Produttività e sostenibilità, tra ossimori e luoghi comuni

Secondo il rapporto United Nations Brundtland Commission del 1983, la sostenibilità può essere definita come “il soddisfare le necessità e fabbisogni presenti senza compromettere alle generazioni future di poter soddisfare i loro”. La sostenibilità non si limita alla semplice riduzione del nostro impatto sull’ambiente, riguarda le persone e la loro qualità di vita. Secondo questo approccio, […]

Secondo il rapporto United Nations Brundtland Commission del 1983, la sostenibilità può essere definita come “il soddisfare le necessità e fabbisogni presenti senza compromettere alle generazioni future di poter soddisfare i loro”. La sostenibilità non si limita alla semplice riduzione del nostro impatto sull’ambiente, riguarda le persone e la loro qualità di vita. Secondo questo approccio, definito “Triple bottom line”, le strategie e gli investimenti delle aziende dovrebbero rispondere agli obiettivi di equità sociale, rispetto dell’ambiente, efficacia ed efficienza economica.

Com’è ben noto, la produttività invece è il rapporto tra la quantità di output e le quantità di uno o più input utilizzati nel processo di produzione. Un aumento di produttività può essere visto, genericamente, come un risparmio di input in termini fisici, sia esso dovuto a progresso tecnico, miglioramento dell’efficienza produttiva ricollegabile ad economie di scala, riduzione della capacità produttiva inutilizzata o ad altro. Tra le voci più importanti di questi input troviamo necessariamente il lavoro, il capitale umano. Si è più produttivi (quindi efficaci ed efficienti) se nello stesso tempo di prima si riesce a produrre di più, o per inverso, se si riesce a produrre lo stesso di prima in meno tempo.

Ecco quindi che le triple bottom line della sostenibilità entrano di diritto nel discorso sulla produttività. A parità di quantità (e qualità) di output si risparmiamo materie prime (input), quindi si va verso un maggior rispetto dell’ambiente (minor consumi di energia, di acqua e di minerali, minori emissioni in atmosfera, produzione di rifiuti e così via). Lavorando meno (in linea con quanto auspicato da Serge Latouche, il profeta della decrescita) si ha più tempo libero da impiegare per se stessi e per la propria qualità della vita. Quindi migliori risvolti sociali. Ammesso però di vivere in un luogo dove ci si possa distrarre e godere dei benefici dell’era moderna. Un minatore di Chuquicamata (la più grande miniera di rame a cielo aperto del mondo, situata in Cile) avrà poco da godere dal maggior tempo libero a disposizione, perché continua a vivere in una baracca polverosa in mezzo al nulla. Ma del resto concetti come sostenibilità e produttività non fanno al caso dei paesi in via di sviluppo, sono dottrine post moderne, quindi prettamente occidentali (giusto per la precisione).

Tutt’oggi per la maggior parte dei manager aziendali, i benefici della sostenibilità (ambientale) sono legati principalmente alla reputazione, quindi utili per strizzare l’occhio al mercato, non alla reale consapevolezza che bisogna far qualcosa per ridurre l’impronta ecologica dell’uomo sul pianeta. Per cui ecco tutto il fiorire di certificazioni e bollini verdi da esporre sulle carte intestate, sulle confezioni dei prodotti e sui siti internet. Ma anche quando ci fosse (e c’è anche stato) un significativo sforzo per “fare qualcosa per l’ambiente” si sono ridotti sicuramente gli input e gli output della produzione, ma non gli outcome (cioè i risultati).
Ecco due esempi chiarificatori e illuminanti sull’ossimoro insito nella parola “sviluppo sostenibile”. L’economia ha le sue regole e di per sé non può essere ecologica, in quanto alla base c’è la produzione e quindi il consumo di risorse (e energia). Le materie prime sono (notoriamente) limitate quindi l’economia mangia il futuro.

