Editoriale 25 – Anime e Corpi

L’avrete vista anche voi perché da tempo spopola sui canali social: è l’immagine delle diverse posizioni che assumiamo nel dormire, se ci cliccate sopra promettono di dirvi qual è la vostra vera personalità. Credetemi: la maggior parte di chi la vede non resiste e clicca. Mi chiedo cosa accadrebbe se il post civetta promettesse altro, […]

L’avrete vista anche voi perché da tempo spopola sui canali social: è l’immagine delle diverse posizioni che assumiamo nel dormire, se ci cliccate sopra promettono di dirvi qual è la vostra vera personalità. Credetemi: la maggior parte di chi la vede non resiste e clicca. Mi chiedo cosa accadrebbe se il post civetta promettesse altro, spingendosi ben oltre la suggestione: “Vuoi sapere qual è il lavoro adatto a te? Guarda come dormi”. Scommetto che non pochi inizierebbero a dormire in posizione supina o fetale se solo sapessero come sognano Marc Zuckerberg o Samantha Cristoforetti, insomma finirebbero per credere ad uno strano effetto placebo al contrario e prestato secondo loro alla buona causa.

È innegabile che il nostro corpo mandi più segnali di quelli che la maggior parte di noi riesce a cogliere e non si tratta di un privilegio per psicologi, semplicemente tendiamo a sottovalutare guardando altrove. L’errore in cui cadiamo è di interpretare il corpo ancora prima di conoscerlo, meccanismo ancor più grave se deleghiamo tutto questo solo agli altri, senza metterci del nostro. Se solo iniziassimo a osservarci mentre lavoriamo scopriremmo non poche stranezze a cui siamo già assuefatti: ci appassioniamo più agli oggetti che a noi stessi, dentro una gestione sempre più antropomorfa della tecnologia h24.

Un cellulare scarico va rinsavito al più presto, i software aggiornati alle ultime versioni, i tablet messi nelle custodie più accattivanti e antiurto, il wifi vale ormai più dell’ossigeno. Non si tratta di rinnegare questi strumenti ma di ripartire meglio i carichi di rottura: una postura corretta alla scrivania deve valere quanto una cover da esibire, le pause pranzo devono essere riconoscenti tanto al tempo quanto al gusto, le parole vanno usate solo quando servono e solo con le persone che le meritano quasi fossimo a risparmio energetico, il nostro equilibrio interiore vale più del vetrino di uno smartphone che si rompe, le decisioni vogliono ispirarsi alle buone ragioni e non al sentire comune.

Ciò che maneggiamo ogni giorno ha un inizio e una fine, nel mezzo funzionano e basta. Noi siamo invece molto più fragili ma anche molto più vivi.
Era ora che Senza Filtro dedicasse un numero al significato del nostro corpo al lavoro, mettendo la lente di ingrandimento anche su quelle parti che diamo per scontate o che non consideriamo in azione quando invece lo sono molto più di un hardware sempre acceso.
Ci siamo concentrati sui lavori usuranti, le assunzioni che preferiscono i più belli ai più bravi, le visite fiscali, i rischi di una sicurezza professata e non praticata, i modelli estetici del marketing  per i più piccoli, le morti bianche, l’età come ricambio generazionale, i mestieri che toccano da vicino il nucleare, le facce e le apparenze nelle identità di oggi, le decisioni e i conflitti come linguaggio del nostro cervello, il disagio degli over 50 costretti a lavorare ancora da stagisti. E poi il corpo riletto nelle culture del lavoro diverse dalla nostra, fino alla infaticabilità della Cina e alla rigidità del Giappone. Il corpo come errore umano e come leva di cooperazione.

Ognuno di noi, qualsiasi sia il suo mestiere, lavora con un corpo che è il proprio. Ci fa comodo pensare che valga solo per gli sportivi di professione ma quelli in realtà fanno altro, quelli perfezionano costantemente la macchina e la mettono sul mercato rendendola competitiva e alzando il prezzo. Per loro, il corpo su cui lavorano è strumento e prodotto al tempo stesso. Per molti altri, invece, il corpo è qualcosa da portare al bar, in ufficio, in palestra e infine di nuovo a casa. Trattiamo i nostri strumenti di lavoro come persone e il nostro corpo come un carico da movimentare.

Le guardie del corpo non hanno lavoro facile. Prima di essere assunti per l’incarico devono rispondere a requisiti psico-fisici di livello, avere ottima salute e un equilibrio emotivo solido, fare formazione e addestramento presso strutture specializzate, conoscere l’uso di armi ed esplosivi in casi di protezioni estremi, avere una fedina penale impeccabile: tutto questo per accettare di mettere a repentaglio la propria vita in cambio dell’incolumità di un altro.

Un gradino più sotto c’è l’addetto alla security, qualcuno lo chiama ancora accompagnatore o buttafuori: generalmente coordina la sicurezza in luoghi pubblici o privati, rischia certamente meno e, siccome non esiste ancora una regolamentazione del mestiere, è costretto per pura ipocrisia normativa a dichiarare di tutelare un bene del protetto e non l’incolumità stessa della persona.
Quanta confusione, anche qui, tra ciò che siamo e ciò che dovremmo proteggere.

Nel frattempo lavoriamo come buttafuori per noi stessi sperando che qualcun altro ci faccia da guardia del corpo rischiando più di noi.

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