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Non chiamatelo spirito sabaudo
Parli di Torino e delle sue imprese e puoi star certo che qualcuno evocherà lo “spirito sabaudo”. Forse qualcosa di vero c’era, un secolo fa. Oggi è un trito stereotipo, per di più parecchio sviante. Le imprese torinesi e piemontesi hanno poco a che fare con l’ottuso rigore dei Savoia, per inciso una delle peggiori […]
Parli di Torino e delle sue imprese e puoi star certo che qualcuno evocherà lo “spirito sabaudo”. Forse qualcosa di vero c’era, un secolo fa. Oggi è un trito stereotipo, per di più parecchio sviante. Le imprese torinesi e piemontesi hanno poco a che fare con l’ottuso rigore dei Savoia, per inciso una delle peggiori dinastie regnanti che il mondo ricordi. Sarebbero invece piaciute al filosofo e teologo Tommaso d’Aquino, che nella Summa Theologiae, opera capitale per il mondo medievale e per la cultura occidentale, utilizza il temine “austerità” – parola che a noi evoca severità e rigore di vita – in un’accezione particolarmente adatta a descrivere lo spirito più profondo che anima il lavoro del Piemonte contemporaneo.
L’austeritas del Piemonte imprenditoriale
L’austeritas – scrive Tommaso – è la virtù che non escludit omnes delectationes, non esclude tutti i piaceri, sed superfluas et inordinatas. In altre parole ci distoglie dai piaceri inutili e disordinati. L’austerità ha a che fare con l’affabilità, la compostezza, la cortesia che si usa nel parlare e nel trattare con gli altri. Riguarda l’eutrapeliam e la jocunditatem, cioè la capacità di sostenere un dialogo e la sorridente accoglienza. L’austerità è quindi la virtù che ci tiene lontani da quanto corrompe le relazioni interpersonali e guasta il nostro rapporto con il mondo: il becero narcisismo edonistico, il diffuso sovranismo psichico, l’enfatizzazione identitaria che sembra oggi contagiare e travolgere una certa Italia.
Le imprese piemontesi, quelle che il luogo comune associa al grigiore del produttivismo e all’efficientismo serioso, hanno nel loro DNA la più pura austeritas di Tommaso. Vi si respira un rifiuto del superfluo e del caotico, non per spirito penitenziale o per rigorismo calvinista, ma per coerenza esistenziale. Nel loro carattere aziendale si avverte un desiderio di sana concretezza, la voglia di arrivare al sodo senza perdersi per strada, evitando di correre dietro al triviale, all’effimero, all’inutile, o peggio, al falso.
Qualcosa che si ritrova anche nella struttura viaria di Torino, con il suo reticolo di corsi perpendicolari. Che non deve trarre in inganno: non manifesta tanto opprimente rigore, quanto invece semplice rifiuto del superfluo. Nella geometria della sua viabilità si percepisce la tensione ideale di un intero tessuto sociale e produttivo: seguire la via più semplice e diretta per arrivare a ciò che nella vita conta per davvero.
Le imprese piemontesi, disseminate in un territorio che si appoggia da una parte al corpo massiccio delle Alpi e dall’altra alle grasse colline del vino, raccontano la durezza dell’anima contadina e l’ancestrale spirito della terra. Pietre, rocce, zolle. Elementi con cui non si può barare, dimensioni dove la finzione non è ammessa.
Imprese piemontesi di ieri e di oggi
Adriano Olivetti, immenso portatore di austeritas, dall’alto della sua Ivrea non guardò con interesse a Torino e al Piemonte. Il suo sguardo andava a Milano, e da lì al mondo. Ma erano tempi, gli anni Cinquanta, in cui il modello Fiat, questo sì sabaudo fino al midollo, copriva Torino e la sua provincia con una cappa di rigorismo autoritario e livellante. Non era un ambiente dove potesse liberamente scorrazzare lo spirito visionario di Olivetti, eppure le sue idee, e la forza del suo modello di impresa, a Torino e nel circondario hanno bene attecchito; forse con ritardo, ma con la forza di ciò che matura nel tempo. In particolare nel settore della meccanica. E non poteva che essere così.
La meccanica, qui ancor più che altrove, è il più “austero” settore del Made in Italy, il meno smargiasso e teatrale. Idee e acciaio fusi insieme. Mente e materia a misurarsi senza compromessi, oggi come nell’antro di Efesto. E proprio in Piemonte nascono consorzi di imprese meccaniche che attirano nella loro orbita realtà produttive di altre regioni, forse spinte qui dal sentore di austeritas in cui si riconoscono.
