Giù le mani dalla sartoria napoletana

In giro per la città e per la provincia, alla ricerca di aziende che potessero ospitare in alternanza scuola-lavoro sedici ragazze di un IeFp (percorso di Istruzione e Formazione Professionale, attivato dall’ente di formazione EITD scarl), mi sono imbattuta in un ricco e variegato spaccato di realtà imprenditoriali partenopee. Dopo sei mesi è emerso che, anche […]

In giro per la città e per la provincia, alla ricerca di aziende che potessero ospitare in alternanza scuola-lavoro sedici ragazze di un IeFp (percorso di Istruzione e Formazione Professionale, attivato dall’ente di formazione EITD scarl), mi sono imbattuta in un ricco e variegato spaccato di realtà imprenditoriali partenopee. Dopo sei mesi è emerso che, anche dal punto di vista delle aziende della sartoria, Napoli è una città viva.

 

Gli imprenditori della sartoria napoletana

La mia conoscenza è partita da un’azienda nata ad Arzano che è da sempre sinonimo di eccellenza, la Ciro Paone S.p.A., creatrice del marchio Kiton.

Qui ho conosciuto Raffaella, figlia del fondatore, componente del consiglio di amministrazione di un gruppo che ha oggi ha acquisito al suo interno aziende e produzioni di camicie, scarpe, linea femminile, componenti in filato e tanto altro. Alla grinta partenopea Raffaella unisce la professionalità e la prospettiva di una dimensione internazionale.

L’azienda è specchio del suo fondatore e della famiglia che la manda avanti: la cura dei dettagli e la ricerca di nuove soluzioni, sempre accattivanti per un mercato che non è mai pago, si mescolano in un efficiente mix di tradizione e innovazione. Alla Kiton va il merito di aver intuito fin da subito che le buone professionalità, soprattutto quelle operative – un abito Kiton è fatto al cento per cento a mano – vanno coltivate e curate fin dalla giovane età.

Uno degli investimenti che l’azienda fa da anni è in una scuola interna di alta sartoria che ogni tre anni fa diplomare sarti e sarte di alta qualità, secondo lo standard Kiton, assorbiti, oltre che dall’azienda, dalle tante altre imprese di settore del mercato locale e nazionale. Sarte e sarti sono ancora molto richiesti e sempre più rari a trovarsi, e per questo molto ambiti e contesi, sempre più difficili da tenere, soprattutto se si è piccoli artigiani. La tradizione dell’antico e nobile mestiere della sartoria maschile napoletana, infatti, negli anni ha rivolto lo sguardo ben oltre il lavoro eseguito nel piccolo laboratorio artigianale.

 

Grande tradizione, piccole imprese

Le botteghe si sono moltiplicate e diversificate. Oggi poi, andando in giro per la città, nella zona del centro storico come nelle periferie e nella provincia, se ne trovano ancora, sempre più piccole, sempre più marginali, sempre più ignote alle nuove generazioni. Se però si varca la loro soglia ci si accorge che molte cose sono restate immutate: l’orgoglio dell’essere eredi di una prestigiosa tradizione è ancora molto sentito, e anzi è difeso da chi continua questo mestiere, avendolo ereditato dai propri padri e dai propri nonni.

È questo il caso di tre piccoli atelier che confezionano abiti e accessori da sposa. Sono Maridà, Assia e Pipolo: nei loro laboratori la terza generazione di artigiani propone prodotti e stile dal sapore antico, in cui necessariamente il rispetto della tradizione ha dovuto coniugarsi con l’attenzione alle tendenze della moda. All’uso dell’ago per il lavoro a mano la sarta ha quindi dovuto affiancare il ricorso al programma di modellistica per lo sviluppo della taglia; lo stesso imprenditore, alla capacità di accogliere e soddisfare il cliente nella scelta di un abito unico, fatto su misura, ha dovuto unire la capacità di dare risposte complete alla sua richiesta di perfezione per un giorno unico.

E allora Maridà negli anni ha sviluppato un marchio, D’Alessandro, che produce e rifornisce gli accessori e i complementi per il matrimonio, della sposa e non solo, anche ad altri atelier di tutta Italia. Assia e Pipolo realizzano, oltre ad abiti da sposa, anche abiti su misura per damigelle o abiti da cerimonia per altre importanti occasioni di festa.

Questi giovani imprenditori, quasi tutte donne, chiedono a gran voce un aiuto per difendere il loro lavoro dalla minaccia di chi si improvvisa, abbassando prezzi e qualità, fornendo un servizio mediocre e nessuna assistenza. Il loro più grande cruccio è che le nuove generazioni non siano state abituate a riconoscere, difendere e cercare la qualità, il bello, la materia prima di pregio con cui sono fatti gli abiti artigianali. Questa diseducazione è la principale ragione che costringe spesso i piccoli artigiani a cedere il passo ai grandi nomi che li fagocitano, facendoli scomparire nei numeri di una finanza che quasi mai parla italiano, o che peggio ancora li costringe a svendere tradizione e marchi a compratori stranieri, senza nessuna passione e tradizione.

La preparazione di questi imprenditori in materia di sartoria, spesso alimentata da una conoscenza quotidiana acquisita nel contesto familiare, sebbene supportata da studi specifici di marketing e imprenditorialità, non riesce quasi mai a controbattere ai colpi bassi del mercato. Se a questo si unisce la difficoltà a trovare manodopera qualificata e interessata a un guadagno equo ma faticato, si spiegano i fallimenti, le chiusure, e in generale la scomparsa delle botteghe artigianali di qualità.

 

Pesce piccolo contro pesce piccolo

Un ulteriore discorso lo abbiamo affrontato con una piccola fabbrica artigianale di abiti da lavoro e divise, creatrice di marchi – l’Ardito e Le Mokò – commercializzati in tutta la regione, e attraverso internet nel resto d’Italia. Il suo fondatore, che oggi ha passato il testimone alle figlie, racconta la sua esperienza di imprenditore nel settore della sartoria al nord e qui nel sud Italia.

La sua è stata una scelta precisa di recupero della tradizione, anche attraverso il ricorso a metodi e procedure oggi superati, ma necessari se si vuol confezionare una giacca, un abito, un prodotto artigianale su misura, quale ad esempio la modellistica per lo sviluppo della taglia fatta ancora a mano, su cartone.

La parte più difficile nella gestione di questa esperienza imprenditoriale tuttavia non l’ha riscontrata nel ritorno a un passato impegnativo, quanto nel rapporto con i colleghi imprenditori. Uno dei mali di cui soffre questo ambito è l’incapacità, ancora troppo marcata, di fare squadra e fronte comune di fronte alle avversità del settore, rendendosi facile preda, oggi o domani, del pesce grosso di turno.

 

Le difficoltà di trasmettere una passione

Posso quindi dire che anche nella sartoria ho ritrovato quella vita, quella passione che è elemento distintivo dell’intera esistenza partenopea.

C’è, tra gli imprenditori del settore della sartoria, piccoli e grandi, partenopei come della provincia, l’obiettivo comune di dare seguito alla tradizione di cui si sentono orgogliosamente eredi. Al contempo però vogliono affrancarsi dai cliché che spesso li definiscono ancor prima che possano farsi conoscere per il loro lavoro e la loro professionalità, solo perché sono “napoletani” – e non è un luogo comune.

A tenerli ancora desti è il desiderio di trasmettere una passione alle nuove generazioni affinché possano farne una professione. Ma spesso, ci dicono, qui al Sud mancano le occasioni o le modalità che ci permettono di insegnare e di mandare avanti un’azienda, anche e soprattutto se è un piccolo laboratorio.

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