Editoriale 61. Cosa succede in città

Ormai nelle città ci viviamo più in superficie che dentro. Però le usiamo, questo sì. Niente come le persone riesce a farsi simbolo di una misura urbana, periferia e centro, la scelta e lo scarto. Victor Hugo mise le mani a metà Ottocento sulla fattura di un tessuto sociale e spese quindici anni di vita per […]

Ormai nelle città ci viviamo più in superficie che dentro. Però le usiamo, questo sì.

Niente come le persone riesce a farsi simbolo di una misura urbana, periferia e centro, la scelta e lo scarto. Victor Hugo mise le mani a metà Ottocento sulla fattura di un tessuto sociale e spese quindici anni di vita per mettere a fuoco le linee della dignità umana, e soprattuto i margini. Lo fece come sostantivo – i Miserabili, lettera maiuscola, una colonna della letteratura mondiale che mai come oggi non dovremmo rimuovere da una memoria collettiva; sulle società di oggi ci sta meglio l’aggettivo – miserabili, lettera minuscola, modulabile accanto a chiunque di noi perché abbiamo sfumato troppo le coscienze e l’identità di cui dovremmo farci carico è confusa.

Hugo tratteggia le sembianze di Fantine come persona prima che personaggio. Lei è baricentro del romanzo e si fa perno di una trasformazione collettiva: entra nelle pagine che è un fiore, ne esce essiccata fino alle ossa, entra da miserabile ed esce che pare le manchino le ali. Le città in cui viviamo si stanno seccando allo stesso modo ma, a differenza di Fantine, se non capiamo ora cosa sta accadendo allora di angelico avranno ben poco.

Le città stanno in silenzio se le guardi da sopra, le città urlano se le guardi da dentro. Da sopra hai l’illusione di dominarle, da dentro hai la certezza dell’odore. Ma da dove vanno guardate, oggi?

Senso della geografia e senso del lavoro sono due buchi della serratura ingegnosi e cruciali.

Il primo, la geografia. Franco Farinelli, Presidente dell’Associazione dei Geografi italiani nonché docente in alcune storiche università internazionali, ha di recente dichiarato che le scienze umane non possono più fare a meno delle scienze geografiche se vogliamo resistere a minacce globali di varia natura e tendere a un sapere di necessaria mescolanza. Questo il significato del messaggio, queste le parole: “Assai spesso si pensa che una mappa sia la copia della Terra, senza accorgersi che è vero il contrario: è la Terra che fin dall’inizio ha assunto, per la nostra cultura, la forma di una mappa. Per questo, spazio e tempo hanno guidato il nostro rapporto con il mondo”. Farinelli non ha niente a che vedere con l’immagine statica e scolastica a cui siamo abituati nel ricordo di certi insegnanti di una nostra infanzia ai confini con l’adolescenza. Farinelli vibra quando parla e ciò che dice sembra muoversi. Si è spinto oltre, durante il suo intervento del mese scorso al Master in Intelligence dell’Università della Calabria: “Se la geografia è la forma originaria del sapere occidentale e per analogia la mente funziona come una carta geografica, forse proprio in questa scienza possiamo rinvenire il seme del pensiero del futuro”. Chi pensa che il suo approccio sia di parte farebbe bene a cambiare idea.

Il secondo, il lavoro.

Chi lo ha spostato? Nell’ipotetico timelapse degli ultimi tre secoli, vedremmo farsi giorno e notte su fiumi di persone che lasciano le fatiche delle campagne per le comodità delle città; all’improvviso, nello stesso timelapse, vedremmo però anche un cambio di rotta di attività commerciali dal centro alle periferie – l’illusione di spazi più ampi da saturare presto, la disponibilità di parcheggi extralarge per azzerare i sensi di colpa da iperconsumismo. Vedremmo nani i centri storici rispetto ai centri commerciali alzarsi da giganti sulle circonferenze urbane – quasi spettrali i primi, terrorizzanti per frenesia i secondi – mentre la sovrimpressione di immagini perderebbe fiato ad ogni secondo in successione, dovendo star dietro ai turnover incalzanti di catene di mutande o patate fritte, di inutilità tutte a un euro e di vestiti messi bene in vetrina ma col puzzo del lavoro-ricatto o degli stanzoni in cui dall’altra parte del mondo ci cuciono su misura la nostra ipocrisia. E noi, mentre paghiamo pochi spiccioli, ci lamentiamo di qualche filo imbastito male.

Sempre in successione vedremmo concessionari auto aperti senza rispetto anche nei festivi: la gente li scambia per piazze da passeggio ma i dati medi interni di vendita negano qualsiasi impennata di sabato e domenica; il consumatore lo rispetti se lo riporti alla realtà dei bisogni e non alle sue frustrazioni. Intanto la campagna ha ripreso a chiamare e se abbassiamo i volumi riusciamo ad accorgercene: in Italia, del resto, ce lo possiamo ancora permettere e adesso è lì che andrebbe portata l’attenzione oltre che il rispetto. Spazi, tempi, trasporti, relazioni, cibo, orari, infrastrutture, ritmi, cultura, appartenenze: mentre lavoriamo dentro queste città, cosa fanno le politiche per unire i puntini? Di lavoro dovremmo vivere e non soccombere.

James Hansen si occupa di relazioni internazionali e alcune settimane fa ha immortalato uno scatto sintomatico. “Il 2017 è il quarto anno di fila in cui si è superato il record dei palazzi «superalti» portati a termine: il numero delle nuove torri completate è più che raddoppiato rispetto al 2013. Secondo il direttore del Council on Tall Buildings and Urban Habitat (Ctbuh), Anthony Wood, «questi dati confermano il trend verso un’accresciuta proliferazione di grattacieli a livello globale. La costruzione di palazzi molto alti non riguarda più solo pochi centri finanziari e affaristici, ma piuttosto sta diventando il modello nel mondo per la densificazione della popolazione, con oltre un milione di persone che si trasferiscono nei centri urbani ogni settimana. Nel 2007, solo venti città nel mondo avevano edifici più alti di 200 metri. In soli dieci anni il numero delle città è più che triplicato».

Non è tempo di incolpare nessuno, le città non chiedono questo. Ci stanno chiedendo carezze e non accuse. I demoni non ci servono e i miserabili li abbiamo già incontrati. Avanti i prossimi, sperando vada meglio.

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