Industria barese? I primi no dall’hinterland

Circa duemila ettari di superficie, settecento fabbriche, oltre ottanta chilometri di strade per due grandi aree industriali ubicate nella zona nord est del capoluogo, tra Bari, Modugno e Molfetta. Siamo nella zona industriale di Bari, un concentrato storico di lavoro, progetti e contraddizioni nato agli inizi degli anni Sessanta grazie ai contributi della Cassa del […]

Circa duemila ettari di superficie, settecento fabbriche, oltre ottanta chilometri di strade per due grandi aree industriali ubicate nella zona nord est del capoluogo, tra Bari, Modugno e Molfetta. Siamo nella zona industriale di Bari, un concentrato storico di lavoro, progetti e contraddizioni nato agli inizi degli anni Sessanta grazie ai contributi della Cassa del Mezzogiorno e sotto la regia del Consorzio di Sviluppo Industriale, un organismo pubblico impegnato nella promozione e nella localizzazione di iniziative produttive sul territorio.

 

Storia e sviluppo dell’industria barese

I primi insediamenti arrivano tra il 1961 e il 1964, con l’avvio dei cantieri per la costruzione di grandi imprese manifatturiere pubbliche e private come la Breda Fucine Meridionali, la Manifattura Tabacchi e la Pignone Sud. Un viaggio di oltre mezzo secolo nel tempo, nella storia e nello sviluppo di questa terra, che tra vertenze, reindustrializzazioni, cessioni e chiusure, negli anni ha visto la zona industriale attrarre investimenti e nuovi insediamenti produttivi.

Così, dal ‘66 al ‘75 arrivano Philips, Fiat, Osram, Alco-Palmera, Bosh, Riv-Skf (oggi Skf Industrie) e Firestone Brema (oggi Bridgestone-Firestone). Un incremento industriale al quale, però, si accompagna la sottrazione di fette sempre più consistenti di terreno all’agricoltura locale. Quello compreso tra il ’75 e il ’95, invece, è il ventennio che registra il progressivo passaggio nella zona industriale della piccola e media impresa, favorito sia da processi di delocalizzazione dai centri urbani che da nuove iniziative imprenditoriali di operatori locali.

Maturano anche le grandi imprese. Nei primi anni Novanta, un giovane e brillante fisico del Centro ricerche Fiat di Bari, Mario Ricco, inventa il common-rail, la tecnologia che rivoluzionerà la trazione sui motori diesel. Da quel momento in poi la zona industriale di Bari inizia a parlare tedesco, attirando sempre più l’interesse dei grandi gruppi dell’automotive mondiale. Fiat, infatti, cede il brevetto della nuova tecnologia diesel alla tedesca Bosch, che nella zona industriale barese apre una fabbrica con oltre duemila dipendenti. Nel 1996, dalla Germania arriva anche la Getrag, una importante industria metalmeccanica specializzata nella produzione di sistemi di trasmissione per auto. Multinazionali di grande valore che, insieme alla Magneti Marelli, portano alla realizzazione di un sistema virtuoso: la base per la messa in moto un circuito di multinazionali autoctone come Masmec di Michele Vinci, specializzata in robotica per automotive e biomedicale, e la Mermec di Vito Pertosa, leader nella produzione di automotrici diagnostiche per il sistema ferroviario, vendute in tutto il mondo.

Nella stessa area convivono pezzi d’eccellenza capaci di attrarre investimenti anche nel campo della farmaceutica, come la Merk Serono. E marchi di aziende storiche che stentano ad avere un futuro, come la ex Om che, passata nelle mani della Kion, vede chiudere lo stabilimento barese con lo spostamento ad Amburgo della produzione di carrelli elevatori: da oltre sette anni, circa duecento operai sono in balia di promesse, tentativi di reindustrializzazione, annunci e cassa integrazione in deroga.

Dopo la crisi degli ultimi anni, invece, tornano a recuperare terreno la Bridgestone e la Bari Fonderie Medionali (Ex Breda), ora Rfi, che vive una nuova stagione con l’acquisizione da parte della Rete Ferroviaria Italiana. Nella storica azienda siderurgica barese si produce l’“acciao al manganese” un pezzo d’eccellenza, cuore degli scambi ferroviari.

