Il caporalato: un fenomeno diffuso in tutta Italia, che riguarda anche gli italiani. Il caporalato migrante, tuttavia, è una piaga ben diversa: scopriamola.
Se le imprese italiane si ispirassero alle cover di Sanremo
Anche se essere “un italiano vero” ha un significato profondamente diverso da quello della versione originale, e anche se non c’è più “un partigiano come Presidente”, L’italiano tornerà sul palco dell’Ariston nella serata delle cover. Una delle più attese del Festival di Sanremo – è la puntata del giovedì – soprattutto per chi cerca nelle […]
Anche se essere “un italiano vero” ha un significato profondamente diverso da quello della versione originale, e anche se non c’è più “un partigiano come Presidente”, L’italiano tornerà sul palco dell’Ariston nella serata delle cover. Una delle più attese del Festival di Sanremo – è la puntata del giovedì – soprattutto per chi cerca nelle canzoni un contesto e un senso che va al di là del piacere di ascoltare una vecchia melodia.
Perché la canzone che torna sul palco in cui è già stata è molto di più di una cover. Basti pensare alla sintonia perfetta di alcuni testi con alcuni periodi storici del nostro Paese. Nel 1987, ad esempio, trionfò a Sanremo Si può dare di più, una canzone che parlava di solidarietà, dell’egoismo e dei vuoti di una vita dedita solo al lavoro e alla produzione “cosa ti manca, cosa non hai, cos’è che insegui se non lo sai”, dell’obbligo morale di “dare di più, senza essere eroi”. Quella canzone, a pochi mesi dalla caduta del muro di Berlino, sembrò rivoluzionaria eppure così educata, soprattutto perché a cantarla furono Gianni Morandi, Enrico Ruggeri e Umberto Tozzi. Oltre a vincere il Festival con una sorta di plebiscito (non mancarono le grandi canzoni in quella edizione, e non è un caso che Almeno tu nell’universo diventerà dei brani più coverizzati di tutti i tempi), diventò l’inno dell’allora nascente nazionale cantanti.
La ricetta era molto semplice: una canzone nazional popolare, un coro da stadio, la voglia di unirsi tutti quanti per fare qualcosa che smuovesse – o pulisse, a seconda dei punti di vista – le coscienze. Per molti anni Si può dare di più è diventata una canzone quasi banale, e nessuno si sarebbe mai sognato di cantare nuovamente di apertura e solidarietà senza metterci la rabbia e l’incazzatura che ci avrebbero messo circa trent’anni dopo Fabrizio Moro ed Ermal Meta in Non mi avete fatto niente. Eppure la politica di chiusura di molti Paesi europei, il razzismo che si palesa nelle discussioni sui social network, l’ostracismo verso forme di solidarietà come l’accoglienza, ha convinto Levante, Francesca Michielin e Maria Antonietta – già tre donne, a proposito di diversity – a ridare vigore a una delle canzoni più amate di Sanremo. E forse proprio il verso “risalendo vedrai, quanti cadono giù” potrebbe essere uno dei più simbolici della serata.
Il circolo virtuoso del presente che recupera il passato
Gli americani, ma prima ancora di loro gli all black neozelandesi, parlano di legacy. È l’eredità, la visione, la capacità di tracciare un solco. In questo senso la serata cover della manifestazione più nazionalpopolare che conosciamo ci fa capire il valore di un contenuto e del contesto che lo ospita.
Circa trent’anni fa, quando la memoria storica delle canzoni non era così vasta, la serata cover non esisteva. Al suo posto i primi duetti, con una peculiarità: il cantante in gara doveva farsi accompagnare da un artista straniero. Erano anni in cui Riccardo Cocciante, autore di Se stiamo insieme condivideva il palco con Dee Dee Bridgewater, e un monumentale Ray Charles si esibiva in Good love gone bad, traduzione de Gli amori di Toto Cotugno.
Il segnale che il Festival mandava al mondo era molto chiaro: stiamo lavorando per far diventare “Il Festival della canzone italiana” qualcosa di più ambizioso, di più internazionale. Ma presto avremmo dovuto fare i conti con un budget ridotto e forse anche con i gusti dei telespettatori, che preferivano le strofe in italiano a quelle, assai più ambiziose per l’epoca, in inglese. Restano reperti storici, si trovano su YouTube e negli archivi Rai, come l’esecuzione di Nikka Costa in All for the love, reinterpretazione di Vattene amore. Per i cantanti stranieri fu inventato il nuovo ruolo di super ospiti e la cover internazionale, dopo qualche anno, fu sostituita con la serata dedicata ai duetti.
