Editoriale 81. A museo duro

Come li vogliamo, insomma, questi turisti? Forse sarebbe una buona domanda.  Mi fa pensare a quando alcuni anni fa mi ritrovai a parlare di immigrati con il Presidente di un’associazione che curava la loro accoglienza e sistemazione in Italia. Si era trovato a verificare di persona l’inserimento in un paese non troppo grande e a […]

Come li vogliamo, insomma, questi turisti?

Forse sarebbe una buona domanda. 

Mi fa pensare a quando alcuni anni fa mi ritrovai a parlare di immigrati con il Presidente di un’associazione che curava la loro accoglienza e sistemazione in Italia. Si era trovato a verificare di persona l’inserimento in un paese non troppo grande e a misurare l’impatto del loro arrivo coi residenti; alla sua domanda se i cittadini si stessero integrando bene con quei ragazzi, una signora gli rispose: “Non ci credevamo all’inizio ma stiamo bene con loro, sono brave persone e poi lavorano tanto. Però se i prossimi che arrivano fossero un po’ meno neri per noi sarebbe meglio”.

Quel meno neri mi si era messo di traverso e se sono qui a scriverne vuol dire che non è ancora uscito. Non dissero che non volevano gli stranieri in paese ma che li volevano non troppo diversi da loro. Ci penso ogni volta che sento parlare dei turisti stranieri in Italia. Ci servono ma ci danno fastidio, li aspettiamo ma ci piacerebbe selezionarli uno ad uno, li vogliamo ma purché non usino i trolley sulle scale del palazzo nelle ore in cui dormiamo, la politica li brama per sbandierare primati ma di loro non si occupa minimamente in modo organico. La questione è più profonda: non sappiamo gestire i nostri beni culturali, i patrimoni d’arte disseminati sopra e sotto lo sguardo comune, i musei e le strutture che ospitano la nostra identità nazionale e figuriamoci se sappiamo organizzare i flussi, gli stranieri, le logiche, le persone, i collaboratori, le competenze.

L’arte è una filiera lunghissima di cui siamo disposti a vedere solo la mano che ci stacca il biglietto di ingresso ad un museo. 

Viene da ridere quando sento dire che in Italia potremmo vivere solo di arte e di turismo se non siamo nemmeno capaci di riorganizzare da quarantacinque anni un Ministero che dal 1974 soffre della sindrome di Peter Pan davanti alla tutela e alla valorizzazione dei Beni Culturali: dall’anno della sua istituzione ha cambiato nome troppe volte, dal calderone delle competenze ha messo e tolto più volte in modo isterico lo sport, il turismo e l’ambiente per poi barattarci il cinema, lo spettacolo all’aperto, il teatro, molto altro. Le ultime settimane politiche sono di fuoco dentro e fuori il Mibac – oggi si chiama Ministero per le Attività e i Beni culturali – dopo l’approvazione del Consiglio dei Ministri alla riforma su cui Alberto Bonisoli ha messo orgoglioso la firma per modificare l’impianto del provvedimento Franceschini datato 2014, quello che passò alla storia per i “direttori stranieri dei musei”.

La politica di casa nostra è la stessa ad ogni livello territoriale: i Ministri sradicano progetti in essere pur di cambiare la direzione di chi li ha preceduti e lo fanno tanto quanto gli Assessori alla viabilità e al trasporto del più piccolo Comune che di colpo stravolgono le direzioni di marcia e i sensi unici solo per farsi ricordare. Poco conta che le cose di prima funzionassero o stessero iniziando a dare i risultati che hanno sempre bisogno di un tempo di anticamera. Stavolta il danno è ancora più serio perché si vanno a toccare i nervi scoperti dei musei e si toglie autonomia a una parte del sistema cultuarle che finalmente aveva iniziato a ragionare di intraprendenza, snellimento e velocità decisionale nonostante l’elefante che chiamiamo burocrazia. Il Governo sta riportando tutte le funzioni verso il cuore e i poteri verso il centro, e sottovaluta quanto il corpo sia al contrario un sistema che vive di periferie; tra l’altro stupisce che proprio loro indeboliscano le autonomie per come li avevamo conosciuti politicamente. Certo neanche Franceschini era stato lucido dimenticando quasi del tutto i piccoli musei e i centri minori, per non parlare della condizione del personale addetto.

