Genitori, soldi e stage. Le parole dei giovani che cercano lavoro

“Rispetto a quello che è il profilo socioculturale dei suoi genitori, lei si sente?” Molto/abbastanza diverso: 64%. Molto/abbastanza simile: 36%. Sono i dati del sondaggio firmato da SWG sulla percezione dei figli – un campione di 1500 maggiorenni – rispetto a chi li ha cresciuti: il dato che fa ancor più riflettere è che le […]

“Rispetto a quello che è il profilo socioculturale dei suoi genitori, lei si sente?”

Molto/abbastanza diverso: 64%.

Molto/abbastanza simile: 36%.

Sono i dati del sondaggio firmato da SWG sulla percezione dei figli – un campione di 1500 maggiorenni – rispetto a chi li ha cresciuti: il dato che fa ancor più riflettere è che le percentuali sono rimaste invariate rispetto a quello rilevato nel 2015. Il sondaggio avrebbe forse avuto una migliore rilettura sociale se avessero anche chiesto in cosa e perché si sentissero tanto simili o tanto diversi da loro.

Resta il fatto che la ricerca del lavoro è per i giovani un momento solitamente vissuto con molta ansia. Il loro vagare tra una pagina “lavora con noi” a un manifesto del centro per l’impiego conferma che sarebbe stato bello se avessero avuto un percorso di orientamento professionale mirato, sui banchi di scuola o all’università. E allora si ritrovano a portare avanti il motto: bisogna sempre pur partire da qualcosa. Ma a chi chiedere, da chi informarsi? Ed ecco che il punto di riferimento per le cose serie, in Italia, sono sempre i genitori: sono loro le persone a cui i giovani chiedono consiglio su quale sia la strada migliore per costruire la loro carriera. Comincio quindi la rassegna delle parole dei giovani che ricercano lavoro proprio con loro, i genitori, improvvisati e improbabili protagonisti del lavoro dei figli.

 

Le parole dei giovani che cercano lavoro: genitori

Sì, perché nella società genitoriale italiana, per andare a mangiare una pizza o per passare una serata con gli amici chiediamo sempre informazioni al nostro coetaneo o alla persona che, sulla base di interessi e somiglianza, è più vicina a noi, mentre per scegliere le cose importanti della vita – casa, soldi e lavoro – ripieghiamo sempre su mamma e papà. Inoltre è da considerare il fatto che ciò che pensano i genitori si ripercuote necessariamente sulle scelte dei figli. E c’è un motivo. I dati ISTAT del 2015 confermano che nel 41,9 % dei casi (quasi la metà) i giovani trovano lavoro grazie alle “conoscenze”, canale tutto italiano nel quale l’anzianità sociale dei genitori permette di indirizzare i loro figli a specifici posti di lavoro.

Inoltre, sebbene il mondo professionale sia cambiato a dismisura dalla precedente generazione, molti figli crescono nella speranza di un posto fisso, della chimera del lavoro pubblico, dell’importanza del lavoro vicino a casa. Tutti elementi importanti e necessari per un giovane che, essendo tale, si avvicina alla vita adulta con le esigenze di una stabilità economica, di un mutuo e di una casa. Ma in certi territori e in certi contesti sociali questo trasferimento di desideri è pressoché irreale e controproducente per la carriera del giovane.

Alcuni genitori hanno anche un altro ruolo: quello di trasmettere una competenza, una professione per le oltre 11.000 imprese famigliari presenti in Italia con più di venti milioni di fatturato annuo, censite dal decimo osservatorio AUB nella ricerca Aidaf-Bocconi. Perché quando c’è un’azienda in famiglia i giovani sentono il peso e la responsabilità di intraprendere il lavoro dei padri o delle madri, e in taluni casi si tratta proprio di passaggio generazionale non esente da difficoltà e prove di emancipazione più o meno dolorose.

Talvolta si continua l’esperienza già avviata in famiglia per passione, per obbligo morale o per facilità di esecuzione; quasi mai per soldi. Sì, perché i soldi sono un’ulteriore parola che è bello prendere in considerazione in questa rassegna.

 

Soldi

Quanti giovani cercano un lavoro con una buona retribuzione? Che percezione hanno su quale sia la retribuzione migliore per loro? Per rispondere è interessante notare che a un anno dal conseguimento della laurea, i neolaureati hanno una media di retribuzione mensile pari a 1.169 nel 2017 (dato lievemente in crescita rispetto agli anni precedenti, che avevano visto toccare la punta più bassa di 1.025 del 2012) secondo il decimo rapporto sulla condizione occupazione dei laureati di AlmaLaurea. A leggere questi dati sembra che non siano i soldi l’obiettivo dei giovani che si approcciano al lavoro.

