Divieto di mediazione aziendale in un’Italia senza leader

Il tipico paradosso della modernità non poteva non incrociare il mondo del lavoro: anche nelle aziende, infatti, si pretende di semplificare un problema complesso come quello della conflittualità ricorrendo a norme giuridiche e uffici legali. Sempre che venga intercettato, il problema, giacché talvolta si stenta anche a riconoscerlo. Quella che oggi pare una sterile e […]

Il tipico paradosso della modernità non poteva non incrociare il mondo del lavoro: anche nelle aziende, infatti, si pretende di semplificare un problema complesso come quello della conflittualità ricorrendo a norme giuridiche e uffici legali. Sempre che venga intercettato, il problema, giacché talvolta si stenta anche a riconoscerlo.

Quella che oggi pare una sterile e “semplice” questione legale, da risolvere in modo tecnico, ieri era un problema relazionale riguardante una mansione, un compito o un malessere, legato essenzialmente alla percezione che di esso hanno le parti coinvolte. Quella che per il capo è una questione da nulla, per il lavoratore potrebbe essere un grosso problema, e i problemi non risolti sono un autentico lievito per futuri conflitti, che amano maturazioni lente e poco appariscenti; non le 48/72 ore della migliore tradizione pizzaiola, ma giorni e mesi, durante i quali le iniziali percezioni vengono corroborate dalle esperienze. Il permesso negato in maniera autoritaria, ma legalmente corretta, si somma al rifiuto del cambio di turno, oppure all’“ingiusta” gestione delle ferie.

Se poi tutto questo si replica a sufficienza si verificano due tipi di conseguenze: una, più evidente, prende il nome di “vertenza di lavoro”; l’altra, più subdola, si chiama “impatto sulla produttività”.

 

La dimensione legale

Il conflitto non risolto si trasforma, portando tutto davanti a un giudice – sul solo piano legale, naturalmente – o con affannosi ed estenuanti negoziati tra avvocati e/o sindacati, che non sempre conoscono il linguaggio adatto. Su quest’ultimo aspetto, a essere onesti, bisogna spezzare una lancia in favore dei nostri giurisperiti: le università si preoccupano solo di trasferire competenze giuridiche, senza minimamente preoccuparsi di insegnare come impiegarle. Il fatto è che l’azienda ormai, dopo tanti anni, dovrebbe aver compreso quali sono le caratteristiche, per non dire i limiti, dei servizi legali in Italia.

In ogni caso, quando va bene, si ottiene una soluzione di compromesso che ha il magico potere di fare scontenti un po’ tutti. La sentenza non è mai come ce la si aspetta (troppo dura per chi deve pagare e troppo blanda per chi deve riscuotere), arriva tardi e ha dei costi che nessuno vuole sostenere, mentre un eventuale accordo è solo una scelta amara in luogo di una peggiore.

 

La produttività: Giano bifronte

Il conflitto non gestito crea un ambiente che comprime e mortifica la produttività, e questo è davvero è il colmo dei colmi: quando si parla di sicurezza è facile sacrificare il bene dei lavoratori sull’altare della produzione; poi però si resta ciechi agli attacchi un po’ meno evidenti che un clima avvelenato o un lavoratore non motivato hanno sulla qualità e quantità del lavoro.

Già mi sembra di sentire qualcuno che contesta la difficoltà a misurare l’impatto del conflitto non gestito nella complessità aziendale. Posso rispondere che non mi sembra affatto un buon motivo per non fare nulla. Si fanno le pulci ai fornitori, si investe in marketing e pubblicità, si rafforza la rete commerciale; ma quanti sono disposti a guardarsi dentro?

Non penso a un semplice esercizio intellettuale di riflessione. Penso a progettare un intervento reale che sia in grado di misurare, ad esempio, la conflittualità. Non avete mai trovato strumenti simili? Dipende ovviamente dall’accuratezza della ricerca, e poi dalla motivazione: non è certo vietato crearne. Ci sono app per le funzioni più incredibili e spesso inutili. Io ne conosco un paio che potrebbero facilmente fare allo scopo, ma ovviamente non sono qui per fare pubblicità a nessuno: posso solo invitarvi, se vi occorre uno strumento del genere, a cambiare i parametri della ricerca.

