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Editoriale 72 – Marche Tremanti
Anche se il mare ti bagna per centottanta chilometri di costa, non ti conviene navigare a vista. Dovresti fare esattamente il contrario sfruttando la dimestichezza coi venti, mostrando umiltà con le correnti e disegnando buone strategie; diversamente, i rischi non si contano. Le Marche, che negli ultimi dieci anni si sono dovute leccare qua e […]
Anche se il mare ti bagna per centottanta chilometri di costa, non ti conviene navigare a vista.
Dovresti fare esattamente il contrario sfruttando la dimestichezza coi venti, mostrando umiltà con le correnti e disegnando buone strategie; diversamente, i rischi non si contano.
Le Marche, che negli ultimi dieci anni si sono dovute leccare qua e là più e più ferite, stanno attraversando il mare in balia. Sono cresciute in fretta e crescere in fretta ti squilibra e ti scolla anche un po’ dalla realtà. Nei passaggi con poche sfumature di tempo c’è tutto il brivido tanto irresistibile quanto pericoloso di uno sviluppo accelerato.
I marchigiani dovrebbero ormai saperlo che l’essere intraprendenti e industriosi ha bisogno sì di ingegno ma anche di coraggio. La tenacia nel lavoro non è il coraggio di portare quel lavoro aldilà del tuo sforzo perché non c’è matematica tra fare ed osare. Con la paura non costruisci, tanto meno ricostruisci.
Se si parla di imprenditoria e di industria, sono innegabili i risultati messi a segno in regione dagli anni ’70 ad oggi ma altrettante sono state le conseguenze sottovalutate nel lungo periodo: ora che il lungo periodo è arrivato, vale la pena fare due conti e dare qualche nome e cognome.
Io negli anni ’70 ero una marchigiana appena nata ma mio padre aveva già un’azienda e produceva materie plastiche. In casa, per tutti, era la fabbrica. Crescendo, mi ricapitolò non pochi passaggi della cultura industriale a cavallo con gli ’80, quando il benessere era alla portata di molti per non dire tutti. Erano gli anni in cui la ricchezza andava ostentata e benedetta e allora mi divertivo ad ascoltarlo mentre mi raccontava della nostra Fiat 850 bianca con cui andava alle riunioni dell’Associazione Industriali prima che iniziassero a chiamarla tutti Confindustria.
Erano maturi gli anni della piccola-media impresa marchigiana che si faceva modello col supporto dell’economia locale, gli anni dei distretti che avrebbero fatto scuola senza pensare ingenuamente al futuro, gli anni della potenza infiltrante dei Merloni a braccetto con la politica, della Fabriano in corsa verso il boom ma pur sempre senza discoteche perché di bianco non c’erano solo gli elettrodomestici ma pure la Chiesa: l’unica fede richiesta era il sacrificio, la testa bassa, la rinuncia, la fatica, la cura nel mestiere, in un certo senso l’obbedienza.
Ballare avrebbe distratto gli operai.
A guardarla col riverbero degli anni, viene da dire che la mezzadria da semplice contratto agrario si sia fatta prendere la mano e che i marchigiani stessi abbiano iniziato a vivere da mezzadri non solo sui campi ma anche coi sentimenti e l’autostima.
Abituati un po’ alla volta a cedere pezzi di sé – addirittura una metà – quei pezzi non sono più tornati indietro e si sa che il corpo ricorda, la memoria immagazzina, il comune sentire si adatta, la cultura sovrappone le consuetudini alle convinzioni finché non diventano per tutti una realtà.
Marchigiani e sensi di colpa si frequentano da lunga data e lo Stato pontificio – altro padrone, nei secoli dei secoli – continua ancora oggi a incassare gli interessi.
Le Marche tremano di una paura che non si chiama codardia ma insicurezza: che peccato davanti a tanto ingegno e operosità.
