Chi tutela le discriminazioni sui senior?

Uno dei fenomeni demografici più rilevanti del 21esimo secolo prende il nome di “Rivoluzione grigia”: la popolazione mondiale sta drammaticamente invecchiando. Infatti, sebbene questa cresca dell’1,3% ogni anno, la porzione di popolazione che sta crescendo di più è proprio quella degli anziani. Basti pensare che nel 1900 le persone con più di 65 anni erano meno […]

Uno dei fenomeni demografici più rilevanti del 21esimo secolo prende il nome di “Rivoluzione grigia”: la popolazione mondiale sta drammaticamente invecchiando. Infatti, sebbene questa cresca dell’1,3% ogni anno, la porzione di popolazione che sta crescendo di più è proprio quella degli anziani. Basti pensare che nel 1900 le persone con più di 65 anni erano meno del 5% della popolazione totale mentre agli inizi del 21esimo secolo si è arrivati a quasi il 15% e gli esperti prevedono che nel 2050 gli Over65 saranno più del 20%. Inoltre, è aumentato e continuerà ad aumentare il numero di persone con più di 85 anni: si prevede che entro il 2050 ben 21 Paesi nel mondo avranno più del 10% di persone Over85.

Questa rivoluzione demografica rappresenta una grande conquista per l’umanità (la sopravvivenza fino alla vecchiaia è diventata possibile per la massa e non solo per pochi fortunati); tuttavia, essa pone anche grandi sfide per le Istituzioni pubbliche che devono adattarsi a una struttura della popolazione in continuo cambiamento. L’altra faccia della medaglia è, infatti, che ci saranno meno persone in età lavorativa, a fronte del forte aumento della percentuale dei pensionati. Secondo l’Eurostat, già nel 2008 le previsioni davano che nel 2060 ci sarebbero stati solo due lavoratori per ogni Over65; oggi il rapporto è di quattro a uno. Anche l’indice di dipendenza degli anziani (ovvero il rapporto tra la popolazione Over65 e la popolazione in età lavorativa, tra i 15 e i 64 anni di età, moltiplicato per 100) fornisce previsioni preoccupanti circa la sostenibilità di una tale struttura di popolazione, evidenziando una situazione di squilibrio generazionale, passando dall’attuale 30% a circa il 60% del 2050.

Per affrontare le sfide dell’invecchiamento demografico è necessario agire con determinazione, incentivando la diffusione e la pratica della “longevità attiva”. La stessa Unione Europea si è già attivata al fine di rendere sostenibile questo allungamento delle speranze di vita, valorizzando elementi chiave tra cui, ad esempio, assumere stili di vita salutari, rimanere attivi anche dopo la pensione e posticipare il pensionamento.

Gli Over che restano in azienda: occhio alle discriminazioni

Per quanto riguarda la possibilità di lavorare più a lungo, ci sono dati incoraggianti: la percentuale dei lavoratori senior è gradualmente aumentata nel corso degli ultimi due decenni e ci si aspetta che questa crescita continui anche in futuro (sempre fonte Eurostat). In effetti, è stato dimostrato che sono ben disposti a rinviare il loro pensionamento, a patto che le caratteristiche dei posti di lavoro e le condizioni lavorative siano sufficientemente interessanti e aderenti alle mutate esigenze e preferenze di questa generazione di lavoratori.

Oltre all’adozione di misure volte ad un miglioramento delle condizioni di lavoro e ad una più adeguata gestione dell’età è necessario, però, affrontare la sfida rappresentata dalla discriminazione sul luogo di lavoro per ragioni di età, che pare essere la forma di discriminazione denunciata con maggiore frequenza. Sebbene anche i lavoratori giovani possano essere colpiti da stereotipi basati sull’età (ad esempio, vengono frequentemente tacciati di poca maturità), l’impatto negativo degli stereotipi e dei pregiudizi basati sull’età è particolarmente forte per i senior (minor produttività, scarsa flessibilità, bassa motivazione e limitate capacità di assorbire nuove idee). Gli stereotipi negativi su questo tipo di lavoratore sono, infatti, ampiamente diffusi e tristemente collegati ad atteggiamenti discriminatori sul posto di lavoro.

