Indennizzo ai commercianti: uomini sull’orlo di una crisi di gender

L’indennizzo per i commercianti in crisi, quelli che  in questi anni hanno rischiato – e tuttora rischiano – di chiudere bottega a causa della congiuntura economica difficile, è stato introdotto nel lontano 1996 con un decreto legislativo che prevedeva un contributo economico per la cessazione dell’attività commerciale. Purtroppo accedere all’indennizzo, che oggi ammonta a 500 […]

L’indennizzo per i commercianti in crisi, quelli che  in questi anni hanno rischiato – e tuttora rischiano – di chiudere bottega a causa della congiuntura economica difficile, è stato introdotto nel lontano 1996 con un decreto legislativo che prevedeva un contributo economico per la cessazione dell’attività commerciale.

Purtroppo accedere all’indennizzo, che oggi ammonta a 500 euro e pari al trattamento minimo di pensione, sembra essere quasi un privilegio, quando invece è la soluzione obbligata se si vuole ottenere il minimo per la sopravvivenza, peraltro al di sotto delle sostenibili soglie di povertà.  Le condizioni per ottenerlo sono comunque molto stringenti.

A quali condizioni?

L’indennizzo viene concesso a patto che avvenga l’effettiva riconsegna della licenza per l’esercizio dell’attività commerciale al Comune che a suo tempo l’aveva concessa, nonché la remissione dell’autorizzazione alla somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, nel caso in cui quest’ultima sia associata al commercio al minuto; e infine la definitiva cancellazione dal Registro del commercio o delle imprese. Questo contributo è stato rinnovato ancora fino al 31 dicembre 2016 grazie alla Legge n.147/2013.

Tra i requisiti per ottenere questo “beneficio” (inteso in senso molto eufemistico) vi è anche il raggiungimento di una certa età minima pari per le donne a 57 anni e per gli uomini a 62. Ben cinque anni di differenza, che potrebbero ingenerare, nella mentalità gender, la convinzione che vi sia una disparità, stavolta a vantaggio delle donne, o addirittura una sorta di discriminazione al contrario, di cui gli uomini potrebbero essere addirittura le vittime sacrificali.

Una inutile “guerra tra poveri”, avallata da presunte ideologie di genere e che, se fomentata, potrebbe innescare il seme della discordia all’interno di una categoria già di per sé agonizzante, quella dei commercianti in crisi, che rischiano di soccombere di morte indotta dalla ingente pressione fiscale.

Discriminazioni di genere al contrario

La presunta disparità tra uomini e donne,  secondo Luigi Parenti, avvocato patrocinante in Cassazione ed esperto in Diritto del Lavoro e discriminazioni, parte da un presupposto oggettivo: quello che la donna debba essere tutelata dai lavori più usuranti. “La donna è sempre stata considerata dal legislatore il soggetto più debole, a causa delle condizioni soggettive della persona. Secondo il legislatore, l’uomo può sopportare le fatiche rispetto ad una donna, quindi può andare in pensione più tardi. Per questo motivo, le norme attuali prevedono questa agevolazione. La norma ha una sua ratio: la donna – questo è stato verificato da alcuni particolari studi scientifici – è un soggetto che risente di più del lavoro svolto nel corso di 20-30 anni”. Secondo il cassazionista, il ruolo femminile nella società produttiva si è evoluto radicalmente negli ultimi anni in vista di una progressiva parità dei generi. “Le discriminazioni sono il retaggio di una corrente di pensiero che risale a molti anni fa. Oggi le donne, tranne in casi particolari, hanno le stesse possibilità degli uomini. Poi è chiaro che ci sono quelle situazioni “soggettive” in cui l’uomo si lamenta della collega, ma qui entreremmo in situazioni troppo specifiche che non andrebbero generalizzate. Ci sarà sempre colui che lamenterà che le donne hanno voluto la parità di genere e che adesso debba esserci a tutti i livelli. Ma sono i soliti discorsi da bar”, conclude l’avvocato Parenti.