 

Mediare non è negoziare

L’altro giorno ho ascoltato Jack Cambria, per 14 anni capo dell’Hostage Negotiation Team della polizia di New York. Mi ha colpito il motto sotto il logo della squadra: Talk to me. Lo confesso, sono attratto dal pragmatismo degli americani. In tre parole una chiave di lettura totalizzante e strategica: se non ti ascolto, non capirò mai i tuoi problemi, e di conseguenza non potrò risolvere la crisi. Discorso, semplice, pulito, tremendamente efficace.

Certo, quando si tratta di ostaggi o di gente che si vuol suicidare è giusto “fare tutto il possibile” per risolvere il problema, vero? Forse in azienda non si può fare: si perderebbe la faccia, l’immagine, la percezione del potere, se si negoziasse su tutto e con tutti (ma sarà poi vero?). Questo in effetti è un limite del negoziato diretto: il semplice mettersi al tavolo a trattare è un atto comunicativo. E non si può non comunicare.

Proviamo allora a cambiare parola. “Mediare” potrebbe sembrare un sinonimo di “negoziare”, ma in realtà si tratta di un processo strutturalmente diverso: si media, infatti con un terzo neutrale, un mediatore, altrimenti si sta solo trattando faccia a faccia.

Il fatto che ci sia un terzo in mezzo spezza la catena perversa degli atti comunicativi, e la riservatezza dei colloqui è l’unica garanzia di ristabilire una certa simmetria informativa, consentendo indagini efficienti circa i reali interessi dei litiganti. In una delle rare occasioni in cui ho potuto mediare conflitti all’interno di una grande organizzazione (4.000 dipendenti) ho potuto toccare con mano come le richieste economiche nascondano spessissimo l’invocazione di riconoscimento personale prima ancora che professionale: certo, se nessuno mi ascolta sono costretto a fare ancora più rumore; qualcuno dovrà pur sentirmi.

 

La figura dell’ombudsman nella mediazione aziendale: efficace, necessario ma ancora troppo esotico

Il conflitto si può risolvere negoziando, ma solo se non si è in una fase troppo evoluta e i litiganti non sono polarizzati su loro stessi e radicalizzati sulle proprie posizioni. In quel caso serve invece un terzo, che si interponga tra i due per impedire una comunicazione distruttiva e disfunzionale in cui tutti vogliono parlare e nessuno vuole ascoltare. Se il conflitto è troppo evoluto serve un miracolo.

La soluzione più efficace allora è quella che tenta di intercettare il conflitto nella fase iniziale, prima di pericolose escalation che consumano inutilmente risorse economiche ed emotive. Ad altre latitudini esistono uffici interni creati apposta per questo: intercettare il bisogno nascente attraverso l’ascolto del lavoratore e mediare con i capi.

Il nome è originale: ombudsman, ossia “uomo che funge da tramite”. Un’autentica istituzione in alcuni Paesi del Nord Europa e una funzione fondamentale nelle grandi organizzazioni, come le università. Paradosso dei paradossi: al palazzo di vetro dell’ONU c’è un ombudsman italiano (il caso ha voluto che sia un mio carissimo amico).

Cosa ci impedisce di avere un simile servizio in Italia? Forse l’ignoranza: se non so che esiste il chinino, non curerò mai la malaria. Oppure per sospetto: “Perché non lo usa nessuno se fa così bene?”. Alla fine la causa del mancato utilizzo siamo proprio noi, che abbiamo deciso di abortire questa idea senza mai metterla in atto – e senza nemmeno provarci.

Mi chiedo come diamine abbiamo fatto a scalare l’Everest o ad andare sulla luna. Ah certo, quelli erano dei pionieri, o dei pazzi. Vorrei qualcuno un po’ meno pazzo e pioniere, ma con coraggio a sufficienza per innovare davvero, dove serve e quando serve. In effetti sto cercando una merce rara: il leader. Non voglio mica Mandela o Martin Luther King; mi accontenterei di un piccolo, piccolissimo Mandela. Quello che serve davvero credo sia una leadership diffusa, per affrontare questo e molti altri problemi.

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