Non avrai altro CEO all’infuori di me

Tra i miti del lavoro più ricorrenti e insidiosi degli ultimi decenni ci sono i CEO rivenduti come messia, una retorica accentratrice che rischia di sovvertire i valori aziendali sostituendo il carisma alla competenza. E di falsificare ad arte qualche biografia

31.05.2025
Miti del lavoro: Steve Jobs in veste di santo sulla copertina dell'Economist

Ci sono guerre che si combattono con le armi e guerre che si combattono con il denaro. In qualunque caso, chi vince fa la storia. O meglio, la scrive. Direi, con uno slogan: chi fa la storia, scrive le storie. È sempre stato così. Dall’antica Roma a oggi, la storia la definisce chi vince e – alle volte – è una buona storia che determina le possibilità di una vittoria.

Ma che cosa accade quando le storie che si raccontano non corrispondono alla storia reale? Steve Wozniak, cofondatore di Apple, di recente ha smantellato uno dei miti fondativi più potenti della Silicon Valley: “Il garage è un po’ una leggenda. Non abbiamo fatto progetti lì, né prototipi, né pianificazione di prodotti”. Il garage dei genitori di Jobs era semplicemente qualcosa “per farci sentire a casa”, non la fucina dell’innovazione tecnologica che la mitologia aziendale ha costruito negli anni.

Garage come grotte, CEO come messia

La ricerca accademica di Pino Audia e Christopher Rider ha dimostrato che il mito del garage non solo è falso, ma anche fuorviante: “Il mito del garage sminuisce il ruolo delle organizzazioni precedenti nel fornire a Jobs e Wozniak fiducia, esposizione a informazioni dettagliate, conoscenza del business e accesso a legami sociali chiave”. Il vero lavoro di progettazione avveniva negli uffici della Hewlett-Packard, dove Wozniak lavorava come ingegnere.

La demolizione di questo mito non è un dettaglio marginale, ma rivela un meccanismo più profondo: la costruzione di un racconto quasi religioso attorno al marchio Apple. Gli studiosi Anja Pogačnik e Aleš Črnič hanno analizzato questo fenomeno nel loro studio iReligion: Elementi religiosi del fenomeno Apple, utilizzando la definizione durkheimiana di religione per dimostrare le dimensioni religiose della mela più famosa del mondo attraverso quattro elementi: comunità, credenze, sacralità e rituali.

La comunità di Apple basa le proprie credenze su “nozioni di individualità, creatività e controcultura”, sostenute da “una mitologia che circonda la storia di Apple e la vita di Steve Jobs”. Il marchio Apple stesso diventa “il simbolo più sacro della comunità, protetto dal tabù della critica”, mentre “i prodotti agiscono come feticci religiosi per i devoti di Apple, e gli Apple Store funzionano come templi”.

La costruzione mitologica segue archetipi narrativi classici. Il mito della creazione vede Jobs e Wozniak nel garage come una nascita miracolosa. Il mito dell’eroe eleva Jobs a fondatore leggendario. Il mito satanico trasforma IBM e Microsoft nelle incarnazioni del male. Il mito della resurrezione celebra il ritorno trionfale di Jobs come CEO nel 1997, che salva l’azienda dalla rovina.

La ricerca di Heidi Campbell e Antonio La Pastina ha analizzato come l’iPhone sia stato etichettato come “telefono di Gesù”, dimostrando “come metafore e miti religiosi possano essere appropriati nel discorso popolare e plasmare la ricezione di una tecnologia”. Appena ore dopo la presentazione di Jobs nel 2007, “l’iPhone veniva già definito online il ‘telefono di Gesù’”, trasformando un dispositivo tecnologico in un oggetto di venerazione.

