Gli ultimi schiavi da coronavirus lavorano nei supermercati

Chi lavora a contatto con il pubblico lo sa: non c’è sabato né domenica né festivi. È l’ultimo anello della catena del valore: prima c’è l’ideazione del prodotto, la messa a punto, la produzione, poi la vendita finale, e loro a chiusura del cerchio, alla fine. Così si sentono gli ultimi anche nella considerazione degli […]

Chi lavora a contatto con il pubblico lo sa: non c’è sabato né domenica né festivi. È l’ultimo anello della catena del valore: prima c’è l’ideazione del prodotto, la messa a punto, la produzione, poi la vendita finale, e loro a chiusura del cerchio, alla fine. Così si sentono gli ultimi anche nella considerazione degli altri: datori di lavoro, politici, clienti. Troppo spesso chi lavora in questo settore vive situazioni di fragilità a cui viene data poca voce.

C’è da dire che quando nel nostro Paese si è dibattuto di aperture domenicali dei centri commerciali o di aperture notturne dei supermercati, in salsa americana, la solidarietà degli italiani non si è vista granché. Anzi: più state aperti e meglio è. Così è, se vi pare.

La legislazione ha fatto il resto: dalle aperture obbligatorie solo per i centri a vocazione turistica fino ad arrivare alle liberalizzazioni di Monti nel 2011. Anche lì agli “ultimi” è sembrato chiaro il messaggio che arrivava da più parti, nell’ottica del vecchio adagio: Mors tua, vita mea.

Paradossalmente questo distacco tra loro e gli altri si fa ancora più forte anche in questo periodo di coronavirus, in cui le aziende raccontano di smart working intelligente, con gli uffici chiusi dalle aziende stesse per dare la possibilità agli “altri” di lavorare comodamente da casa. E le notizie mainstream pronte a esaltare la virtuosità 4.0, esultando come se avessimo alzato la coppa del mondo.

Ma i beffati sono ancora loro, quelli la cui presenza pare fondamentale: gli ultimi lavoratori dei supermercati, che accolgono clienti impazziti (guarda caso pure di domenica, della serie: oltre il danno pure la beffa), mai così decisi e risoluti nel correre ad accaparrarsi i prodotti sugli scaffali, manco fossimo davanti a un’apocalisse: arraffano la pasta (no alle farfalle e alle penne lisce: anche nell’emergenza, vera o presunta, facciamo gli schizzinosi) e, soprattutto, l’amuchina.

 

I lavoratori dei supermercati e degli outlet nella trincea invisibile contro il virus

In questi giorni di ansia mal sopita e di scaffali vuoti mi è parsa subito chiara una disparità abbastanza evidente: se lavori in ufficio sei smart, se no semplicemente non lo sei. Quindi, peggio per te.

In provincia di Varese, entro in uno dei tanti supermercati stressati quasi quanto gli ospedali a causa dell’isteria collettiva che – come detto – ha colpito molti italiani. È domenica, si registrano code incredibili alle casse e tanti clienti presenti in ogni reparto, con il picco più alto registrato in quelli dedicati alla pasta. Dopo gli assalti per riempire i carrelli di questi giorni, una cassiera del Tigros afferma sconsolata: “Ci dicono di evitare gli assembramenti nei luoghi chiusi e oggi sembra che si ritrovino tutti qui. Ma a noi e alla nostra salute chi pensa?”.

Ci spostiamo e parliamo con un cassiere del Carrefour, catena francese della Grande Distribuzione Organizzata, che alla fine del suo turno ci racconta: “Siamo zero, non siamo calcolati. Con i veri e propri assalti ai supermercati di questi giorni rimaniamo sempre gli stessi, con una mole di lavoro straordinaria e con un ulteriore problema: i figli non vanno a scuola, tutto chiuso per precauzione. Non tutti possono contare sull’aiuto paracadute dei nonni. Siamo in difficoltà, visto che i soldi per pagare una babysitter, per un lavoratore – spesso part-time – non ci sono. E allora che fare?”.

Anche chi lavora nelle cittadelle della moda, nei grandi outlet tanto frequentati dai clienti provenienti da ogni dove, registra uno smarrimento per il continuo passaggio di persone nei loro centri. Pochi vogliono parlare. Solo la responsabile di un punto vendita rompe il silenzio, pur volendo mantenere l’anonimato: “Non ho ricevuto supporto né dal personale del centro e neppure dalle aziende per cui lavoro. Ho chiesto le mascherine alla mia azienda prima ancora che la situazione peggiorasse, ma non ho avuto risposta. Solo qualche giorno fa, l’Ufficio Risorse Umane ha comunicato che si ha la facoltà di acquistare le mascherine e che, nel caso, verranno rimborsate”.

Altre aziende invece hanno prontamente consegnato al proprio personale mascherine, igienizzanti e guanti, ma dando un’occhiata all’interno dei punti vendita praticamente nessuno indossa nulla. Proviamo a chiedere a una commessa all’interno di un negozio: “Non c’è l’obbligo e neppure l’esigenza reale di farlo; e poi scoraggiano l’ingresso dei clienti”.

 

Dove non arriva lo smart working: i crucci di taxi e aeroporti

Un altro luogo sempre aperto e a contatto con il mondo è l’aeroporto.

Arriviamo nell’area arrivi di Malpensa, beviamo un caffè e chiediamo a un’operatrice in servizio al bar dell’autogrill: “Le mascherine le abbiamo, ma nessuno le indossa. Non siamo preoccupate, anche se qui il passaggio di persone è continuo. Continuiamo la nostra vita come sempre: chiudono tutti, noi sempre aperti”.

A fianco a me un tassista confessa: “Io sono un lavoratore a partita Iva, e qui se calano i clienti, cosa che temo fortemente, non lavoro e quindi non guadagno. C’è poco passaggio e anche le corse su Milano stanno diminuendo fortemente. Spero che il tutto si risolva presto perché la preoccupazione potrebbe tramutarsi in ansia: ci sono scadenze da onorare, e se le entrate calano in maniera verticale pagare anche una semplice bolletta potrebbe creare non pochi grattacapi – non solo a me. Siamo in molti a condividere lo stesso stato d’animo”.

Anche per loro lo smart working non è possibile.

Foto di copertina di Lara Mariani

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