Le regole prima del buon senso

Gi arbitri la chiamano “regola numero 18“, perché il regolamento del gioco del calcio, di regole, ne ha 17. In pochi, tra coloro che praticano questo sport così popolare nel nostro Paese, le conoscono come dovrebbero. Anni di moviole, lenti di ingrandimento sui singoli episodi, processi vari e poca cultura del regolamento. Dirigenti, allenatori e calciatori […]

Gi arbitri la chiamano “regola numero 18“, perché il regolamento del gioco del calcio, di regole, ne ha 17. In pochi, tra coloro che praticano questo sport così popolare nel nostro Paese, le conoscono come dovrebbero. Anni di moviole, lenti di ingrandimento sui singoli episodi, processi vari e poca cultura del regolamento. Dirigenti, allenatori e calciatori non conoscono le regole dello sport che praticano. Quindi del lavoro che svolgono. Passi per i tifosi, che comunque avrebbero tutte le possibilità di informarsi, ma poi dovrebbero ammettere che la loro squadra è stata inferiore all’avversario – e in ogni caso parliamo di un campione troppo ampio di persone – ma gli addetti ai lavori no. In primo luogo, perché conoscere le regole significa avere “padronanza” del gioco e del mestiere; in seconda battuta, perché in una competizione sempre più decisa dai dettagli, il regolamento può diventare tattica, e questo molti allenatori lo sanno, e quindi strategia. Discorso che vale, ad esempio, per la regola del fuorigioco. Diventata ormai una tattica offensiva laddove, soltanto venti anni fa, era un’applicazione difensiva. Le nuove norme sono garanzia di spettacolo, di un maggior numero di gol, e anche di brutte figure da parte di chi difende.

La regola numero 18, non scritta, è quella maggiormente chiamata in causa da tifosi, allenatori e calciatori: si chiama buon senso, e il luogo comune vorrebbe che fosse la panacea per ogni situazione, ma non è così. Il buon senso rischia di essere un pericoloso boomerang, per un arbitro, come per un tribunale. Il compianto Stefano Farina, ex CAN B, ex arbitro internazionale e grande comunicatore prematuramente scomparso qualche settimana fa, diceva sempre: l’arbitro non deve gestire, deve arbitrare.

Le regole, la delega, la fiducia

Un luogo comune, diffuso nel mondo del calcio, quanto quello del buon senso, dice che “l’arbitro bravo è quello che non si vede“. In realtà non è così, il gioco chiede presenza e padronanza delle regole. L’arbitro bravo, oggi, non è un “gestore della gara”, semmai un gestore di risorse umane prima ancora che uomo solitario y final; e nei momenti importanti si vede eccome. Prendiamo la nostra serie A, dove le partite sono dirette da 6 uomini: l’arbitro, due guardalinee, il quarto uomo (che si occupa prevalentemente delle panchine) e i due arbitri di porta che hanno il compito di controllare ciò che accade nelle aree di rigore. Dalla prossima stagione l’arbitro di area si trasformerà in arbitro video, grazie ad una innovazione tanto attesa chiamata VAR (Video assistant referee), di cui si è discusso molto già in altre sedi. Appare evidente come oggi, tra le capacità di un arbitro, debba esserci non solo la preparazione tecnica, ma anche la capacità di guidare un team. Prima di tutto una grande capacità di delega: se non si è sicuri di poter valutare un episodio – fattori decisivi possono essere la posizione, la visuale, l’area di competenza – bisogna fidarsi dei propri assistenti. La decisione finale deve essere quella giusta, ma anche la modalità con la quale viene presa è fondamentale. Sembra una banalità, ma in realtà non lo è: fino a qualche tempo fa era più importante la modalità della decisione corretta. Decidere rapidamente e senza controversie valeva più della scelta stessa. Oggi, con le moviole, l’episodio è diventato fondamentale e all’arbitro è richiesto, semmai, anche di prendersi più tempo. Decisioni prese e poi smentite generano sempre grandi polemiche. Se è vero che la capacità di delega è una dote, è altrettanto vero che l’arbitro è il leader, quello al quale spetta la decisione e la responsabilità finale. La VAR aiuterà ma sarà sempre un uomo, e non un computer, ascoltato il parere di un collega che può valutare il video, a vidimare con un fischio la decisione finale.

