Selezione delle mie brame: qual è l’algoritmo migliore del reame?

Mi ha sempre fatto sorridere una storiella in cui una mamma domanda al chirurgo: “Dottore, dopo l’operazione alle mani, mio figlio potrà suonare il piano?” Il medico risponde: “Se non ci saranno complicazioni e dopo un periodo di riabilitazione, certamente sì!” E la donna, felice:”Che bello, non lo aveva mai fatto prima!” E’ stato straordinario […]

Mi ha sempre fatto sorridere una storiella in cui una mamma domanda al chirurgo: “Dottore, dopo l’operazione alle mani, mio figlio potrà suonare il piano?” Il medico risponde: “Se non ci saranno complicazioni e dopo un periodo di riabilitazione, certamente sì!” E la donna, felice:”Che bello, non lo aveva mai fatto prima!”

E’ stato straordinario ritrovarsi dentro la barzelletta, dopo aver fatto l’upload del mio curriculum sul sito di una primaria società che dichiara di mettere a disposizione dei suoi clienti i più sofisticati sistemi di head-hunting e selezione.

Grazie a loro, ho scoperto non solo di parlare il giapponese, ma anche di essermi laureato presso un ente di formazione e di possedere una certificazione che coincide con il nome di un’importante casa automobilistica.

Match tra il mio profilo e quello ricercato: 48%.

Non ho ancora capito se la lingua giapponese contribuisse ad elevare o peggiorare il ranking, ma confesso che lo sconcerto è stato totale. Mi sono però messo all’opera e in un’oretta di tempo ho sistemato manualmente, su un sito disastrosamente lento e mal costruito, tutte le inesattezze e i buchi che l’importazione automatica aveva generato. Ho fatto di più, ho scritto riservatamente e direttamente all’AD della società per segnalare il problema e invitarlo a trovare una soluzione.

Sapevo di non poter sperare in scuse, né in un ringraziamento, ma ammetto che confidavo in una pur semplice dichiarazione di ricezione: “Abbiamo ricevuto la sua segnalazione; provvederemo ad analizzarla”.

Nulla! Nessuna risposta. Nessun segnale di vita dall’empireo, dalle creature superiori che, avendo partorito il sofisticato sistema, non si sognano nemmeno di metterne in discussione la straordinaria validità di fronte al primo venuto.

Algoritmi sfasati e crisi di identità

Un caso isolato? Non direi. Se questo sito è talmente creativo da generare le caratteristiche dei candidati, altri peccano in modo diverso. Ti registri come direttore HR e arrivano proposte che vanno dal tirocinio all’elaborazione delle buste paghe. Sei laureato in economia e commercio? Via con la pioggia di ricerche di ingegneri.

Ho lavorato per quindici anni nel mondo delle risorse umane e so quanto ho desiderato avere un’applicazione che mi permettesse di individuare in modo automatico e rapido un ristretto numero di candidati su cui concentrare gli sforzi di selezione.

Ammetto anche che quando si ricevono centinaia di risposte è difficile trovare il tempo di leggere con la dovuta attenzione ogni curriculum e di comprendere se si è di fronte al miglior candidato, anche se non posso non sottolineare che, per le società di head hunting, le persone rappresentano la materia prima esclusiva e la loro unica ragione di esistere.

Sono, brutalmente, la loro unica merce da mettere in mostra e dovrebbero avere tutto l’interesse a conoscerle ed analizzarle preventivamente, per avere sempre pronto e disponibile quanto di meglio esiste sul mercato per ogni specifica esigenza dei loro clienti. Ma siamo in tempi di crisi e l’offerta supera abbondantemente la domanda. Le ricerche emergono quasi sempre all’ultimo momento e si deve arrivare a presentare una rosa ristretta in pochi giorni.

Vero, ma il sogno della valutazione in pochi clic dovrebbe fermarsi alla verifica della presenza di alcuni prerequisiti di base e, pur in un ambito così ristretto e definito, onestà intellettuale e correttezza verso chi cerca lavoro e verso i committenti, che pagano le ricerche, impongono che ci si affidi ad algoritmi (quanto odio l’uso smodato e improprio che si fa di questa parola) lungamente testati e validati e non a prodotti fallaci, sviluppati in modo evidentente superficiale e con metodologie inadeguate rispetto alle necessità.

La selezione giusta guarda al futuro del candidato

Come ricordava un autorevolissimo autore in un articolo apparso recentemente su un’altrettanto autorevolissima rivista del settore, la principale difficoltà di un processo di selezione non è quella di individuare il portatore delle migliori conoscenze ed esperienze passate, ma riuscire a prevedere le performance future del candidato. Nel contesto specifico in cui sarà inserito, in un mondo che cambia costantemente e velocemente. Qualcosa che, come sanno bene i tanti, onesti professionisti della selezione, non è valutabile con formule matematiche. Ma la moda dei Big Data impazza e un’azienda che non ne faccia uso e non sostituisca il computer al lavoro dell’uomo, non sarebbe trendy, né innovativa.

Conosco imprenditori e manager che al decimo numero in una presentazione soffrono acute reazioni allergiche, ma che, nonostante questo, si sono perdutamente convinti che generare e comprare dati numerosi come i granelli di sabbia sarà il toccasana per il loro business.

E’ come pensare di curarsi l’allergia al glutine facendosi una scorta di pasta in casa.

Allora mi domando: ma se non c’è tempo di analizzare a fondo i curriculum e occorre delegare questa attività alla rigida logica (per essere eufemistici) di un software, perché i siti delle società di selezione ti invitano comunque a registrarti, imponendoti di fornire per di più tutta una serie di dati assolutamente inutili? Perché far generare dati che nessuno mai leggerà?

 

Anziché essere costretti a cercare l’applicazione che analizza, filtra e sminuzza, non sarebbe più semplice provare a ridurre il numero delle risposte, circostanziando meglio le ricerche? Non sarebbe più semplice farla finita con la primaria impresa, leader nel proprio settore di riferimento che cerca manager entusiasti, creativi e capaci di automotivarsi e andare al nocciolo della questione, indicando con serietà e trasparenza ciò che si offre e ciò che si sta cercando davvero?

Eppure è più facile scimmiottare la moda del momento che interrogarsi se si sta davvero facendo e dando un buon servizio.

E’ più semplice nascondersi dietro alla complessità di un applicativo di ultima generazione che dover fare appello a fattori meravigliosamente ed esclusivamente umani come l’esperienza, la sensibilità, la capacità di comprendere a fondo le persone che abbiamo davanti.

Tanto, se poi il prescelto fallisse, varrebbe sempre una delle leggi di Murphy: se hai fatto qualcosa di sbagliato e sorridi, è perché hai qualcuno a cui dare la colpa.

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