Prendi un’azienda meccanica come la Cast. Oltre 200 dipendenti, nuovo, grande stabilimento che sta per sorgere al confine tra la provincia di Cuneo e di Torino. Un’azienda che produce snodi per tubature ad alta pressione, lucenti pezzi d’acciaio che, a dire degli operai, hanno “un cuore segreto”. L’ha fondata e la guida Francesco Ronco, imprenditore piemontese di puro sangue taurino. Venuto su dalla gavetta, in azienda, forse proprio grazie all’azienda ha oltrepassato brillantemente il traguardo degli ottant’anni. Ti parla del suo lavoro con il candore di chi crede in ciò che fa e in ciò che dice. “I nostri raccordi sembrano comunissimi pezzi di acciaio. Solo se li si osserva da vicino se ne scopre la bellezza e la complessità. Certo per ottenere questi capolavori tecnologici bisogna impegnarsi a fondo, investire in impianti, curare la formazione dei tecnici, avere una cultura per la perfezione quasi maniacale”. Da lui senti dire con austero candore che “certe cose vanno fatte semplicemente perché è giusto farle”. E in fabbrica trovi un welfare aziendale di tutto rispetto, promosso semplicemente “perché è giusto”, seguendo il principio che la via più breve per unire due punti è sempre la retta. Questione di geometria del fare. Questione di austeritas.
Prendi un’azienda come la Samec. La guida Nicola Scarlatelli, di puro sangue molisano. Radici sannitiche, genti dure, ribelli. Una storia di immigrazione alle spalle. La fabbrica ereditata dal fratello e fatta crescere nel culto dei lari e dei penati con spirito idealmente pragmatico. Il lavoro della terra adottato a metro del fare, con ritmi e tempi fatti di pazienza e rispetto dei cicli naturali, ma per far maturare bracci meccanici per la robotica. Prodotti realizzati con l’intelligenza delle mani, nel più puro stile artigiano. “Nell’azienda – ci svela Nicola – abbiamo una fondamentale componente di tipo tradizionale che troppo spesso viene ignorata: è la sensibilità nel sentire dal rumore della macchina se lavora bene o no, il tatto per sentire se il pezzo sta venendo della giusta ruvidità”. Con un’attenzione costante alla sana convivialità e ai buoni piaceri della vita, a quelli che la sera davanti a un bicchiere di vino ti fanno sentire parte di qualcosa, ben riuscito perché fatto insieme. “Il lavoro è una ricchezza generata dalle persone che ti circondano: i collaboratori, i clienti e tutta la società nella quale viviamo. Siamo legati alla storia del nostro paese, alle persone che hanno creduto alla possibilità di riscatto attraverso il lavoro, alla possibilità di raggiungere condizioni sociali ed economiche migliori, all’opportunità di essere tutti un po’ più felici”. Semplice, pulito, onesto, come l’acciaio ben lavorato. Tutta questione di austeritas.
Austerità e mutismo: la comunicazione che piange
Tutto bene, quindi? Purtroppo no. La quasi totalità delle imprese del settore – quelle citate sono tra le poche eccezioni – confonde la buona, sana, necessaria comunicazione d’impresa con lo sfoggio di sé. L’austeritas di Tommaso si fa sedurre dal demone sabaudo. Le imprese meccaniche piemontesi sono piuttosto mute: scambiano la sobria modestia, che le rende grandi, per il silenzio monastico, che le rende anonime. Perdono così la grande occasione di andare sul mercato internazionale attrezzate con il loro imponente capitale intangibile: un saper fare che è anche una chiara e inconfondibile arte di vivere. Non riescono ancora a comprendere che non basta dare un’anima all’acciaio se poi quell’anima non viene opportunamente narrata e trasmessa al cliente, al quale l’austeritas non arriva, e quindi il più delle volte non ne comprende il grande valore aggiunto.
Chi poi salta il fosso e osa raccontarsi rimane sorpreso, quasi turbato per gli effetti della buona comunicazione, come si trattasse di magia non del tutto onesta e permessa. Come Francesco Ronco, che confessa: “Sa, abbiamo realizzato con la partecipazione di tutti gli operai una nostra Carta Etica. L’abbiamo portata con noi in Germania, ai nostri clienti tedeschi. Si è un po’ sparsa la voce. E oggi, roba da non crederci, prima ci chiedono di dare un’occhiata alla Carta e solo dopo al nostro catalogo prodotti”. Già, questione di austeritas.
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