Ristoratori: essere o non essere (in crisi)?

Il COVID non ha fatto domande prima di colpire. È arrivato senza chiedere e si è fermato dove ha trovato terreno fertile; ha attraversato continenti senza fare differenze di razza o classe e ha costretto sul lastrico famiglie e aziende. Il mondo della ristorazione è tra i settori più colpiti. Ma quello che ci siamo […]

Il COVID non ha fatto domande prima di colpire. È arrivato senza chiedere e si è fermato dove ha trovato terreno fertile; ha attraversato continenti senza fare differenze di razza o classe e ha costretto sul lastrico famiglie e aziende.

Il mondo della ristorazione è tra i settori più colpiti. Ma quello che ci siamo chiesti è: il post-pandemia, qualsiasi numero si si voglia dare alla fase che stiamo attraversando ora, si sta mostrando ugualmente irriverente e noncurante delle differenze? Oppure, nel mondo del post, le diversità tra grandi e piccoli, città e periferie, strutture articolate e realtà teoricamente agili, vengono esaltate avvantaggiando gli uni a discapito degli altri?

Per scoprirlo abbiamo parlato con due ristoratori, Valentina e Lorenzo, rispettivamente titolari de “La Zeriba”, un ristorante a conduzione familiare in una piccola cittadina ciociara (407 recensioni su Tripadvisor e una media di 4,5 punti su 5) e, a un centinaio di chilometri di distanza, di “Pierluigi”, uno storico locale capitolino che è luogo di riferimento per le celebrità hollywoodiane di passaggio nella città eterna (quasi 2.000 recensioni sul portale con un media di 4 su 5).

Ci hanno raccontato le loro esperienze nel periodo della pandemia e di come stanno cercando di affrontare il presente. Due storie diverse tra loro, che seppur accomunate dall’abbattersi della stessa crisi si somigliano solo a tratti. L’incidente scatenante è lo stesso, ma personaggi diversi reagiscono in modo diverso, facendo i conti con il loro passato e con il loro contesto, non lasciandoci la possibilità di immaginare un medesimo finale.

 

 

Valentina e Lorenzo, che cosa ha significato il lockdown per la vostra attività?

Valentina: Il nostro ristorante ha 33 coperti. Ora possiamo ospitare al massimo 14 persone, ma dopo due mesi di chiusura capita che non riusciamo neanche a fare numeri così esigui. La domenica specialmente si fermavano per pranzo molti dei turisti che venivano a visitare Alatri; ora dobbiamo affidarci a un pubblico locale, ma il risultato è che nello scorso week end abbiamo preferito restare chiusi perché non avevamo prenotazioni. Purtroppo abbiamo perso il miglior periodo dell’anno e adesso viviamo sulla capacità attrattiva della nostra città, che, complice ovviamente la situazione generale, è molto bassa.

Lorenzo: La nostra azienda ha 60 dipendenti, che a marzo che si sono ritrovati tutti in cassa integrazione. Ora abbiamo ripreso con un terzo di loro e con un terzo dei clienti, aprendo solo per cena così da contenere i costi e ottimizzare il lavoro. Purtroppo anche le direttive politiche sono tutt’altro che chiare. Se non rinnoveranno la cassa integrazione straordinaria per il COVID dovremo reinserire tutto l’organico all’attivo, che però lavorerebbe pochissimo. Sarebbe un controsenso. Da un punto di vista dei clienti invece la storia ha avuto due risolvi: da una parte siamo tornati a essere di “proprietà” esclusiva degli italiani, perché sono l’unica clientela disponibile; dall’altra Roma è tornata a essere un po’ paese di provincia. Senza turisti anche la capitale diventa come una qualunque città.

Com’è lavorare con le restrizioni?

V.: Faticoso. Però la cosa che mi pensa di più non è la fatica fisica che si fa con il servizio al tavolo, ma il non poter interagire con le persone. Da noi il clima che le persone respirano è tutto. Privarli di un abbraccio o di un sorriso, perché coperto dalla mascherina, è la limitazione più grave per una realtà come la nostra.

L.: I decreti non spiegano niente: quando teoricamente si può fare tutto significa in realtà che non si può fare, e quindi non devi fare niente. Noi come operatori di questa azienda adottiamo le mascherine Fpp2 non solo nel rispetto dei clienti, ma anche nel rispetto della squadra, perché nel caso in cui dovesse trasparire un contagio all’interno del locale dovremmo mettere in quarantena tutta l’azienda per due settimane e la ricaduta sarebbe catastrofica.

La clientela è cambiata?

V.: Le prime due settimane di apertura le persone non sapevano cosa fare. Entravano e ordinavano con la mascherina; ero io a dirgli che potevano toglierla. Da circa un paio di settimane invece sembra essere tutto finito. È rimasta solo la mania del gel. Ho cambiato già un alto numero di dispenser, che se aggiunti a tutte le altre spese di adeguamento iniziano a incidere su un bilancio come il nostro.

L.: Fuori c’è anarchia totale. Per questo è fondamentale organizzare bene gli spazi come i nostri. Poi la gente non conosce il decreto, non ha capito che non sono io che decido se sono congiunti o no; la multa, eventualmente, la fanno a loro e non a me, ma questa è un’altra storia. Le persone si baciano e si abbracciano come se non fosse successo nulla. Da un punto di vista più economico, se vogliamo, le frontiere chiuse con gli USA, il Brasile e la Russia ci hanno privato dei turisti high spender.

