La supply chain, dalle caverne ai muri di Trump

Le supply chain esistono da quando gli uomini primitivi cacciavano gli animali per lavorarne e vedere le pelli; Marco Polo andò in Oriente in cerca di una rotta commerciale per portare merci in Europa; l’invenzione dei container, intorno alla metà del secolo scorso, ha dato forte impulso al commercio, grandi scatole di misure standard, trasportabili […]

Le supply chain esistono da quando gli uomini primitivi cacciavano gli animali per lavorarne e vedere le pelli; Marco Polo andò in Oriente in cerca di una rotta commerciale per portare merci in Europa; l’invenzione dei container, intorno alla metà del secolo scorso, ha dato forte impulso al commercio, grandi scatole di misure standard, trasportabili facilmente attraverso vie di comunicazione intercambiabili, consentono di distribuire merce in tutto il mondo: la gestione del flusso di prodotti tra fornitori e clienti è supply chain, ma questo concetto si è rivelato in tutto il suo peso economico con la globalizzazione.

Il saggista statunitense Thomas Friedman, nel suo libro The world is flat chiama questo fenomeno “appiattimento del pianeta”: in un mondo unico non fa più differenza dove produci le tue merci e dove le rivendi, la rete degli scambi si amplifica, la tecnologia la rende più veloce, le opportunità di sviluppo si diffondono e paesi un tempo arretrati emergono dalle secche che ne hanno bloccato per anni la crescita.

Una catena lunghissima, spesso impensata

Gestire la supply chain in questo contesto non è semplice, i fattori che entrano in gioco sono sempre più complessi e le competenze richieste sono sempre più elevate. E’ indispensabile saper bene ciò che si deve fare, perché le inefficienze di una supply chain mal governata hanno ripercussioni pesantissime sull’economia dei singoli paesi, e non solo.

Con il terremoto che nel 2011 colpì il Giappone e il conseguente maremoto, tutto il mondo focalizzò la sua attenzione sulla popolazione direttamente colpita da quel terribile evento, ma fu chiaro, dopo qualche settimana, che le conseguenze non sarebbero rimaste circoscritte ai confini geografici giapponesi. Tutti i più importanti quotidiani economici del mondo misero in luce gli effetti negativi sull’economia mondiale, “Il terremoto distrugge le Supply Chain fondamentali” (Wall Street Journal) oppure “Le multinazionali si allarmano per le forniture giapponesi “ (Financial Times) e anche “Il disastro blocca la Supply Chain mondiale” (Los Angeles Times): insomma, era subito apparso evidente a tutti che un mercato unico azzera le distanze e che ostacoli al libero scambio di merci e servizi hanno conseguenze pesanti.

La supply chain supera la geografia

In pratica siamo tutti interdipendenti e connessi, e questa connessione costringe le supply chain ad evolversi assumendo un ruolo più strategico. Parlando da esperto di supply chain corro il rischio di sembrare di parte, ma basta un esempio a dare la misura di quanto un flusso libero e ben gestito di beni e servizi lungo tutta la catena produttiva sia funzionale alla crescita economica e al business delle aziende: un colosso come DHL si è reso disponibile a formare gratuitamente il personale delle dogane dei paesi in via di sviluppo, per ridurre gli ostacoli ai confini tra stati e rendere più fluidi e veloci gli scambi. In questo modo le aziende possono dedicarsi completamente al loro prodotto, senza disperdere energie nelle attività di acquisto delle forniture e di distribuzione.

Multinazionali e grandi aziende concentrano sempre di più le loro sedi lungo le vie di comunicazione fisiche o virtuali: il Nafta, North American Free Trade Agreement, il trattato di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada, ha determinato la concentrazione di importanti multinazionali e aziende di varie parti del mondo lungo il corridoio che unisce i tre Paesi e, sempre di più, queste realtà economiche si identificano come appartenenti ad una supply chain anziché ad un paese. L’esempio del Nafta non è casuale: le politiche del neo eletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump minacciano di rivedere l’accordo di libera circolazione delle merci, in nome di un protezionismo che dovrebbe salvaguardare gli Stati Uniti. Senza voler entrare in giudizi di carattere politico, lo scenario descritto prima delinea in modo chiaro quale potrebbero essere le conseguenze della costruzione di muri, reali o virtuali che siano.
Le organizzazioni delle aziende più efficienti non sono compatibili con ostacoli alle loro forniture e ai loro prodotti in entrata o in uscita. Nell’industria possiamo dire che difficilmente un oggetto, I-phone o autovettura che sia, rappresentino una pura identità territoriale, ma sono frutto di una supply chian che coinvolge molti paesi.

Cosa si andrebbe a proteggere allora con i muri e chi si vorrebbe punire?

Il confine tra questi due opposti obiettivi è molto labile, perchè si rischia di danneggiare, in realtà, chi si vorrebbe salvaguardare. Perchè ciò che conta sempre di più,è la supply chain, sono i flussi di prodotti e servizi, il sistema di scambi. Oggi, se ho bisogno di un prodotto, posso uscire a comprarlo in negozio, ma posso anche restare comodamente a casa e su internet scegliere ciò che mi serve e mi piace, facendomelo poi spedire. Spesso, dietro questo sistema di acquisto, c’è un colosso che sta influenzando l’intera supply chian mondiale. Questo colosso si chiama Amazon.

Dalla invenzione dei container è passato più di mezzo secolo e ci troviamo di fronte ad una nuova rivoluzione: una rete di magazzini capillare e immensa che permette a qualsiasi acquirente, in qualsiasi parte del mondo, di avere in meno di 24 ore ciò che desidera. Questi sono maestri della supply chain e, per le aziende, essere in quel circuito o in un sistema ugualmente efficiente, è fondamentale; non esistono più competitor, esiste un’organizzazione che riesce a far vendere qualsiasi prodotto, di qualsiasi gamma, perché la domanda non è circoscritta a un territorio, ma è mondiale e i bisogni sono molteplici. Per essere in quel sistema, le aziende dovranno adeguare la loro organizzazione, migliorando la loro efficienza.

Una supply chain che funziona non ha confini e ostacoli, e fa girare l’economia. Facile a dirsi, meno a realizzarsi, se ci troviamo di fronte a scenari in cui la tentazione è quella di chiudersi per sentirsi più sicuri.
Ma la conseguenza, oltre alle tensioni tra grandi potenze, potrebbe essere un disagio economico e sociale ancora più grave, se è vero che protezionismo e sussidi sono un ostacolo alla distribuzione della ricchezza, uno dei pericoli globali più preoccupanti.

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