Le credenze stereotipate su di loro tendono ad influire negativamente sulle scelte dei datori di lavoro, limitando le opportunità per questi lavoratori di partecipare ad attività di training, di ottenere promozioni, di rimanere più a lungo nell’azienda. Hanno effetti anche sui colleghi più giovani che, sebbene apprezzino la loro esperienza, si dimostrano meno disponibili a lavorarci, trovando più facile comunicare e socializzare con i propri coetanei.

Gli stereotipi legati all’età non risparmiano nemmeno gli stessi senior. Autodefinirsi come tali attiva in loro gli stereotipi negativi appartenenti alla categoria e conseguentemente influenza il loro atteggiamento nei domini lavorativi a cui questi stereotipi si applicano, con conseguenze sulla loro motivazione e abilità di lavorare, apprendere e crescere professionalmente. Diversi studi hanno dimostrato, tuttavia, che questi stereotipi sono spesso altamente inaccurati e fuorvianti e non riflettono la reale diversità delle persone all’interno dei gruppi d’età interessati.

L’identikit aziendale dei senior

Non è affatto vero che i lavoratori senior sono meno produttivi dei loro colleghi più giovani; al contrario, hanno dalla loro maggiore esperienza e minori tassi di assenteismo e si sono dimostrati più responsabili e cauti rispetto ai giovani, evitando errori. Sebbene incontrino maggiori difficoltà nell’acquisire nuove abilità informatiche, i lavoratori più anziani non sono solo in grado di usare il computer e le altre tecnologie per una varietà di compiti, ma risultano importanti le strategie di insegnamento. Insomma, l’età non è correlata alla prestazione lavorativa. In generale, studi e valutazioni confermano che l’invecchiamento sul lavoro è accompagnato da un cambiamento, più che da un declino, della performance. Inoltre, con l’età aumenta la variabilità individuale: alcune persone, infatti, rimangono innovative, produttive e ben retribuite fino ai 70 anni, mentre altri sono considerati troppo vecchi per il loro lavoro già a 45 anni. Le ragioni che determinano questa differenza hanno poco a che vedere con la biologia, quanto piuttosto con il tipo di attività e orientamento di carriera che ha condotto a questo declino nella performance, in particolare lo stress da lavoro-correlato e condizioni di lavoro disagevoli.

I senior, quindi, hanno un notevole potenziale produttivo da investire sul posto di lavoro: basti pensare al bagaglio di conoscenze e competenze a loro disposizione che rischia di andare perso, con ovvie conseguenze negative per l’azienda, se non viene trasferito ad una nuova generazione di impiegati. Tuttavia, le interazioni tra lavoratori di differenti generazioni sono spesso conflittuali, anche a causa delle credenze erronee e stereotipate. Da qui la necessità di colmare i gap intergenerazionali interni, attraverso strategie in grado di promuovere lo scambio e la collaborazione giovani-over sul posto di lavoro. Sempre più organizzazioni iniziano ad apprezzare l’importanza e l’utilità dei gruppi intergenerazionali, consapevoli del fatto che ogni generazione possiede diverse abilità e conoscenze all’interno del mondo del lavoro. È stato dimostrato che i costi necessari a colmare tali salti anagrafici vengono controbilanciati dai benefici. Tuttavia, affinché siano efficaci, queste strategie devono includere anche aspetti metacognitivi ed emotivo-motivazionali: solo attraverso la scoperta e l’analisi delle credenze e delle emozioni individuali rispetto alle persone di diverse età si può creare la base relazionale necessaria affinché questi mondi possano comunicare e dare vita ad un vero scambio di conoscenze.

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