che la realtà è una macchina complessa – non per forza complicata – in cui dobbiamo attuare modi di pensare completamente diversi.
Ieri sera ascoltavo un comandante dei Vigili del Fuoco che spiegava quanto è complessa la messa in moto della macchina per la gestione dell’emergenza dopo un terremoto; molto più di quanto solitamente pensa chi da fuori commenta le notizie chiedendosi “perché i soccorsi non sono arrivati subito?” Per non fare danni bisogna agire avendo in mano un quadro completo della situazione e distribuire gli incarichi in modo ottimale.
Così, ad esempio, il personale della Protezione Civile è specializzato nel montare i campi di primo soccorso e le tende che devono ospitare senzatetto e soccorritori, nel modo migliore e nel più breve tempo possibile; una volta fatto questo, la cosa migliore che possono fare è sparire, perché avere 40 persone che gironzolano per il campo chiedendo in che modo possono essere utili è un inutile caos, anche se ciascuno sarebbe ben disposto a fare di più.
Allora, la cosa difficile – ma essenziale – è capire ed accettare i limiti del proprio contributo: il mio lavoro inizia qui e finisce lì. E questo è essenziale quando si lavora in gruppo: accettare la propria incompletezza, e il fatto che, per governare la realtà, dobbiamo prendere atto della sua complessità.
Il vecchio proverbio “chi fa da se’ fa per tre” si portava dietro un intero manuale di istruzioni: diffidenza, sospetto, segretezza, tutto il necessario per vivere in un mondo dominato dalla chiusura. Oggi abbiamo di fronte una realtà e delle problematiche tanto complesse al punto che, con la logica del “faccio tutto da me”, saremo sempre sconfitti.
La realtà è tanto complessa che è impossibile che ciascuno di noi, con la propria competenza limitata, riesca a descriverla, comprenderla interamente e addirittura dipanarla. Io posso vederne e spiegarne una parte, dal mio punto di vista di psicologo, e il modo in cui la spiegherà l’ingegnere sarà diverso; allora il problema non è decidere chi di noi due ha ragione, ma comprendere che ciascuno ha una parte di spiegazione valida e utile. E se io voglio dare a un cliente una risposta, una soluzione valida, gliela devo dare intera, perché un punto di vista parziale sarebbe inadeguato.
Questa inadeguatezza, il senso del nostro limite, bisogna capirlo con la testa e accettarlo emotivamente.

L’accettazione emotiva è forse il problema più grosso perché si vorrebbe pensare che, una volta che si è preparato il proprio kit di sopravvivenza, si sia in grado di gestire in modo autonomo ogni emergenza. Ammettere che si possa essere più d’aiuto e meno d’intralcio, e che si possa sempre avere bisogno anche degli altri, ci fa rendere conto che non siamo onnipotenti.

E qui veniamo a scontrarci con decenni di cultura del mercato che ci ha detto “compra per renderti indipendente”, e “il denaro ti renderà indipendente”. Adesso ricominciamo a parlare di condivisione, di sharing economy, non (solo) per far fronte alla povertà, ma per gestire la complessità. E qui lo snodo critico è sempre l’accettazione emotiva della “dipendenza”, dell’interconnessione.

Tornando alla vita professionale, la consapevolezza dei propri limiti significa che nel tuo settore puoi – devi – essere competente, qualificato, autorevole, ma quando esci dall’ambito della tua competenza può esserci un altro con la terza media che risolve un problema che tu non eri in grado di scalfire.

Forse si rischia un po’ di nutrire la “retorica del non esperto”. Certo non dico che gli esperti non ci abbiano messo del loro a non farsi amare.

Quelli che io definisco persone esperte sono prima di tutto persone esperte nel conoscersi – torniamo a Socrate, “conosci te stesso”. Sono persone con una profonda consapevolezza del proprio sapere, ma anche dei propri limiti.
L’esperto vero è una persona che non se la tira – non ha nessun bisogno di farlo, anzi è il primo a dichiarare dove “non sa” e ha bisogno di qualcun altro. Il vero esperto sa anche motivare le scelte in modo convincente e lineare a chi non sa niente della sua materia.

In conclusione, quali sono le componenti fondamentali per costruire una rete?

Ne identificherei tre. Un modo di pensare. Fai rete se accetti una visione complessa delle cose, ascolti, fai domande, se non vuoi per forza controllare le cose, ma le vuoi capire, se hai una modo di pensare flessibile.
Il gruppo, cioè un insieme di persone che cercano di formare un’entità unica, consapevolmente. Queste persone partono da un atteggiamento flessibile e sono disposte a mettere in gioco questa flessibilità per dare vita a un’entità che a sua volta sarà flessibile.
Il terzo elemento è la tecnologia, che oggi può essere enormemente abilitante perché facilita lo scambio e la condivisione delle informazioni.

Arthur Schopenhauer parlava del dilemma del porcospino: d’inverno per stare caldi bisogna avvicinarsi, ma avvicinandosi ci si punge a vicenda. Così, per noi esseri umani: abbiamo bisogno degli altri, ma stare vicini significa anche rischiare di farci male a vicenda.
Il socio perfetto non lo trovi da nessuna parte; devi imparare a limare un po’ i tuoi aculei, ma anche a ridurre un po’ la tua ipersensibilità e ad accettare ogni tanto di essere scalfito dagli altri.
Insomma, non solo dobbiamo accettare i limiti nostri ma diventare più tolleranti verso i limiti e i difetti degli altri.

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