Il Made in Italy della pasta campana sta tutto nella manodopera

L’oro giallo – quello che finisce ogni giorno nei nostri piatti – parla ancora italiano, e soprattutto campano. È vero: la pasta, una delle eccellenze del vincente Distretto Industriale agroalimentare di Nocera Inferiore e Gragnano, viaggia ormai verso tutto il mondo, e proprio la Campania ne è la principale esportatrice. Eppure la sua produzione, per […]

L’oro giallo – quello che finisce ogni giorno nei nostri piatti – parla ancora italiano, e soprattutto campano. È vero: la pasta, una delle eccellenze del vincente Distretto Industriale agroalimentare di Nocera Inferiore e Gragnano, viaggia ormai verso tutto il mondo, e proprio la Campania ne è la principale esportatrice. Eppure la sua produzione, per il momento, resta rigorosamente locale. Sulle risorse umane del territorio ha voluto puntare anche Giuseppe Di Martino, artefice del rilancio dello storico pastificio di Salerno “Antonio Amato”, che in molti ricorderanno come vecchio sponsor della Nazionale di calcio italiana. Dopo una lunga vicenda giudiziaria, nel 2014 è partita la nuova avventura imprenditoriale. Tante le novità – dal restyling del brand all’attivazione del mulino all’offerta rinnovata dei prodotti – ma sempre nel solco della continuità con la tradizione e la valorizzazione della manodopera del territorio. Non a caso – per scelta dell’amministratore e non per obbligo legale – le 32 assunzioni hanno interessato solo ex dipendenti della vecchia gestione del pastificio. E non a caso tutti e 32 sono salernitani, di residenza o di provenienza.

Ma la politica del “Molino e Pastificio Antonio Amato” non è isolata. E lo capiamo spostandoci a Gragnano (Napoli), l’unica città al mondo interamente certificata IGP (dal 2013, ndr). Qui tutto ruota intorno alla produzione delle preziose trafile di bronzo: basti pensare che nel 1843 l’intera città è stata ridisegnata in funzione della pasta, dalla larghezza delle strade all’altezza dei palazzi al criterio di esposizione al sole per favorire l’asciugatura. Come spiega Ciro Moccia, co-titolare del pastificio “La Fabbrica della Pasta” e presidente del neonato “Consorzio di Tutela della Pasta di Gragnano IGP” (sostituitosi al “Consorzio Gragnano Città della Pasta”): “Dei circa 50 dipendenti dell’azienda, che raddoppiano con gli stagionali chiamati sotto le festività, la maggioranza è del posto e comunque tutti provengono da un raggio massimo di 20-30 chilometri”. I fratelli Moccia non hanno mai pensato di rivolgersi alla manodopera straniera né di produrre all’estero, perché ”significherebbe tradire l’IGP”. I rapporti con gli altri paesi si limitano alle esportazioni e a qualche consulenza gratuita, come quella recentemente prestata in Africa per l’apertura di un pastificio.

Un’arte, quella di fare la pasta, che si impara principalmente “sul campo”. “Il 95 per cento del personale è formato da noi, da me e dai miei fratelli – spiega Moccia – attingendo dall’esperienza. Non c’è bisogno di una scuola per imparare a fare la pasta, ma di passione, amore. Per questo di solito richiediamo come base un semplice diploma”. E a Gragnano, ancor più che altrove, la pasta è molto spesso un “affare di famiglia”, che si tramanda di generazione in generazione. La spiegazione per Ciro Moccia è che “produrre pasta entra nel sangue”. Lo dimostra il fatto che almeno la metà dei dipendenti de “La Fabbrica della Pasta” provengono da una storia di pastai. E lo stesso vale per la gestione aziendale: qui l’ingresso del figlio 19enne del titolare ha dato il via alla quarta generazione di pastai Moccia.
Certo non sempre la terra campana riesce a custodire da sola la sua miniera d’oro. Alcuni marchi storici della pasta, nel tempo, sono stati inglobati da multinazionali. È il caso del pastificio “Afeltra”, ancora attivo a Gragnano ma rilevato nel 2005 dal patron di “Eataly” Oscar Farinetti. E ne è un altro esempio lo storico marchio “Russo” di Cicciano (Napoli), passato sotto “Garofalo”, nota azienda sempre campana (di Gragnano), ma che nel 2014 ha ceduto il 52 per cento del capitale alla multinazionale iberica “Ebro Foods”. Mentre, già dagli anni Settanta, la “Voiello” era stata assorbita da “Barilla”, che pure aveva mantenuto la produzione in Campania, a Marcianise (Caserta).

È indubbio che nel passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale si perda qualcosa, ad esempio in termini di autenticità dei rapporti umani (e infatti parlare con le amministrazioni può diventare – com’è stato a tratti per noi – una prova di nervi) e di libertà di espressione creativa. Eppure, anche in queste circostanze, ci si sforza di preservare l’identità locale, dalle maestranze al sito produttivo. Il tutto nella consapevolezza che il valore aggiunto derivante da una tradizione millenaria che si respira nell’aria e contagia le generazioni non può essere ricostruito da nessun’altra parte e da nessuno che quella tradizione non l’abbia vissuta.
Insomma, il distretto della pasta campano resiste ancora come vessillo del made in Italy, da proteggere dalle imitazioni e dalle contraffazioni, come si propone di fare a Gragnano il Consorzio di Tutela. L’orgoglio della pasta asciutta per ora è salvo (o quasi).

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