Centri in-catenati

Fenomeno intuibile dagli anni ’90? Sì, ma in Italia non erano ancora maturate le condizioni. Al tempo bastava alzare gli occhi sulle insegne presenti in centri cittadini di altre nazioni (Francia, Germania, GB, Nord UE) per capire come si stesse affermando l’omogeneizzazione delle vie dello shopping, con la sostituzione di negozi storici e indipendenti da […]

Fenomeno intuibile dagli anni ’90? Sì, ma in Italia non erano ancora maturate le condizioni. Al tempo bastava alzare gli occhi sulle insegne presenti in centri cittadini di altre nazioni (Francia, Germania, GB, Nord UE) per capire come si stesse affermando l’omogeneizzazione delle vie dello shopping, con la sostituzione di negozi storici e indipendenti da parte di quelli a marchio”.

Giunto in Italia, il fenomeno non ha mai fatto distinzione geografica: nessuna area è mai stata indenne. Addirittura, ha portato alla rimozione dei tradizionali riconoscimenti ritualmente assegnati proprio ai negozi storici. Ma come è maturata questa tendenza?

La metamorfosi del commercio: sempre meno negozi storici

Per amor di sintesi, in Italia le condizioni ideali si sono espresse in almeno 15 anni con due fasi iniziali. La prima: forte crescita, in spazio e quantità, dei centri commerciali. La seconda: crisi economico-finanziaria. Le due fasi sono state accompagnate (sin dallo sbarco degli hard discount negli anni ’90) da una sola strategia commerciale: abbassamento dei prezzi con perdita di qualità del prodotto/servizio. Nel frattempo, nei centri cittadini soccombevano i negozi storici e tradizionali.

Attualmente sono in corso altre due fasi. Si assiste a una rimozione della desertificazione: una crisi dei centri commerciali, con una più ampia presenza di negozi a marchio nei centri cittadini, talvolta accompagnata da una maggiore – e forse tardiva – attenzione delle amministrazioni locali. Inoltre, altro fenomeno d’impatto sul commercio, vi è una crescita dell’e-commerce. I protagonisti di tale scenario sono da sempre i grandi marchi nazionali e internazionali, che adottano sia le classiche tecniche “fisiche” di distribuzione commerciale – la più nota è il franchising – sia le più moderne, quelle “virtuali”, lo shopping on line.

Tali macro-cause economiche sono integrabili con altre micro-cause. Esempi ne sono la decennale crescita degli affitti di locali (in strana contraddizione con la “sostituzione” di altre tipologie di attività) e il clima di “incertezza economicadel mercato interno (Demografia d’impresa nei centri storici italiani, Confcommercio). Quest’ultimo elemento costituirebbe uno dei maggiori motivi di crescita delle reti di franchising, che riflettono la precisa scelta di chi si approccia al commercio considerando più semplice affidarsi ad una grande azienda piuttosto che procedere da solo.

I riflessi

La società civile, ovviamente, affronta il tema dal punto di vista imprenditoriale e politico, ma anche da quello della sicurezza urbana – e in termini sociologici.

I protagonisti esprimono una soddisfazione che sa di autoelogio: illustrano l’occupazione territoriale dei centri come un evento positivo, forniscono prospettive di occupazione, dato ad altissima sensibilità, e annunciano di essere un contrasto all’e-commerce, al quale però partecipano attivamente.

La politica è protagonista con le scelte sul territorio; pur criticata, tuttavia, nella maggior parte d’Italia sembra rimanere indifferente al problema, vista la sua espansione. Anche le storiche associazioni di categoria partecipano, ma con molte contraddizioni. Infatti da un lato si attivano per la tutela dei piccoli offrendo contraddittorie proposte, e dall’altro creano alleanze associative con i grandi per agevolarne lo sviluppo. Ad esempio con la presenza capillare di “Sportelli Franchising”: uffici permanenti gestiti dalle stesse associazioni per informare e assistere gratuitamente l’avvio di attività di quello stampo, stimolato anche da franchising day.

