Editoriale 18. Voci di corridoio

Ci vuole proprio un bel coraggio a mettersi di traverso con la tecnologia, di questi tempi. Immaginare una giornata di lavoro senza posta elettronica sembra impossibile, per non dire inutile. Eppure c’è chi ha provato a fare muro contro le schiacciate della iperconnessione ad ogni costo. L’azienda è la Gabel, il gruppo tessile comasco che […]

Ci vuole proprio un bel coraggio a mettersi di traverso con la tecnologia, di questi tempi. Immaginare una giornata di lavoro senza posta elettronica sembra impossibile, per non dire inutile. Eppure c’è chi ha provato a fare muro contro le schiacciate della iperconnessione ad ogni costo.
L’azienda è la Gabel, il gruppo tessile comasco che negli ultimi 50 anni ha piazzato almeno un asciugamano o un paio di lenzuola in ogni casa italiana. Un marchio storico, di impronta familiare, che a un certo punto non solo si è fatto quella domanda che in segreto ci poniamo in molti ma è proprio passato all’azione: un invito a tutti i collaboratori a non usare la casella di posta aziendale per una settimana. È successo una settimana fa. Un invito a usare parole vere tra colleghi per scambiarsi informazioni di lavoro, con un suono che non fosse solo quello della battitura sopra una tastiera. In questa storia, che tra l’altro non è né la prima né l’ultima, bisognerebbe soffermarsi bene sulla imposizione aziendale più che sul dettaglio della mail; poteva trattarsi di pausa caffè o di buoni pasto e l’oggetto del contendere sarebbe rimasto secondario. Dimostra invece che le aziende hanno ancora un potere enorme nel cambiare il proprio destino partendo dalla vitalità di chi lavora per loro.

“Abbiamo pensato che la differenza la possiamo fare solo con il nostro lavoro. Se tutti insieme, con un sano orgoglio di appartenenza, ci appassioniamo di più a quello che facciamo, possiamo vincere anche le sfide più importanti”. In appena tre righe di questa intervista al Corriere della Sera viene servita una rivoluzione semplice che forse un po’ imbarazza le troppe ore di formazione manageriale con cui si cerca di spiegare a chi sta sopra – i capi – come gestire al meglio i rapporti con chi sta sotto – i collaboratori. Sì, perché nella testa di molti presidenti e amministratori c’è ancora l’idea che l’azienda sia una specie di condominio e il fatto di stare all’ultimo piano dell’organigramma e di avere più millesimi in busta paga li legittima a buttare briciole dal terrazzo senza curarsi delle conseguenze.

 
Senza Filtro, questa volta, è andata ad ascoltare quelle che abbiamo chiamato voci di corridoio. Abbiamo chiesto ai collaboratori di raccontarci cosa circola per le vie informali delle aziende italiane, chi regola le relazioni tra colleghi e perché, se e come vengono controllati i dipendenti alla luce del Jobs Act sulla sempre viva privacy, che valore viene dato alla comunicazione interna per chi ha capito che può diventare employer branding, cos’è oggi la fedeltà al lavoro e chi è disposto a barattarla, se ci rende più produttivi un open space o una stanza chiusa, quanto è solido il culto della segretezza nel nostro Paese, dove sta il confine tra vita privata e vita d’azienda, quanto bisogna delegare per garantire che l’apertura superi il controllo, se davvero qualcuno può arrivare a dirci come ci si veste sul posto di lavoro. Gli esperti hanno persino già tracciato l’identikit del manager italiano fraudolento, i connotati metteteceli voi.

Ci sono riti e diritti aziendali che spesso reggono un intero sistema di relazioni interne ma nessuno se ne accorge nemmeno quando sui piatti della bilancia finiscono l’abuso di certe norme e persino la vita degli altri: la pausa pranzo dei chirurghi svedesi, ci hanno raccontato fonti certe, vale più di un intervento chirurgico che viene sospeso in sala operatoria. Infine la fiducia sui luoghi di lavoro, dalla quale non potevamo prescindere; ragioniamoci tutti se un valore come questo è un risultato auspicabile o un requisito di partenza, la risposta interiore di ogni manager può fare la vera differenza.

Anche Umberto Rapetto, firma che si presenta da sola, è intervenuto su questo numero per andare tra le pieghe italiane di una cultura del controllo.

A me resta solo un dubbio, se davvero tutti quanti vogliano più libertà al lavoro e meno interferenze. L’apertura crea molta corrente e a volte si rischia di sbattere. Le divise e le restrizioni a modo loro semplificano i modelli e aggiustano le emozioni. Pare quasi che la nostra vita privata e il nostro ruolo professionale siano speculari e opposti: fuori vorremmo la libertà ma in ufficio non ci dispiacciono le regole. Fuori siamo disposti a rischiare ma quando siamo dentro, quasi quasi, conviene farsi controllare quel tanto che basta per non dover permutare certe comode inerzie. C’è anche questo nei posti di lavoro.

La voce sembra l’ultimo bene mobile di cui disponiamo senza ingerenze ma se i bisbiglii di corridoio continuano a scegliere la macchinetta del caffè come cassa di risonanza, di sicuro quelli che stanno ai piani alti continueranno a ricevere solo un’eco distorta e, come nel più classico dei telefoni senza fili, a far finta di non aver capito. Sono andata sul sito della Gabel per capire se ci fosse coerenza con la politica adottata in azienda. Guardo le foto dei cataloghi: in effetti le lenzuola vestono letti che stanno accanto a comodini su cui non poggiano computer o cellulari. Di questi tempi le pubblicità che cercano di sembrare verosimili non avrebbero mai perso l’occasione di ritrarre un’abitudine ben diversa. Allora possiamo guardare quelle foto e decidere: o sono del tutto illusorie o è davvero possibile ricominciare a parlare a voce alta.

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