ILVA, sostantivo femminile malato di lavoro

L’immagine è forte. Dodici piccole foto di bambini sorridenti e sulle loro teste la scritta: “Loro dovevano vivere”. Il manifesto, fondo nero, con una fiaccola accesa sul lato destro, annuncia l’ennesima manifestazione a Taranto per le vittime dell’inquinamento. Il corteo che ha attraversato le strade della città, voluto dall’associazione Genitori Tarantini la sera del 25 […]

L’immagine è forte. Dodici piccole foto di bambini sorridenti e sulle loro teste la scritta: “Loro dovevano vivere”. Il manifesto, fondo nero, con una fiaccola accesa sul lato destro, annuncia l’ennesima manifestazione a Taranto per le vittime dell’inquinamento. Il corteo che ha attraversato le strade della città, voluto dall’associazione Genitori Tarantini la sera del 25 febbraio, ha avuto un significato ben preciso: ricordare Giorgio Di Ponzio, il quattordicenne morto a gennaio scorso. Giorgio e i genitori hanno lottato fin quando hanno potuto; poi la malattia ha avuto il sopravvento.

Taranto, purtroppo, è piena di storie così, e non da oggi. Destò molto clamore, nel 2014, la morte di Lorenzo, a cinque anni, ma con un tumore al cervello diagnosticato quando aveva solo pochi mesi. Negli ultimi tempi, poi, altri due giovanissimi sono volati via. Uno, Domenico, ventiseienne di Palagiano, non è riuscito nemmeno ad assaporare la gioia di avere tra le mani la pergamena di laurea al Politecnico di Bari. Gliel’hanno messa nella bara per il suo ultimo viaggio, ed è stato il rettore Eugenio Di Sciascio a consegnarla alla famiglia il giorno dei funerali del giovane. Un altro, Vincenzo, di diciannove anni, si era appena diplomato e sognava di fare il pastore.

Vite spezzate. E drammi familiari che rimangono e segnano la continuità esistenziale di genitori, fratelli, sorelle, parenti. “Per non dimenticare”, dicono i Genitori Tarantini a proposito della loro ultima iniziativa, la fiaccolata per Giorgio, con i genitori del piccolo che, dopo aver combattuto in silenzio, hanno voluto dare pubblica testimonianza di quanto accaduto loro. Non è la prima volta che quest’associazione alza la voce. Negli anni i suoi manifesti-denuncia sono stati affissi un po’ in tutta Italia. Anche vicino all’ospedale pediatrico Gaslini di Genova. E in altri cortei, anziché con le fiaccole, si è deciso di sfilare con le carrozzine vuote per rendere immediatamente percepibile il messaggio: vite tranciate dalla malattia.

Una manifestazione al Rione Tamburi

Taranto, Ilva e salute: un quadro impietoso

Il problema della salute minata dall’inquinamento a Taranto esiste, ed esiste da tantissimo tempo. La sala d’aspetto del day hospital oncologico dell’ospedale Moscati di Taranto non è quella di un ambulatorio: per quanto è affollata, sembra la sala d’aspetto di una stazione o di un angolo di aeroporto.

Le cifre, di fonte sanitaria, delineano un quadro impressionante. In sette anni, dal 2006 al 2012, nel territorio tarantino sono stati registrati 21.313 nuovi casi di cancro: 11.640 tra gli uomini e 9.673 tra le donne. I più frequenti nel sesso maschile sono il tumore di trachea-bronchi-polmone (16,5%), seguito dalla prostata (16,1%), dalla vescica (13,4%) e dal colon-retto (11,6%). Nelle donne il più diffuso è quello della mammella (29,5%). Segue il colon-retto (12%) e la tiroide (8,1%). Questi dati sono contenuti nel rapporto I tumori in provincia di Taranto 2017, elaborato dal Registro Tumori dell’Asl di Taranto, che aggiorna due precedenti report sull’incidenza neoplastica: uno del 2014 e uno del 2016, che rispettivamente hanno valutato i trienni 2006-2008 e 2009-2011. Trienni rispetto ai quali, si afferma, la situazione oncologica del territorio non è cambiata.

Per Antonia Mincuzzi, referente del Registro Tumori della Asl di Taranto, “la situazione rimane critica nel comune capoluogo, che presenta eccessi per molte sedi tumorali, soprattutto nel sesso maschile. Sulla base della letteratura, depongono a favore di un presumibile coinvolgimento della condizione ambientale e lavorativa, oltre che degli stili di vita della popolazione residente”. E appena poche settimane fa è stato denunciato da alcune associazioni che in Puglia sono stati riscontrati 1.191 casi di tumori da amianto, il 40% dei quali a Taranto: 472 i casi di mesotelioma registrati tra i residenti a Taranto nel periodo 1993-2015. “Gli uomini e le donne morti a Taranto a causa dell’amianto” costituiscono, per le associazioni, “una vera strage che si è consumata nel tempo con decessi inarrestabili”.

“Chiudere e riconvertire”: facile a dirsi

Ma allora, se i dati sono così forti ed eloquenti, come mai Taranto non riesce a fare della tutela della vita e della salute una battaglia unificante? Perché Taranto continua a essere descritta, a oltre sei anni dal sequestro giudiziario degli impianti Ilva in quanto fonte di disastro ambientale, come la città dell’eterno conflitto salute-lavoro? La chiave di volta sta qui, nel non aver trovato finora un motivo unificante che su un tema così rilevante compatti davvero la città, e non la laceri più di quanto non sia già lacerata e divisa.