La situazione si è mai complicata a tal punto da farvi pensare a una chiusura definitiva?

V.: Sì, certo. Considera che prima del COVID stavamo seriamente pensando di spostarci in un locale più grande, ma ad aprile ci siamo visti costretti a chiamare il commercialista per chiedergli di avviare le pratiche di chiusura. Poi è arrivata una telefonata dalla redazione di “4 Ristoranti”, il programma Sky con Alessandro Borghese, con la quale ci chiedevano se saremmo stati disponibili a essere tra i concorrenti di una puntata dedicata alla Ciociaria, e da lì è tornato un po’ di coraggio, la voglia di stringere i denti e continuare. Ora stiamo affrontando i vari step di selezione e speriamo di essere tra i quattro locali selezionati. Sarebbe un’occasione d’oro non solo per noi, ma per tutta la città. Abbiamo riposto qui le nostre speranze per continuare.

L.: No, mai. Pierluigi rappresenta troppo per Roma, e Roma è casa nostra. Siamo un’azienda che non molla l’osso così facilmente. Certo, siamo stati anche bravi e fortunati, ma i risultati sono positivi. Sia chiaro, siamo ai minimi storici per una realtà come la nostra, ma le 100 persone che ogni sera vengono da noi stanno superando le aspettative. Ora lo scopo è confermare questi risultati per i mesi a venire e poi tornare a crescere. In questo momento si potrebbe investire bene e con costi più bassi, ma se dovessi scommettere un solo euro ora non lo farei di certo sul turismo italiano. Gli alberghi a Roma sono occupati al 10%, i catering sono a zero. Insomma, c’è poco da discutere.

Le istituzioni come si sono mosse?

V.: Ci sono arrivate le due tranche da 600 €, e due giorni fa ci hanno accreditato un contributo a fondo perduto di 1000 €. Salvo questi episodi, direi che la loro presenza è stata prossima allo zero. Siamo stati esclusi dai click day, e di un prestito richiesto per 25.000 euro ce ne hanno accordati 7.000. Anche il comune è stato assente. Ci ha promesso l’utilizzo del suolo pubblico gratuito per consentirci di estenderci anche all’esterno del locale, ma le pratiche burocratiche sono costate 400 €. Quello che non ho versato in imposte l’ho pagato in scartoffie. E poi abbiamo dovuto acquistare attrezzature: ombrelloni, staccionate, luci per esterni.

L.: In modo ridicolo. Quando obblighi a chiudere le aziende, che sono il volano del PIL italiano, lo devi fare con un portafoglio che ti permette di sostenerlo. Oltre il dramma, a febbraio c’erano tante realtà che avevano le carte in regola per vivere e sopravvivere con le loro forze e ora sono morte indebitate. Tutto l’impatto fiscale è stato confermato, le proposte parlano solo di credito d’imposta del quale ci si potrà avvalere l’anno prossimo. Oggi il bisogno è arrivare a domani, non al mese prossimo. Ad esempio: l’hotel “A Waldorf Astoria” ha 450 dipendenti e 300 camere; oggi ne avranno circa 20 occupate, e tutti i dipendenti da dover gestire. Te lo immagini che coraggio? A imprese così, come anche il St. Regis o il J.k. Palace, lo Stato dovrebbe fare un monumento, non imporgli una pressione fiscale del 67%.

Credi ci sarebbe differenza se lavorassi in un altro contesto?

V.: Credo che, mantenendo le proporzioni, chi è su Roma lavori più di noi. Qualcuno comunque si muove a livello turistico, anche piccolo ma un flusso c’è, le zone limitrofe lo garantiscono. Lo smart working ha ripopolato i paesini, ma chi lavora da casa difficilmente esce per restare all’interno dei confini cittadini.

L.: C’è differenza tra un ristorante come il nostro e uno di periferia. L’ecosistema in cui il ristorante in periferia è inserito da anni non è cambiato. Forse ci sono state delle mutazioni dal punto di vista economico, qualcuno ha dovuto ridurre le spese, c’è chi è in smart working e chi è in cassa integrazione, ma il loro bacino di utenza è rimasto lo stesso. Noi, essendo in centro, siamo stravolti.

Il futuro come si prospetta?

V.: Come detto la situazione è tutt’altro che facile. Vediamo cosa succede con “4 Ristoranti”; se non dovesse andare in porto si aprirebbero riflessioni serie, e probabilmente non felici. Anche il chiudere non sarebbe una soluzione perché un nuovo lavoro, oggi, in questo settore è difficilissimo da trovare.

L.: Agosto sarà un mese complesso. Roma si svuota, e visto il numero di turisti confermarci non sarà semplice. Sul medio-lungo periodo il discorso è diverso, tra le tante possibilità che si stanno creando c’è anche quella dell’internazionalizzazione per trovare un terreno più fertile rispetto all’Italia. Guardiamo anche in quella direzione.

Per concludere, per voi credi sia predominante la dimensione famigliare o quella di aziendalistica?

V.: Quella famigliare, con i clienti e tra noi tre (alla Zeriba, oltre Valentina in sala, lavorano in cucina il marito e la suocera, N.d.R.). Per fortuna siamo una realtà a gestione famigliare. Avessimo avuto dipendenti sarebbe stata ancora più dura.

L.: Siamo qui dalla mattina alla sera con la famiglia, ma siamo aziende, e dobbiamo essere rispettati come tali.

 

 

Photo by Stefan C. Asafti on Unsplash

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