Come fa a essere sostenibile? Perché inquina meno? Ma un’impresa ha lo scopo di fare profitto, quindi produrre al massimo delle capacità possibili, quindi inquinare/consumare di più (anche se, in proporzione, meno di prima). La dimostrazione è nei numeri: la dematerializzazione è un processo in atto nella produzione industriale da anni, nel senso che, come detto, si riesce a produrre lo stesso bene impiegando meno materia prima. Le prime lattine per bibite da 33 cI, costruite in tre parti di acciaio avevano un peso di 50-60 grammi. Poi vennero le prime lattine in alluminio in due pezzi che avevano ridotto il peso a circa 20 g. ciascuna; oggi si è arrivati a 14 g. l’una. Ma la produzione è aumentata nel tempo, raddoppiando, triplicando, con la nascita di nuovi mercati, per cui alla fine l’erosione delle materie prime e il consumo di energia è andato crescendo, non diminuendo (è il cosiddetto Paradosso di Jevons o effetto rebound). La questione non riguarda solo l’apertura di nuovi mercati esteri, ma anche l’espansione dei mercati interni: il consumo di bevande gassate negli Stati Uniti è cresciuto da 22 galloni pro capite del 1970 a 54 galloni del 1998.

Questo ossimoro non interessa solo il processo industriale, la catena di montaggio, ma anche attività ritenute, erroneamente, immateriali. Quante volte abbiamo sentito i guru dell’informatica profetizzare l’avvento di una società senza carta, la cosiddetta de-materializzazione dell’informazione. Perché i nuovi supporti digitali come hard disk, Dvd e chiavette varie ci avrebbero liberato dalla dipendenza cartacea. Non è stato così. Non solo siamo rimasti grandi utilizzatori (qualche volta addirittura eccessivi) di carta stampata, ma adesso i dati li memorizziamo anche su Internet.

Andando a intasare anche il web e aumentando i consumi energetici dei migliaia di server sparsi nel mondo (il famoso clouding, la nuvola informatica). Una ricerca del 2010 della Camera di Commercio di Milano basata sul registro delle imprese e dati Ceris-Cnr, rivelava che ogni anno negli uffici italiani vengono utilizzati 239 miliardi di fogli (pari a 458 milioni di risme, cioè 1.195.000 tonnellate di carta). Con un costo per le imprese di 1,7 miliardi di euro. Le più “sprecone” sono quelle della provincia di Roma con 108 milioni di euro, seguite da quelle di Milano (96), Napoli (76) e Torino (69). La produttività negli uffici è cresciuta grazie all’uso dei computer ma ha causato un consumo incredibile di risorse: non solo carta, ma anche toner (o cartucce) per stampanti, fotocopiatrici, ecc. Trent’anni fa un impiegato che sbagliava un accento o un numero in un documento, dopo averlo scritto a macchina (probabilmente su una Olivetti Linea 98) lo correggeva con il correttore (o bianchetto) perché riscriverlo da capo era improponibile. Oggi se si sbaglia, si ristampa tutto il documento, con un semplice click. Con le macchine da scrivere un nastro di inchiostro (bicolore) durava mesi e costava relativamente poco e pur di risparmiare, lo si riavvolgeva al contrario per utilizzare anche l’altro lato (molti giovani non sanno neppure di cosa stia parlando). Oggi, con le periferiche multifunzione e dal design tipo guerre stellari, per molti modelli in circolazione, costa più l’inchiostro che la stessa stampante (la quale spesso finisce direttamente nel bidone della spazzatura).

Chiudo il concetto con un ultimo esempio, dove produttività e sostenibilità si sfidano quotidianamente in campo aperto. Mi riferisco all’agricoltura (e comparti affini, come la zootecnia), dove si è assistito ad un aumento vertiginoso di produttività per ettaro coltivato. Questo grazie a nuove tecniche agrarie, all’introduzione di sementi selezionati (e in parte anche agli OGM), all’uso massiccio di fertilizzanti e prodotti fitosanitari in generale o alla meccanizzazione del processo.
Se prendiamo il riso, dal 1700 ai primi dell’Ottocento la produttività italiana era di 13,5 quintali per ettaro. Nel 1870 era salita a 20 quintali. Nel 1900 da un ettaro si ottenevano circa 25 quintali, dagli anni ’30 fino alla fine degli anni ’70 se ne ricavano mediamente 50 e nell’ultimo ventennio del XX secolo le rese hanno mediamente quasi raggiunto i 60 quintali per ettaro. In compenso nuove stime della FAO sui gas serra mostrano che le emissioni da parte dell’agricoltura, delle foreste e della pesca sono quasi raddoppiate negli ultimi cinquant’anni e potrebbero aumentare di un ulteriore 30 per cento entro il 2050. Solo negli ultimi dieci anni le emissioni climalteranti del comparto agricolo sono passate dai 4,7 miliardi di tonnellate equivalenti di biossido di carbonio (CO2 eq) a oltre 5,3 miliardi di tonnellate. Cosa c’è di sostenibile in tutta questa produttività?

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