Claudio Cerasa, direttore del Foglio, ha catturato questa dimensione messianica nel suo articolo “Il Cristo dei computer”, dove Jobs viene descritto come figura salvifica della tecnologia moderna. La copertina di The Economist del gennaio 2010 ha cristallizzato questa iconografia: l’illustrazione di Jon Berkeley raffigura “Steve Jobs come un moderno Mosè con un’aureola di santo”, con “una delle sue caratteristiche magliette nere che spunta attraverso la veste biblica, mentre Jobs mostra un iPad invece delle due tavole di pietra dell’Esodo”.

Quando il brand diventa religione: il caso di Apple e Steve Jobs

Questa sacralizzazione non è casuale, ma strategica. Apple “non si è opposta alle associazioni religiose che circolavano attorno all’iPhone come ‘telefono di Gesù’, utilizzando l’immagine divina per i propri fini”. La corporation ha compreso che “inquadrare l’iPhone come il ‘telefono di Gesù’ è in linea con i precedenti miti trovati nella narrativa del culto di Macintosh”.

Il parallelismo tra la vita di Jobs e quella di figure messianiche non è letterario, ma strutturale: chiamata all’annunciazione (la vocazione tecnologica), prove (le sfide imprenditoriali), caduta ed esilio (l’allontanamento da Apple nel 1985), resurrezione (il ritorno trionfale), dono (l’iPhone come manna per l’umanità digitale).

I fedeli di Apple “compiono pellegrinaggi pubblici alle aperture dei negozi e alle conferenze Apple, e rituali privati di unboxing dei prodotti”, trasformando il consumo in liturgia. Gli Apple Store non sono negozi, ma templi dove si celebra il culto della tecnologia. L’unboxing diventa rito di iniziazione, la presentazione dei prodotti si trasforma in cerimonia di rivelazione.

La domanda centrale non è se questa narrazione sia vera o falsa, ma se sia l’unica possibile. Il modello messianico dello startupper-eroe che nel garage (capanna o grotta) inizia un’avventura contro tutti per salvare tutti è diventato il paradigma dominante dell’innovazione. Ma come dimostrano Audia e Rider, questa narrativa “evoca l’immagine dell’individuo solitario che si basa principalmente sui suoi sforzi straordinari e sul talento per superare le difficoltà inerenti alla creazione di un nuovo business”, ignorando il ruolo cruciale delle organizzazioni, delle reti sociali e delle competenze pregresse.

Uno dei miti più pericolosi del lavoro

Nel mondo delle risorse umane, questo mito ha conseguenze concrete. Promuove una cultura imprenditoriale basata sul culto della personalità piuttosto che sulla collaborazione sistemica. Alimenta aspettative irrealistiche sui leader aziendali, trasformandoli in figure salvifiche chiamate a miracolose rivoluzioni. Sottovaluta l’importanza della formazione, dell’esperienza e delle competenze tecniche in favore di narrazioni carismatiche.

La mitologia Apple rivela come le corporation contemporanee non si limitino a vendere prodotti, ma costruiscano identità collettive. I devoti di Apple basano le loro credenze su “nozioni di individualità, creatività e controcultura”, creando un sistema di valori che trascende la mera funzionalità tecnologica.

Ma qui sorge una domanda scomoda: se i nostri dipendenti diventano fedeli anziché professionisti, cosa succede al pensiero critico? Se trasformiamo i leader in messia, chi si assume la responsabilità dei fallimenti? E soprattutto: quante altre aziende stanno seguendo il modello Apple, sostituendo competenza con carisma, analisi con adorazione?

Il caso Apple non è un’eccezione, ma la regola del capitalismo contemporaneo. Oggi ogni CEO aspira a diventare un profeta della propria vision aziendale. Ma forse è tempo di chiedersi: vogliamo davvero lavoratori-fedeli o professionisti pensanti? Perché se continuiamo a sacralizzare l’imprenditoria, rischiamo di trasformare le aziende in sette e i manager in guru. E quando il guru cade dal piedistallo – come sempre accade – che cosa rimane dell’organizzazione che ha costruito la propria identità sulla sua infallibilità?

 

 

 

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