In tutto questo sia i consumatori che i negozi indipendenti non possono che assistere e osservare, senza alcun potere o influenza.

Ecco perché da tempo sta maturando l’idea che esista una strategia più ampia, collegabile anche al fenomeno degli sponsor privati nel recupero di beni culturali e palazzi di prestigio in centri storici, magari con inserimento di megastore al loro interno. Si tratterebbe di quello che l’Indipendent ha definito il processo di “Disneyficazione” dei centri italiani: una trasformazione dei luoghi di vita culturale, sociale e politica in “parchi-città del consumo” o in “divertimentifici”, con alberghi, shops di “marchi e marche”, ristoranti tipici, boutiques.

In pratica, città artificiali che causano l’allontanamento verso le periferie dei residenti di città strategiche – dove possono essere ugualmente intercettati da centri commerciali o da outlet, accomunati ai centri storici dalla presenza degli stessi marchi.

Un fenomeno rischioso

È allarme? Sì. È sbagliato considerarlo come “affare dei commercianti”, perché la questione è più ampia e necessita maggiore attenzione in almeno altri due temi, tra i molti altri.

Il primo ha un aspetto sociale. Sin da prima della crisi, il franchising era oggetto di interesse dei “cercatori di lavoro”. Già dal 2007 “il 68% di coloro che volevano aprire un punto vendita consideravano il franchising un’opportunità per avere un posto di lavoro e un altro 25% lo faceva perché aveva perso il posto di lavoro” (Blogonomy, il Blog di Economy, 29/10/2008, in www.blogonomy.it, su dati Confimprese). La situazione permane e ciò significa che il settore franchising sta assumendo un improprio ruolo di riposizionamento sociale. Il rischio è quello di avere un mercato di pochi selezionatori del “fare impresa” con i quali o ci si allea o ci si scontra in un confronto spesso impari.

Il secondo è più grave, ed emerge da fatti di cronaca e ricerche Eurispes in specifici settori. Scriveva l’ex Ministro degli Interni Roberto Maroni nella relazione consegnata alla Camera dei Deputati il 13/05/11: “La vocazione affaristica delle cosche calabresi si dirige verso differenti settori imprenditoriali – quali i trasporti, (…), le energie rinnovabili e la grande distribuzione commerciale, anche attraverso la gestione in franchising dei punti vendita riferibili a grandi marchi del settore”. Sempre nel 2011, l’ex magistrato Piercamillo Davigo precisava: “Il denaro attira i mafiosi come il miele per le mosche. Nel Nordest vi sono molte devianze di stampo criminoso: penso al ramo del franchising o a quello dell’intermediazione finanziaria”.

L’estinzione dell’imprenditoria in proprio

Pur considerando quanto sopra un parziale approfondimento, ciò che ne emerge non deve generare solo nostalgia e dispiacere per l’estinzione di piccole botteghe – anche artigianali – che da sempre incarnano l’identità e le tradizioni di città e paesini. Dovrebbe generare piuttosto una forte preoccupazione per la silenziosa rimozione dello stimolo a mettersi in proprio, con idee d’impresa proprie, tra le quali rientra anche il diventare commercianti o artigiani.

Si tratta di una progressiva, inesorabile defraudazione di ciò che per anni è stato il sogno di generazioni: l’iniziativa imprenditoriale in proprio o, non meno importante, il subingresso nelle tradizioni commerciali di famiglia, ostacoli che si aggiungono ai livelli di burocrazia intollerabili al centro di molte storie e testimonianze. Ma a forza di raccontare e leggere le storie il rischio è di cominciare ad accettarle, finché non faranno più notizia. In quel caso, a pagare saranno solo i giovani ai quali non potranno più essere raccontate.

 

Photo by Tim Mossholder on Unsplash

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