Anche se le generalizzazioni non sono utili per avere una fotografia precisa, è bene ricordare che in molti contesti pubblici si sente affermare da dirigenti di azienda e responsabili di risorse umane che ciò che i giovani cercano sul posto di lavoro è il sentirsi considerati, ovvero quella sensazione di essere utili per l’azienda e di poter dare il proprio contributo nelle attività aziendali. Insomma, essere apprezzati e liberi di applicare le loro competenze.

Il valore economico tocca comunque profondamente la vita di molti di loro, soprattutto in considerazione di uno dei passaggi quasi obbligati delle nuove generazioni: lo stage. Dalla messa in atto della riforma Fornero i cosiddetti stage extracurriculari, ovvero gli stage svolti dopo il conseguimento di un titolo di studi, prevedono tutti un rimborso spese obbligatorio minimo per i partecipanti. Il valore minimo è stabilito dalle singole regioni alle quali sono affidate la normativa e la gestione di tali stage essendo di competenza delle Regioni stesse. I valori economici di riferimento sono molteplici e si va da una retribuzione minima di 300 euro fino a un massimo di 800 euro previsti nella Regione Lazio.

E lo stage ormai è un passaggio quasi necessario che rimanda in avanti l’ingresso a tutti gli effetti nel mondo del lavoro, protraendo il momento in cui i giovani laureati o diplomati possono iniziare a guadagnare un reddito importante per potersi emancipare dalla famiglia.

 

Stage

Lo stage è diventata una delle parole più in uso e meno compresa. A partire dalla sua pronuncia. Tutti dicono steig all’inglese anziché staage (la doppia a è voluta) alla francese. E forse questo modo di pronuncia deviato dal suo significato originale ha favorito che tutti pensassero allo stage come un passaggio obbligato (stage letto all’inglese, appunto) prima di entrare nel mondo del lavoro. L’esperienza formativa per eccellenza ha sostituito i vari periodi di prova dei comuni contratti e oggi è, nella pratica comune, in tutto e per tutto un’esperienza lavorativa che sottostà alle regole professionali.

E la cosa più spaventosa è che, visto il carattere orientativo che l’esperienza porta con sé, i ragazzi provano a fare esperienze disparate per orientarsi a ciò che vogliono fare in futuro. Ecco che prima di poter stipulare un contratto di lavoro un giovane si trova costretto a svolgere dai tre ai cinque stage dopo gli studi.

È uno dei casi in cui è visibile in maniera prorompente l’estrema necessità di cambiare la cultura del lavoro, perché continuando su questa strada utilizzeremo degli strumenti efficaci per la crescita personale in modo distorto, distruggendone o addirittura modificandone l’obiettivo iniziale. Ne è testimone anche AlmaLaurea che, nella sintesi della XX indagine sui laureati italiani del 2018 afferma: «Che tali esperienze rappresentino per gli studenti una carta vincente da giocare sul mercato del lavoro è dimostrata da AlmaLaurea grazie a specifici approfondimenti: a parità di condizioni, infatti, il tirocinio si associa a una probabilità maggiore del 20,6% di trovare un’occupazione, a un anno dalla conclusione del corso di studi. Negli ultimi anni si è registrato un aumento delle esperienze di tirocinio curriculare, che nel 2017 hanno riguardato il 57,9% dei laureati (erano il 50,8% nel 2007). A tale positivo risultato si associa un’elevata soddisfazione da parte di chi ha vissuto questa esperienza: il 69,5% dei laureati esprime infatti un’opinione decisamente positiva.»

Questa “cultura dello stage” ha fatto sì che i giovani orientino la ricerca lavoro allo stage anziché alla ricerca di un contratto migliore, proprio per non peccare di presunzione e farsi vedere con un atteggiamento di umiltà, come è proprio di chi vuole immettersi nel mercato. Uscire da un percorso di studi e cercare direttamente un lavoro diventa quasi proibitivo. E le aziende cavalcano l’onda per avere forza lavoro gratis e valutare in tempi lunghi la giusta risorsa dopo infiniti contratti di stage.

Ormai non esistono più corsi senza stage, sia che essi siano accademici, di alternanza, professionalizzanti, o finanziati. Lo stage sembra quasi essere messo come bollino di qualità. E la mentalità comune spinge a pensare che i corsi che offrono queste esperienze siano migliori di altri. Il colmo dei colmi: esistono anche master organizzati in modalità executive (quindi durante il weekend), dedicati ai professionisti e a chi già lavora, che offrono ugualmente la possibilità di concludere il percorso con uno stage.

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