 

Un comparto solido, ma in disarmo

L’industria metalmeccanica di precisione e la meccatronica barese, da sole, sono state così capaci di portare il sistema Puglia a reggere persino i contraccolpi delle congiunture economiche negative dell’ultimo periodo. «Il valore aggiunto territoriale evidenzia una tenuta della produzione della ricchezza industriale soprattutto nella medio-grande impresa (+0.6%) che nell’area della Puglia centrale vede concentrarsi oltre il 70% dell’incremento locale», spiega Leo Caroli, presidente della Task Force Regionale per l’occupazione, commentando la relazione del secondo semestre 2018 elaborata dal Sepac, il Comitato Monitoraggio Sistema Economico Produttivo ed Aree di Crisi della Regione Puglia. «La crescita rallenta ma non si arresta. La Regione Puglia consolida la sua dinamica positiva di crescita in due settori strategici dell’economia regionale, la meccanica di precisione e l’agroalimentare, che insieme alla filiera trasporti continuano a sostenere gran parte della spinta alla crescita della ricchezza regionale nel secondo semestre 2018».

Tornando alla zona industriale di Bari, però, che guida in solitaria la resistenza pugliese alla crisi, proprio la Getrag, attualmente passata nelle mani dei canadesi della Magna, rappresenta l’ultimo grande investimento straniero sul territorio, con un migliaio di addetti e nuovi progetti di rilancio per la produzione di sistemi di trasmissione per auto di ultima generazione. Tutt’intorno, infatti, sono evidenti i colpi di coda della lunga crisi economica e produttiva nazionale, con cicatrici e ferite ancora aperte all’intero comparto industriale.

«Il vissuto di questi anni e le tante vertenzialità individuali e collettive – spiega Saverio Gramegna, segretario provinciale della Fiom Cgil – hanno manifestato una condizione abbastanza diffusa territorialmente e generalizzata nei tratti caratteristici: il disinvestimento in tecnologie, in innovazione di processo, in formazione delle maestranze e in mancata diversificazione dei mercati e dei clienti, il cui risultato, rispetto alla crisi, è stato lo spiazzamento e la chiusura o il ridimensionamento».

 

Le macerie della classe operaia e il rilancio della zona industriale barese

Così capannoni abbandonati, opifici dismessi e strade deserte e polverose si alternano al nuovo che avanza, mentre una buona parte dei suoli ricadenti nella zona Asi restano bloccati da contenziosi e burocrazia. Qui, tra segnaletica incompleta o assente, si alternano pezzi vetusti di archeologia industriale, buoni solo a risvegliare tensioni ideologiche e ricordi persi nella storia e nella memoria di una classe operaia barese fortemente ridimensionata dalla crisi, sia nei numeri che nelle rivendicazioni. Alla Sirti, in via delle Violette, sventolano bandiere rosse di una organizzazione sindacale e un manichino vestito da operaio è la rappresentazione moderna di un presidio non stop di lavoratori. Ricadute locali di una ben nota vicenda nazionale in cui la Sirti ha dichiarato un piano di esuberi di 833 lavoratori su 3692. «Noi diciamo no a questo piano scellerato», urlano i lavoratori. «Non si può scaricare su di noi una condizione che il mercato ha generato, cercando di recuperare marginalità e profitti sulla nostra pelle».