La nostra industria dell’arte è come la nostra industria della manifattura: medio-piccola per misura ma altissima per qualità del prodotto eppure continuiamo a vergognarcene e a illuderci di essere giganti in dimensioni finendo per complicare poi tutto. Più accentriamo decisione, controllo e competenze, più staccheremo la pelle tra arte e territorio, tra la comunità e la sua cultura; più il Ministro passerà da figura politico-amministrativa a effettivo esecutore, più gli verranno attribuite decisioni per i musei in materia di digitalizzazione del patrimonio, politiche di comunicazione e informazione, gestione dei prestiti delle opere e gli servirà sempre più personale a supporto dentro un Mibac già incapace di gestire il presente.

Esperti senza peli sulla lingua dicono che le forme di lavoro dentro e intorno ai Ministeri sono tra le più evolute del nostro precariato istituzionalizzato. La domanda allora non è se ci si mangia o meno con la cultura ma chi ci mangia sulla cultura.

L’arte è un campo dove la parola lobby fa ancora paura perché il potere è tanto: gli storici dell’arte, i critici, i curatori delle mostre, gli artisti, le nicchie, le correnti. L’arte è una forma di influenza virale e con la cultura in mano a pochi abbiamo soffocato l’Italia.

I musei, dal canto loro, sono in transizione dall’interno e chi non ha il peso di gestire milioni di turisti si sta ricostruendo una verginità agli occhi degli italiani: sono i musei delle città di confine rispetto ai capoluoghi e sono le province che non hanno ancora rinunciato alle radici, così come le aziende che si stanno reinventando un’idea diversa del viaggio e investono sui musei di impresa partendo da una cultura di geografia e di prodotto. Non pensiamo solo alle grandi città d’arte quando sentiamo usare la parola museo e tiriamo via la polvere da quell’immagine noiosa, vecchia e ingessata che abbiamo incassato per decenni.

I musei stanno cambiando ma le nostre percezioni restano attaccate alla memoria.

Con questo reportage siamo voluti andare anche sui bordi dell’Italia che crea cultura per dimostrare che gli Uffizi o il Colosseo o Piazza San Marco sono solo le prime parole che ci vengono in mente quando viaggiamo per associazioni di idee. Siamo andati a cercare il lavoro nascosto nei musei e le logiche che tengono vivo il sistema, ripercorrendo la lunga linea di filiera. Dentro abbiamo visto tanta ombra su cui la competenza di chi vorrebbe fare luce non ha ancora trovato il proprio spazio.

Peter Aufreiter, che dopo la riforma Bonisoli ha annunciato poche settimane fa di lasciare per Vienna la direzione della Galleria Nazionale delle Marche ad Urbino, ci ha rilasciato un’intervista che dovrebbe far male a tutti noi. Stralcio solo poche parole. “Se io ho successo, il contratto mi viene rinnovato con premi in base agli obiettivi; altrimenti me ne vado. Invece con la nuova riforma nessuno sarà responsabile di niente. Per dirigere un museo ci vorrà un esperto di pubblica amministrazione, più che un manager e un direttore scientifico”.

C’è da chiedersi se siamo città d’arte o di manifattura, se ci siamo evoluti o meno, se siamo davvero eredi di tanta cultura visto il modo in cui la trattiamo. Non sembrerebbe vero nulla di tutto ciò anche se siamo un Paese fatto ad arte. Forse non eravamo fatti per l’arte ma solo fatti ad arte.

 

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