La logica dello spogliatoio

Il più grande lettino dello psicanalista puzza di fatica, fango e balsamo di tigre. Ha le panche in legno e, per i paganti di prima classe, la poltrona autografa “sconto comitiva”. Tra lo stucco della ceramica che corre a terra e sui lati si nascondono lacrime e rabbia, gioia e illusione. “È lo spogliatoio bellezza”, […]

Il più grande lettino dello psicanalista puzza di fatica, fango e balsamo di tigre. Ha le panche in legno e, per i paganti di prima classe, la poltrona autografa “sconto comitiva”.
Tra lo stucco della ceramica che corre a terra e sui lati si nascondono lacrime e rabbia, gioia e illusione.
“È lo spogliatoio bellezza”, traduzione italiana dall’impronunciabile tedesco Gemeinschaftsgefühl, null’altro che lo “spirito di solidarietà”. Perché far parte di uno spogliatoio è psicoterapia di gruppo, necessaria quanto spietata. Non si alleggerisce solo l’imbarazzo dello “stare al mondo” ma si punta, faticando, a un obiettivo: il Torneo della parrocchia, il Campionato italiano, i Mondiali.

“Non esiste differenza tra gli spogliatoi di una grande squadra e di una piccola – chiarisce subito Giovanni Cornacchini – contano onestà, coerenza e capacità di compattare il gruppo facendosi, a volte, odiare”. L’uomo, già allenatore dell’Ac Ancona, è testimone della parabola del calcio: nel 1991 in squadra nel “Milan degli insuperabili”: Van Basten, Gullit, Baresi, Maldini. In panchina, dopo le prodezze di Arrigo Sacchi, un antipatico per missione: Fabio Capello. È la stagione del Milan campione a sconfitte zero, la prima macchina da guerra collaudata dallo stesso Capello
Dieci anni dopo, 2001-2002, Cornacchini è alla Cagliese calcio, squadra che ha consumato, e consuma, polveroni in aree di rigore di provincia. Nel mezzo il Perugia di Luciano Gaucci, tra i primi in Italia – anno 1999 – ad aprire uno spogliatoio maschile a una donna. Era la Viterbese consegnata nelle mani di Carolina Morace.

A fare la differenza, secondo Cornacchini, è proprio la capacità di trovare un nemico comune per serrare il gruppo nella logica del “tutti fuori o tutti dentro”.
Campione indiscusso della strategia dell’odio mirato è lo “Special one”, Josè Mourinho da Setùbal, Portogallo, l’autore del triplete (Champions League, Campionato, Coppa Italia) con l’Inter nel 2010, e prima con il Porto, anno 2004.
In una lunga carriera di nemici veri e finti, tutti indispensabili per distrarre giocatori e stampa, Mourinho si è fermato davanti a quello più inatteso: Eva Carneiro, medico del Chelsea, unica donna con delega illimitata a entrare nello spogliatoio dei Blues. Una vicenda partita con una tirata d’orecchi dell’allenatore allo staff medico, per un intervento in campo con la squadra in inferiorità numerica, passata attraverso la defenestrazione della Carneiro e del fisioterapista Fearn, gli insulti di Mourinho alla donna, un risarcimento milionario del Club e le scuse.

La chiave di volta dei sanitari è quella usata senza dubbio alcuno da Carlo “Charlie” Recalcati, 71 anni, monumento vivente del basket italiano, allenatore della nazionale Argento ad Atene 2004 e degli scudetti con Bologna, Varese e Siena, tra i pochi ad averli centrati con più squadre. “Scegliersi i collaboratori giusti – dice – è fondamentale. Il più importante è il fisioterapista, è quello che vive sempre lo spogliatoio e sotto le sue mani i giocatori si lasciano andare a confidenze e malumori. Se è intelligente riesce a essere mediatore tra la pancia della squadra e le richieste dell’allenatore. I successi di un gruppo partono da qui”.
Prima del fisioterapista psicologo, però – prosegue Recalcati – c’è il leader: “Non deve essere il giocatore più forte”. Ma come si fa a riconoscerlo? “Lo capisci subito, è quello che quando parla fa calare il silenzio in uno spogliatoio rumoroso. A volte gli stessi leader non sanno neppure di esserlo e sta a me trovarli”.
Il coach cita il leader per definizione: Giacomo “Jack” Galanda, colosso di 210 centimetri, ala pivot della nazionale, per anni “spalla” dietro la porta dello spogliatoio dell’allenatore milanese: “Era talmente bravo – ricorda Recalcati – che sapeva anticiparmi. Nei momenti più difficili mi diceva: Coach dammi 10 minuti per parlare con la squadra. In assoluto uno degli atleti più intelligenti”.
“Charlie” si spinge anche oltre facendo una lista che sa di 50 anni di esperienza per la gestione di uno spogliatoio.

Regola numero uno, metabolizzare i momenti brutti, riconoscerli, ammettere le debolezze del singolo per superarle, e crescere tutti insieme: “E’ il momento che trasforma una squadra di talenti in una vincente”.
Poi varcare “quella porta” il meno possibile: “Bisogna dare allo spogliatoio la libertà di potersi sfogare, anche con parole forti”.
Quindi, nella stessa idea di Cornacchini-Mourinho: “Diventare odiosi per compattare il gruppo”.
Per concludere “intervenire in maniera dura al massimo due volte in una stagione. I giocatori vanno trattati bene, ma se occorre un intervento farlo in modo deciso”.

L’equilibrio sta nel saper trattare i grandi campioni e i gregari: “I primi sono difficili da gestire – spiega Cornacchini – perché ti pesano ogni secondo. Ma è necessario essere coerenti, trattando nella diversità tutti allo stesso modo”.
L’eccezione si chiama Francesco Totti, simbolo della Roma, più volte scontratosi con l’allenatore Luciano Spalletti che aveva sbottato: “Sono stanco di certe combriccole”, per poi ammettere: “Gestirlo è difficile ma è una risorsa importantissima”, dopo un gol salva-partita contro il Torino. “Senza una società alle spalle, un allenatore con Totti, da solo, non può farcela”, il ragionamento di realismo calcistico di Cornacchini.

Oltre le strategie c’è solo il vuoto, il non raccontato, il silenzio prima di una gara. L’unico che lo ha descritto è mister Open, il tennista americano Jimmy Connors: “Sono stato negli spogliatoi di recente con cinque top players. Non si è sentita una parola in venti minuti. Quando sono uscito, ho detto “È stato un piacere parlare con voi colleghi”.

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