Rivendicazioni che conservano il sapore amaro della lotta di classe, una parola che nel lessico delle nuove generazioni di operai ha perso il suo valore antico. Per ritrovare un po’ di memoria sindacale basta accedere alla zona industriale dalla strada statale 96, l’arteria, per intenderci, che collega Bari a Matera. Impegnata la corsia di destra, seguendo la freccia si arriva in vista dello stop. È qui che il primo sguardo apre le porte a un viaggio nel tempo, incrociando a pochi metri i cancelli verdi e blu delle Officine Calabrese, storica azienda metalmeccanica a suo tempo specializzata nella costruzione di rimorchi e ribaltabili. Chiusa nel 2004, attualmente la vasta superficie ospita un agglomerato di lamiere e una cooperativa di ex dipendenti. Mera archeologia industriale. È sempre più evidente come la politica locale debba iniziare considerare, per il futuro della zona industriale, anche il riuso e la valorizzazione ecosostenibile dei tanti suoli abbandonati e dei capannoni vuoti. Anche per questo la Città Metropolitana di Bari ha finanziato un piano di investimenti strategici da 15 milioni di euro per rendere la Zona Industriale Bari-Modugno un’area ecologicamente attrezzata.

Il 20 febbraio 2018, infatti, si giunse alla sottoscrizione di un Protocollo d’Intesa che impegnava il Consorzio Asi e la Città Metropolitana di Bari ad attuare nella zona industriale nuovi interventi in servizi, infrastrutture, mobilità, viabilità, sicurezza e aree a verde. Il tutto rivolto alla creazione di un’area produttiva, paesaggisticamente, ecologicamente e socialmente attrezzata, con rinnovata capacità di attrarre investimenti. L’intesa recepiva, con la condivisione dei territori Asi, i risultati di uno studio promosso dalla Bosch Tecnologie Diesel SpA con il coinvolgimento di cinquanta imprese ed enti locali. Uno studio che ha contribuito attivamente a definire gli interventi necessari da eseguire nel breve e medio termine per il rilancio dell’area industriale.

 

Il rinnovamento e le istanze ambientaliste

Ne è convinto Danilo Sciannimanico, Assessore alle Attività Produttive del Comune di Modugno, il paese dell’hinterland barese il cui sviluppo urbano è stato nel tempo soffocato e fortemente condizionato dalla morsa della zona industriale e dall’inquinamento prodotto. «La rivitalizzazione della zona industriale passa dalla riconversione sostenibile dell’esistente, non dal consumo di nuovo suolo», spiega l’assessore.

Un’idea che sposa in pieno le istanze ambientaliste e di sostenibilità ambientale promosse da una rete di associazioni locali di Bari e provincia, unite per impedire l’insediamento nella zona di nuove aziende inquinanti. Un movimento civico che parte da lontano, sin dai primi anni del 2000, e che inizia con una battaglia persa, la prima, contro Sorgenia, che nel cuore della zona industriale di Bari installò una contestata centrale Turbogas.

Poi tra ricorsi, proteste e contestazioni, una lunga serie di battaglie vinte. Cittadini e associazioni di Bari e dei paesi dell’hinterland uniti contro una discarica per rifiuti speciali che la Lombardi Ecologia voleva insediare sulla strada statale 96. Per impedire l’insediamento dell’inceneritore Ecoenergia del Gruppo Mercegaglia in via dei Fiordalisi, a ridosso di lama Misciano, in una zona già sottoposta a vincolo paesaggistico e archeologico. Poi, ancora, contro l’arrivo nell’area industriale delle industrie chimiche Ecofuel e Biochemtex, dell’ennesimo inceneritore proposto dalla curatela fallimentare dell’ex Olearia Pugliese, ancora sulla strada statale 96. E ora contro la Newo, una new company che, tra proteste e ricorsi, vorrebbe realizzare nell’area industriale barese un impianto sperimentale di ossicombustione riconducibile a un inceneritore per rifiuti speciali e non.

«Dodici anni di lacrime e sangue in cui ci si è spinti al limite dell’immaginario con battaglie vere e sentite, esclusivamente nell’interesse delle collettività», spiega Tino Ferrulli, coordinatore dei comitati civici baresi e vicepresidente del Comitato No Inceneritore di Bari. «Riteniamo che la tutela ambientale e della salute sia un diritto che nessuno può calpestare in nome del profitto. Nel territorio dell’Hinterland Barese, costituito da una zona industriale tra le più grandi d’Europa, non è pensabile minimamente continuare a rilasciare autorizzazioni senza il minimo coinvolgimento delle popolazioni interessate. L’indice di consapevolezza finalmente si è innalzato».

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