Il manuale del buon lobbista

“I nostri interventi? Spesso non ottengono solo il risultato di favorire il tornaconto privato di un cliente, servono anche a difendere un interesse comune”. Lo sostiene Giampiero Zurlo, un professionista che ha fondato e presiede Utopia, una delle poche società italiane che hanno come core business l’attività di lobbying. Un esempio? “Riguarda Facebook, uno dei […]

“I nostri interventi? Spesso non ottengono solo il risultato di favorire il tornaconto privato di un cliente, servono anche a difendere un interesse comune”. Lo sostiene Giampiero Zurlo, un professionista che ha fondato e presiede Utopia, una delle poche società italiane che hanno come core business l’attività di lobbying.

Un esempio? “Riguarda Facebook, uno dei nostri clienti più importanti e risale a poco tempo fa, quando il governo stava predisponendo il disegno di legge poi diventato decreto antiterrorismo”. Nel testo originario si stabiliva che, in caso di reato con aggravante terroristica realizzato via Internet, il giudice poteva “inibire l’accesso al dominio” coinvolto. È chiaro che se si fosse trattato di Facebook avrebbe voluto dire bloccare l’accesso a trenta milioni di italiani, cosa non certo voluta ma che stava sfuggendo al legislatore. “Così”, spiega Zurlo, “abbiamo proposto una modifica che poi è stata recepita: inibire la sola pagina coinvolta invece che tutto il dominio”.

Non sono più di 15 in Italia le società che, in modo professionale e trasparente, si occupano di “Public affairs”, cioè di supportare i clienti con strategie che puntano a influenzare i decisori pubblici a tutti i livelli, regionale, nazionale ed europeo. Se però si escludono dal conteggio i grandi gruppi che hanno come attività principale la comunicazione d’impresa ma includono anche una divisione di public affairs – dalla multinazionale Burson-Marsteller all’italiana Barabino & Partners, solo per citarne due – restano non più di sei società rilevanti che si occupano in modo prevalente di “fare lobbying” rappresentando e promuovendo interessi legittimi, con 20-25 collaboratori e, spesso, con uffici a Roma (qualche volta anche a Milano) e Bruxelles. Oltre alla già citata Utopia, FB & Associati, Cattaneo Zanetto & Co., Quick Top, Nomos e Open Gate.

C’è poi una schiera di cosiddetti freelance, molti ex politici nazionali o locali, che si offrono come consulenti alle aziende solo perché conoscono “qualcuno nel posto giusto”. Senza contare gli studi legali dedicati e chi, come dipendente diretto di un impresa, fa opera di lobbying, come si dice, “in house”.
“In realtà, per fare bene questo lavoro – commenta l’amministratore delegato di FB & Associati, Fabio Bistoncini – bisogna partire dai contenuti, dalla conoscenza approfondita del tema in questione prima di proporlo ai decisori. Se non c’è questo, le conoscenze, i “contatti giusti”, non servono a nulla”.
“L’attività di lobbying non è etica o disdicevole in se’, dipende tutto da come la si fà. Il problema è la mancanza di una normativa che regoli la professione”, sostiene Luigi Ferrata, account director di Sec, agenzia di comunicazione con una divisione di public affairs.

“L’assenza di una regolamentazione che disciplini la rappresentanza di interessi privati – aggiunge Zurlo – danneggia più i decisori che società come la nostra che già seguono le più rigide regole internazionali. Certi free lance, invece, possono passare in una porta girevole dalla politica al lobbying e ciò crea pericolose implicazioni. Anche negli Usa ex politici spesso diventano sponsorizzatori di interessi aziendali, solo che lì vale un principio che impedisce il “revolving doors”: un politico può diventare lobbista solo due anni dopo che ha lasciato i suoi incarichi”.
Ma come si svolge il lavoro di un lobbista professionale, dopo che un cliente ha chiesto di sostenere un suo interesse presso i decisori pubblici? “Prima di tutto stendiamo un piano di fattibilità – spiega Bistoncini – per vedere cioè se quell’interesse, oltre ad essere legittimo, è anche compatibile con la situazione istituzionale ed economica del Paese. Poi si passa all’individuazione dei decisori e, partendo sempre dai contenuti, si cerca di ottenere un appuntamento per discutere della questione”.