Perché è evidente che, pur in presenza di numeri drammatici, se per eliminare l’inquinamento, e quindi sperare in un certo numero di anni di vedere abbassata anche la curva delle malattie, la strada è quella che passa attraverso la chiusura di una serie di grandi industrie, dal siderurgico ora Arcelor Mittal alla raffineria Eni, ci sarà inevitabilmente un pezzo di città che non si ritroverà mai, restando dall’altra parte. È inutile girarci intorno: siderurgico e raffineria, con i loro indotti, equivalgono per Taranto a migliaia e migliaia di posti di lavoro. E dire, come è stato detto, “chiudiamo queste aziende e riconvertiamo l’economia della città”, appare uno slogan demagogico più che un percorso reale. Spesso, in questi anni, a chi invocava la chiusura del siderurgico per bonificare il tutto e fare altre scelte di sviluppo, è stato rammentato quanto è accaduto a Bagnoli: il deserto dopo l’acciaio.

Senza andare fino in Campania, basterebbe ricordare che proprio a Taranto, quasi vent’anni fa, ha chiuso la Belleli di Mantova, un colosso dell’impiantistica con piattaforme offshore costruite in mezzo mondo; la forza lavoro altamente professionale di questo gruppo si è ricollocata altrove o è scivolata pian piano verso il pensionamento, passando da ammortizzatore sociale ad ammortizzatore sociale. E vogliamo parlare di Marcegaglia Buildtech? Aveva cominciato con i pannelli fotovoltaici, ha chiuso, e alla fine sono rimasti circa cinquanta addetti che non si è riusciti a ricollocare in nessuna nuova iniziativa. E, ancora, i circa cinquecento ex Taranto Container Terminal, la società attraverso cui Evergreen dal 2001 a fine 2014 ha gestito il traffico nel porto di Taranto. Sono ad oggi disoccupati, “parcheggiati”, anche qui dopo vari ammortizzatori sociali, nell’Agenzia per il lavoro portuale, perché in questi anni non si è riusciti a portare un nuovo operatore terminalista nel porto di Taranto (le cose ora dovrebbero cambiare con l’avvento dei turchi di Yilport).

Nelle tre crisi citate i numeri della forza lavoro sono stati infinitamente più piccoli, e tuttavia non c’è stato verso di rioccupare questa manodopera. Come si può allora pensare di farlo se, con l’ex Ilva ed Eni quei numeri salgono significativamente? Il dato di fatto che inchioda ogni pretesa di andare oltre l’acciaio e il petrolio è che il lavoro non si inventa, specie al Sud. E meno che mai con idee di riconversione che appaiono fragili e non sostenute da un solido impianto progettuale.

 

Diritto alla salute vs diritto al lavoro

Quindi, come ha detto la Corte Costituzionale nella sua prima sentenza (aprile 2013) sulla costituzionalità della prima legge sull’Ilva, e come in tanti ammoniscono, ancora oggi si tratta di contemperare il diritto alla salute, sacrosanto, con quello al lavoro, altrettanto sacrosanto. Può avvenire questo contemperamento? Pensiamo di sì, se si fanno camminare i progetti che ci sono, se si rispettano gli accordi fatti e se ci si sforza di accelerare le tempistiche attuative. Arcelor Mittal ha messo sul tavolo un progetto ambizioso: poco più di un miliardo di investimenti a Taranto per tagliare le emissioni inquinanti. I commissari Ilva, competenti su un altro pezzo di bonifica della fabbrica, hanno a disposizione un miliardo di euro derivanti dalla transazione con i Riva, ex proprietari dell’acciaieria. Ci sono poi i fondi e i progetti del commissario alla bonifica, Vera Corbelli, che agisce sul lato città: dal rione Tamburi, vicino alla fabbrica, al Mar Piccolo.

Un potenziale significativo, importante. C’è la possibilità di dispiegarlo con efficacia rendendolo percepibile ai cittadini? Perché la fiducia dei tarantini non la si conquista con le sponsorizzazioni o col contributo per le luci di Natale, o ancora con l’offerta di gratuità ai bambini sulla pista di ghiaccio per il pattinaggio; tutte cose che possono anche avvenire, ma a valle di un percorso che prima deve avere ben altre tappe. Di spessore. Nessuno disconosce che in questi anni, pur in un quadro difficile, e con poche risorse a disposizione, alcuni interventi sono stati fatti. L’avvio della copertura dei parchi minerali Ilva, per esempio, pronta a fine anno – e che eliminerà, si spera alla radice, il fenomeno delle polveri sulla città –, si colloca in questo contesto.

Ma a una città ferita, delusa e angosciata per le giovanissime vite spezzate, va reso chiaro un sostanziale e importante cambio di rotta. Bisogna farlo con trasparenza, comunicazione, partecipazione. Serve quindi un cambio di passo da parte delle aziende, una maggiore apertura al territorio. Ma serve anche che le istituzioni, prima nazionali e poi locali, riprendano in mano il dossier Taranto.

 

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