Una bella intuizione, perché il featuring serviva (e serve) prima di tutto a moltiplicare i pubblici. Il rapper Marracash ne dà una definizione chiara e interessante, tra l’altro molto utile anche per il mondo del lavoro: “I featuring non sono attestati di stima. Non chiamo nel mio disco gli artisti che ammiro (non solo, e non tutti, almeno), ma quelli che possono aggiungere qualcosa alla traccia in cui sono ospiti, o che hanno talenti che io non ho”.
Al significato artistico si accompagna quindi il senso commerciale. I featuring nel rap ci sono sempre stati. Si tratta di un genere in cui la competizione e la stima artistica si mescolano e in cui collaborare è qualcosa di molto naturale. Una formula che funziona molto bene nel mercato del lavoro di oggi, un mercato fatto di collaborazione e competizione, uno scenario in cui la parola partner è più efficace della parola competitor e in cui c’è sempre, ed è forse l’unica vera opzione che abbiamo, la possibilità di rifare meglio una cosa già fatta.
T.S. Eliot diceva che “i poeti immaturi imitano; i poeti maturi rubano; i cattivi poeti rovinano ciò che prendono, mentre quello buoni ne traggono qualcosa di meglio, o almeno qualcosa di diverso”. Aggiungerei che se ci libera dal fardello di essere completamente originali si può smettere di provare a trarre cose dal nulla per accogliere le influenze invece di sfuggirle. Una lezione importante per i seguaci della novità a tutti i costi, che spesso sfocia nell’idea di start up innovativa, dove “innovativa” è sinonimo di vuota e nulla più.
Il valore delle cover a Sanremo. E in azienda
I duetti si sono successivamente trasformati in cover: le vecchie canzoni rassicurano, fanno cantare, ci ricordano momenti già vissuti e sono iper-contenuti. Ascoltare la nuova versione di E se domani ci permette di recuperare l’originale e crea un circolo virtuoso di ascolti e di diritti d’autore, aiutando anche le nuove generazioni, che certo non sono il target di Sanremo (ma i social servono anche a questo), a scoprire pezzi a loro sconosciuti.
La scelta del gruppo I Pinguini Tattici Nucleari va in questa direzione, non una sola canzone, ma un medley di brani che hanno fatto la storia del festival: da Papaveri e papere, portata in scena da Nilla Pizzi nel 1952, fino ad arrivare a una canzone in gara nella scorsa edizione, Rolls Royce di Achille Lauro. Anche per rendere storici brani moderni, perché in fondo anche il contemporaneo, è bene ricordarselo, può far parte della storia. Le Vibrazioni portano sul palco dell’Ariston Un’emozione da poco, canzone di Anna Oxa diventata iconica per un pubblico molto più radical di quello dell’Ariston, come i fruitori del film Lo chiamavano Jeeg Robot.
Sarebbe bello analizzare tutti i testi e la loro contemporaneità: scopriremmo probabilmente che alcune canzoni sono molto più attuali oggi di quando furono scritte (Jannacci su tutti, con Se me lo dicevi prima: “Eh sto male e sto bene macché il lavoro e mica il lavoro”), o che altre ci raccontano storie diverse da quelle di una volta. La radio trasmetterà anche nel 2020 la canzone che Amedeo Minghi scrisse per Serenella, e magari saranno ancora gli americani ad ascoltarla, fermando per un attimo quel tempo fatto di rivoli e di messaggi vocali o stories su Instagram che ormai sono parte integrante dei testi delle nostre canzoni di oggi. Né meglio né peggio: soltanto modi differenti di utilizzare il linguaggio e di valorizzarlo.
Dovremmo pensare a una giornata di cover anche nelle aziende: andare a riprendere vecchi progetti che hanno funzionato e far sì che diventino valorizzazione, approfondimento, riconoscimento, rielaborazione, mescolanza. Trovare nuovi interpreti e collaborazioni importanti, anche improbabili, senza dimenticarci mai di rendere omaggio all’autore di quel lavoro.
In copertina Achille Lauro sul palco dell’Ariston.
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