Dai Fab Lab alle aziende: l’ascesa dei maker nell’economia della fabbricazione digitale

Se penso ai (tanti) termini che si sono maggiormente arricchiti di nuovi significati con l’arrivo delle nuove tecnologie, maker è nella mia personale top tre (per completezza, insieme a Storytelling e Design). Da una concezione artigiana e di produzione crafted semanticamente vicina a mondi passati, la parola ha assunto negli ultimi quindici anni significati che, seppur […]

Se penso ai (tanti) termini che si sono maggiormente arricchiti di nuovi significati con l’arrivo delle nuove tecnologie, maker è nella mia personale top tre (per completezza, insieme a Storytelling e Design).

Da una concezione artigiana e di produzione crafted semanticamente vicina a mondi passati, la parola ha assunto negli ultimi quindici anni significati che, seppur affini alla concezione tradizionale, oggi la posizionano a stretto contatto con il mondo dell’innovazione e delle nuove tecnologie.

Ma chi è e che cosa fa un maker, e in che modo si connette con il tessuto aziendale e organizzativo? Come succede sempre all’interno della rubrica Passaporto Digitale, da solo non ho direttamente le risposte che cerco :).

Ho trovato dunque conforto e risposte da Stefano Schiavo, professionista dinamico e rispettato sul campo; è attivo anche in libreria come autore di Maker. Cosa Cercano le Aziende dagli Artigiani Digitali e La Trappola del Business Plan. Rituali Organizzativi e Approcci Lean all’Innovazione.

 

Grazie a Stefano è nato un excursus non solo su questa nuova professione digitale, ma anche sui rischi e sulle sfide a essa correlate. Una nuova guida professionale capace – spero! – di stimolarci e di farci tornare al lavoro con una prospettiva arricchita.

 

 

Stefano, sei uno studioso e un professionista molto attivo sulle tematiche dei maker e degli artigiani digitali. Di che cosa si tratta, di che cosa si occupa un maker?

I maker sono professionisti che presidiano alcune nuove competenze riconducibili al tema della fabbricazione digitale. Si tratta nel suo insieme di un movimento che, al di là delle specificità di ogni esperienza, esplora le nuove potenzialità della manifattura permesse dallo sviluppo del digitale. In questo senso, il termine può estendersi ad artigiani e piccole aziende manifatturiere che integrano le soluzioni digitali all’interno del loro processo creativo e produttivo.

Luoghi di espressione dei maker sono i Fab Lab e i Maker Space. Le Maker Faire sono l’evento di ritrovo della comunità.

 

Perché le aziende dovrebbero avere bisogno di maker e artigiani digitali? Per citare un’opera a te ben nota, che cosa cercano le aziende dagli artigiani digitali?

Nei miei confronti, con il mondo aziendale più strutturato ho percepito la mancanza di un legame forte e continuativo tra il movimento dei maker e il mondo delle imprese. I processi di ricerca e sviluppo che caratterizzano le aziende fanno spesso riferimento a partner tecnologici consolidati e a fornitori che appartengono a un sistema piuttosto chiuso. Chi opera in spazi di innovazione come Fab Lab e Maker Space spesso non rientra nell’ambito relazionale delle aziende e pertanto rimane al di fuori dalle frequenze intercettate dalle antenne delle nostre piccole e medie imprese. Questo evidenzia un limite da entrambe le parti. Se da un lato le aziende sovente non riescono a entrare in logiche di open innovation e a uscire dalle loro reti di fornitura tradizionale, dall’altro i maker tendono a costituire universi chiusi che non si relazionano facilmente con l’ambiente economico circostante. Pur tra diverse virtuose eccezioni, bisogna lavorare per una maggiore integrazione tra i due mondi.

Per rispondere più direttamente alla domanda, le aziende hanno bisogno non solo di una competenza tecnica innovativa, ma anche di nuove opportunità di business legate alle tecnologie. Il maker deve portare nuovi punti di vista all’azienda in modo che siano leggibili percorsi finora non ancora individuati. In altre parole, c’è un problema di consapevolezza sulle opportunità tecnologiche che viene molto prima della competenza tecnica verticale. Le aziende hanno bisogno di qualcuno capace di rinnovare i modelli di business attraverso la tecnologia. Il punto di partenza rimane un’analisi originale del mercato.

“I bit hanno modificato le relazioni tra le persone, ma non hanno cancellato l’esigenza di intercettarle e gestirle”. Così hai scritto in un post: puoi commentarci questa tua frase?