In realtà, la corrente di pensiero secondo la quale gli uomini, negli ambienti di lavoro, sarebbero in una posizione di inferiorità rispetto alle donne, fa molti più proseliti di quanto si immaginare.

Il succo potrebbe essere così riassunto: le donne hanno lottato a denti stretti per ottenere le pari opportunità ma al contempo vogliono essere tutelate, come se fossero una specie in via di estinzione. Molto più dura a riguardo è la posizione dell’avvocato Raffaele Garofalo, esperto in Previdenza e Lavoro che, pur riconoscendo la grande emancipazione che la figura femminile ha assunto nel corso degli ultimi anni e pur ammettendo che la discriminazione delle donne negli ambienti di lavoro sia uno “stereotipo più tangibile”, ammette che in molte situazioni l’uomo parte oggettivamente svantaggiato. Ad esempio, “l’età pensionabile per le donne è inferiore rispetto a quella degli uomini, pur essendo dimostrato da studi scientifici che le donne sono più longeve di circa sei anni rispetto agli uomini. Tale forma di discriminazione – aggiunge Garofalo – affonda le sue radici in disposti normativi volti ad apprestare notevoli tutele alle donne a discapito del lavoratore di sesso maschile.

“Vi sono innumerevoli leggi portatrici di atteggiamenti “sessisti” – incalza Garofalo – per esempio alcuni provvedimenti legislativi (uno su tutti, il decreto legislativo n.196 del 2000) prevedono l’adozione di piani volti a promuovere l’inserimento delle donne nei settori e nei livelli professionali nei quali sono sottorappresentate ma non vi sono riferimenti analoghi per il sesso opposto”. In pratica, anche in Italia ci sono delle leggi che, con l’intento di ridurre la discriminazione a scapito delle donne, rischiano di creare le condizioni per costruire una sorta di discriminazione al contrario, un po’ come avviene negli Stati Uniti, dove il fenomeno è molto diffuso. “La situazione oltre oceano è estremamente differente in quanto probabilmente si è avvertito che la ‘bulimia’ di leggi sulla parità uomo-donna rischia, per l’appunto, di diventare discriminatorio al rovescio. Pertanto leggi che continuano ad incentivare (rectius: obbligare) le assunzioni femminili a discapito di quelle maschili violerebbero i diritti umani e ciò è stato subito recepito dagli Stati Uniti, da sempre attenti al tema delle discriminazioni soprattutto sul posto di lavoro. La realtà europea è estremamente differente, sebbene si vada insinuando l’esistenza di una discriminazione a rovescio: qui non si registrano cambi di rotta né dagli organi legislativi nazionali né comunitari”, afferma l’avvocato.

Garofalo sostiene che in determinati contesti e a parità di ruoli, le donne sono favorite sia nella fase di ingresso negli ambienti di lavoro, sia durante la selezione delle candidature, la scelta dei curriculum o in sede di colloquio. Ciò dipende da un contesto giuridico che, introducendo ad esempio le quote rosa al fine di tutelare le donne e favorirne l’entrata nel mondo del lavoro, finiscono per ingenerare una sorta di discriminazione al contrario. “La discriminazione al rovescio non nasce dall’eventuale sottoposizione dell’uomo rispetto alla donna che ricopre posizione di rilievo nelle aziende, quanto piuttosto da interventi legislativi che continuano a perseguire una parità di trattamento, finendo, a volte, per spostare l’ago della bilancia dall’altra parte. Per assurdo leggi che nascono con il fine di promuovere la parità tra uomo e donna finiscono per raggiungere lo scopo opposto. E’ palese che tali incentivi, nonché misure punitive per chi viola disposizioni normative a favore dell’occupazione femminile, diventano un deterrente per chi assume che, allo scopo di fruire del beneficio contributivo ovvero per non vedersi esposto a sanzioni, finisce per far ricadere l’assunzione sulle donne”, conclude l’avvocato.

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