Non si trema solo per le scosse. Nelle Marche si trema spesso davanti al passo un po’ più lungo che si vorrebbe e si potrebbe fare ma manca mentalmente la spinta ardita, il sangue freddo. Non serve la prodezza, basterebbe più audacia. Terra di imprenditori e di rischi d’impresa – chi lo nega? – ma investire su un’identità è molto più complesso e noi di identità abbiamo sempre peccato. Piuttosto che valorizzare competenze interne abbiamo sistematicamente delegato fuori confine: Milano per la comunicazione, la Toscana da imitare nel turismo, Pesaro rispetto ad Ancona, l’Est rispetto all’Ovest.
Quando a giugno 2017 Senza Filtro aderì ad un progetto di supporto per le attività commerciali e industriali sfiancate fisicamente e psicologicamente dalle scosse più infami del 2016, andammo proprio a Visso nel cratere dell’epicentro. Con la redazione incontrammo quelle persone in carne e ossa. Carne e ossa e macerie, a dire il vero. Nonostante il vuoto della ricostruzione e nonostante la terra non si desse da sotto ancora pace, quei marchigiani non mollavano l’osso del proprio recinto. La logica del “se lui, allora io” strozza qualsiasi senso di comunità e non si sta parlando di solidarietà, che è un’altra cosa. Davanti a un terremoto che livella storie e persone, il “se lui, allora io” non dovrebbe neppure fiatare.
Mi tornò in mente la domanda che feci nel 2004 a Luciano Agostini, in quegli anni Assessore regionale al turismo. “Quale tipo di comunicazione potrebbe servire alle Marche per aprirsi finalmente al turismo?”. “Se fosse per me, farei uno spot in dialetto strettissimo marchigiano facendo parlare una vecchietta di qualche paesino sperduto nella provincia di Ascoli. Lo spot risulterebbe incomprensibile, così verrebbe poca gente e noi marchigiani potremmo goderci da soli tutte le nostre bellezze”.
Assessore regionale al turismo.
Le Marche industriali, da nord a sud, col tempo si sono fatte grandi di numeri e fatturati e fama senza minimamente pensare a una cultura manageriale seria che durasse nel tempo e nel tempo parasse i colpi. Troppe piramidi padronali, poca formazione, troppi vertici, poca squadra. La parcellizzazione delle tre attuali Confindustrie su una regione medio piccola racconta che siamo ancora intossicati.
Una regione orfana del suo capoluogo non può che diventare terra di nessuno e un domani rischiare di farsi persino merce di scambio. Per intuire dove le Marche culturalmente stiano andando, l’occhio andrebbe spostato verso sud, sempre sottovalutato sempre declassato come ogni sud del mondo. Terra di scarpari: sento appellarle così da quando sono piccola, tutte le zone intorno a Fermo e Macerata finché un Della Valle non alzò vertiginosamente l’asticella costringendo i mercati internazionali a guardare proprio lì. Nemmeno noi marchigiani eravamo capaci di dirci bravi da soli, tra di noi, pur davanti a simili successi. Il baricentro su Civitanova Marche oggi fa intuire il perno più attendibile di un’espressione culturale nuova che costringe finalmente i marchigiani a parlarsi tra di loro: lì, soltanto lì, sta rinascendo una pelle che potrebbe sembrare nuova senza le puzze del passato. Lì si stanno mischiando gli stranieri, i lavori, i modelli familiari, le religioni, le razze, le piazze. Soprattutto stranieri che cercano di integrarsi senza potersi permettere “se lui, allora io”.
Finiti i distretti, in crisi le scarpe e ingrate le banche, è tempo di lavorare su un sentire comune e non più da mezzadri per indole. Con centottanta chilometri di costa non puoi navigare solo a vista e intanto devi stare attento pure alla risacca che, di tutte le correnti, è tra le più insidiose. Il metodo migliore per uscirne incolumi è nuotare parallelamente alla costa, risparmiare il fiato, non strafare cercando di raggiungere subito la riva, risparmiare le energie perché quel riflusso alla lunga sfianca e chiede tempo ed è meglio uscirne passandogli di lato. L’intraprendenza ha bisogno di più tattica.
C’è tanta risacca nelle Marche ormai da anni e la pressione spinge: non c’è più tempo per tremare, almeno in ciò che dipende da noi come persone e sperando che Madre Terra, da là sotto, ce la mandi ancora buona. C’è tanta bellezza in queste Marche e la paura non può continuare a rugarle il viso.
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