Il mondo dell’arte e più recentemente quello del design e della creatività in genere hanno posto un’attenzione crescente sul tema delle relazioni. È evidente che anche i contesti industriali e produttivi abbiano posto il focus su questo aspetto. In ambiti tecnici spesso concentrati sulle caratteristiche funzionali del prodotto e sui processi fisici, il rischio è quello di perdere di vista il perché della propria attività. Le persone sono comunque il fine dello sviluppo tecnologico e quindi devono essere anche un punto di riferimento continuo. Ogni attività progettuale deve in qualche modo partire da un’analisi profonda dei segmenti di mercato cui si rivolge o dei destinatari interni ai processi aziendali che utilizzeranno le sue scoperte. Partire da una soluzione tecnica rischia di portare nella condizione di avere risposte a problemi che però non si sono ancora individuati chiaramente. La conseguenza è quella di sviluppare contenuti e progettualità molto efficienti, ma del tutto inefficaci.

Nel tuo ultimo libro dedicato ai business plan parli di esplorare l’ignoto. In che modo è possibile esplorare l’ignoto e cercare di innovare in azienda ogni giorno dell’anno, senza dovere per forza lavorare in Google?

Le tecniche sono molte e nel libro ne descrivo numerose, ma il punto di partenza è un’attitudine culturale. Far prevalere sempre il valore generato, espresso in termini di problemi risolti a clienti, sulla soluzione tecnologica. “Ama il problema“ è un’espressione molto diffusa in ambito di gestione dell’innovazione e definisce chiaramente quale debba essere il focus centrale di chi voglia rinnovare. In questo modo anche in realtà meno strutturate di Google è possibile, in un percorso di miglioramento continuo, aggiungere significato e valore alla propria offerta. Non focalizzarsi sui propri asset e sulle proprie competenze, ma su un’analisi accurata del mercato cui ci si sta rivolgendo. Partire da esperienze reali e problemi specifici per allargare poi l’attenzione verso temi più ampi che possono permettere di scalare il proprio business.

Cinque regole per il maker di oggi e domani.

  1. Vivere la società che ci circonda. Non rinchiudersi in bolle che isolano dai processi reali, ma essere immersi nei contesti di utilizzo per comprendere logiche e bisogni di chi sta attorno.
  2. Posporre l’approfondimento di ogni soluzione tecnologica alla definizione chiara del problema che si sta cercando di risolvere.
  3. Non basta però risolvere un problema, ma serve farlo meglio delle alternative attuali. Se il cliente non sta “soffrendo” per le attuali condizioni, non ci sarà un mercato reale.
  4. Partire dagli aspetti più rischiosi. Uno sviluppo del prodotto che mette in sequenza le feature tecnologiche non è adatto alla validazione delle proprie ipotesi. Serve partire da ciò che potrebbe far fallire l’idea e testarne la rischiosità reale.
  5. Abbandonare la logica “o la va o la spacca”. Il processo di miglioramento progressivo permette di arrivare da un piano iniziale a un piano che funziona prima di terminare le risorse. Per questo servono metodo e frugalità.

Cinque regole per l’innovatore di oggi e domani.

  1. Prendere velocemente il primo pugno in faccia. Ciò che ci fa crescere realmente è un no del cliente che ci fa comprendere meglio di ogni altra cosa la validità delle nostre ipotesi. La scienza si sviluppa per falsificazione di ipotesi e non per conferma di tesi.
  2. Comprendere i limiti di media e varianza. Non tutti i fenomeni sono prevedibili sulla base di quanto avvenuto in passato. Esistono “cigni neri” che tradiscono tutte le aspettative del mercato.
  3. I soggetti dell’economia non sono sempre razionali. Esistono molti fattori distorsivi del comportamento previsto dalle leggi economiche. Il senso di equità, l’urgenza del tema toccato, la simmetria informativa e così via. Non partire dall’ipotesi di mercati razionali.
  4. Curare da subito la costruzione di un network professionale aperto. Per attivare relazioni che ci aiuteranno in futuro serve essere altruisti in ogni momento e “non mangiare mai da soli”.
  5. Attenzione alla Sindrome di Pigmalione. Non innamorarsi della propria opera e delle proprie competenze. Tenere sempre attive le antenne sul mercato e sui messaggi contraddittori rispetto a quanto stiamo facendo. Sono la base per innovare davvero.
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