“Attenzione però – avverte Ferrata – una volta ottenuto l’appuntamento bisogna saper presentare il problema in modo rapido e sintetico perché, dicono i nostri interlocutori, ‘un colloquio che dura più di dieci minuti è certamente una perdita di tempo’ “. Più o meno quanto sosteneva il presidente degli Stati Uniti. J. F. Kennedy: “I lobbisti mi fanno comprendere un problema in dieci minuti, i miei collaboratori impiegano tre giorni”.

Certo che quello del lobbista professionale non è un lavoro per tutti, è necessaria una preparazione molto articolata che, secondo le indicazioni degli esperti interpellati, si può così sintetizzare:

Laurea preferibilmente in giurisprudenza, scienze politiche o economia (nei team delle società di lobbying ci sono però spesso anche ingegneri soprattutto per i temi energetici), ma ciò che conta è poi la formazione sul campo.

– Indipendentemente dalla laurea necessitano comunque conoscenze giuridiche.

Competenze di analisi politico-istituzionale (conoscere partiti e correnti e i meccanismi degli iter legislativi).

– Capacità comunicative (saper sostenere un “elevator speech”, cioè convincere su un argomento in pochi minuti, più o meno il tempo di una corsa in ascensore);

– Competenze di back-office, ovvero saper rompersi la testa sulla comprensione dei dossier.

– Competenze di economia.

– Fondamentale, infine, un’ottima conoscenza dell’inglese, non solo perché spesso i clienti sono multinazionali, ma anche perché frequentemente si lavora su Bruxelles.

Università, Master e Corsi

Per chi vuole formarsi adeguatamente prima di puntare a una candidatura in una società di lobbying, ci sono diverse opportunità qualitativamente alte (spesso molto dispendiose) e una miriade di altri corsi non sempre raccomandabili. Ecco alcune tra le più interessanti proposte postlaurea:

          Master universitari di I livello:

  1. IULM Milano: MASPI, Master in “Management della Comunicazione sociale, politica e istituzionale” (8.800 euro)
  2. IULM Milano: MICRI, Master in “Comunicazione per le relazioni internazionali (10.560 euro comprensivo di uno “Study Tour” di una settimana negli Usa a Washington DC e New York)

          Master universitari di II livello:

  1. LUISS Roma: Master in “Relazioni istituzionali, Lobby e Comunicazione d’impresa” (6.000 euro)
  2. TOR VERGATA Roma: Master in “Processi decisionali e lobbying in Italia e in Europa” (3.500 euro)
  3. LUMSA Roma: Master in “Public Affairs, Lobbying e Diritto parlamentare” (4.500 euro).

    Master Specialistico:

  1. LUISS School of Government Roma: MIPA, Master of Arts in “International public Affairs” (8.500 euro).
CONDIVIDI

Leggi anche

Fotografia di un gigantesco outlet, l’Italia

“Gli imprenditori italiani stanno svendendo l’italianità, le aziende straniere che comprano la usano per veicolare l’identità che non possiedono, questo approccio porterà allo svuotamento dei valori ereditati, costruiti dalle generazioni precedenti”, parola di Gianluigi Zenti, fondatore di Academia Barilla. L’anno scorso, in Italia, sono stati firmati 577 accordi di fusioni ed acquisizioni di aziende, per […]

Liti sul lavoro, le parole mancanti

A molti in ufficio sarà capitato almeno una volta di dover interagire con un collega difficile che suscita fastidio, frustrazione, disagio o anche rabbia. I comportamenti difficili delle persone sul luogo di lavoro sono tra le cause principali di problemi relazionali, mancata collaborazione, cooperazione, creatività, e in ultima analisi calo della produttività. Le recenti ricerche […]