La tecnologia non segna il buon senso

Cosa conta di più in questi casi? Conoscere benissimo il regolamento o applicare il famigerato buon senso? Quale buon senso ha portato la Goal Technology, ovvero la tecnologia per la quale l’arbitro viene avvisato sul proprio orologio che il pallone ha varcato la linea di porta e che il gol è quindi valido? Nessuno. Ha portato certezze, non buon senso. Il giocatore corre dall’arbitro a protestare e lui gli mostra l’orologio che dice “È gol“. Nessuna polemica, nessuna discussione, nessun complotto. Nel calcio come in azienda, il buon senso è un prezioso alleato, ma va utilizzato con moderazione. Chiudere un occhio nei confronti di un giocatore che deve essere sanzionato con un cartellino giallo vuol dire automaticamente fare un torto all’altra squadra in campo. Fare finta di non ascoltare un insulto o una bestemmia vuol dire avvantaggiare la squadra che affronterà quel giocatore sette giorni dopo, e così via. Il buon senso va usato con grande moderazione, non è la panacea di tutti i mali, e non riguarda (almeno su un campo di calcio) situazioni tecniche. Non per niente è stato coniato dall’IFAB (International Football Association Board, l’organismo preposto ad approvare le regole valide in tutto il mondo) il concetto di “solidarietà arbitrale“. Il buon senso è nemico delle decisioni uniformi, degli arbitri che devono prendere le stesse decisioni nelle situazioni simili. La “regola 18” va invece nella direzione opposta.

È per questo che, sopratutto ai giovani arbitri, si insegna ad applicare il regolamento prima ancora che a lavorare su aspetti secondari come lo stile, la personalità, la capacità di leadership. Tutti elementi che vengono con il tempo e solo successivamente, dopo aver masticato per anni le regole. All’interno delle sezioni arbitrali si guardano video, si impara come prendere decisioni uniformi, si insegna che “il regolamento è uno” e che frasi come “ci può stare“, “non è uno scandalo” o “qui si potrebbe anche fischiare rigore” non vanno usate. Il regolamento del gioco non conosce il condizionale, è una rivoluzione lessicale prima ancora che tecnica. Grande merito va dato anche a trasmissioni televisive che vanno nella direzione opposta rispetto alla polemica gratuita (che resta il terreno preferito della maggior parte delle TV), come ad esempio “Regoliamoci” di Sky, pensato e condotto dal giornalista Lorenzo Fontani. Un ragazzo di grande carisma che non conosce il regolamento non sarà mai un grande arbitro. Viceversa, su una base tecnica solida, si può lavorare su altre skill. Il fattore tecnico e regolamentare, la corretta applicazione, il timing dell’intervento, restano aspetti prioritari della prestazione di un arbitro. Credo sia un esempio e una metafora valida per diversi ambiti lavorativi: si parla di motivazione, di leadership, di networking, ma spesso ci si dimentica che alla base di tutto ci sono le competenze.

Chiamatele regole, se volete. Qualunque sia il gioco in questione.

CONDIVIDI

Leggi anche

Andare a scuola non basta più alla formazione

Leggere, scrivere e far di conto: magari. Sembra che gli italiani siano in fondo alle graduatorie internazionali di rilevazione delle competenze linguistiche e matematiche. Se la cultura è ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto (Skinner), occorre interrogarsi su quali siano oggi le reali necessità formative perché i nostri giovani abbiano successo […]

Il Lato A di Laura Masi

Scarica il podcast della puntata. Laura Masi è una delle poche donne con ruoli di responsabilità nel mondo del calcio. Una carriera che l’ha vista dapprima per tanti anni al Milan per poi passare al Bayern Monaco fino al ritorno a casa, con la recente nomina di CEO di Firenze Viola e membro del board della Fiorentina. […]

Il segreto della segretezza in azienda

La libertà alla segretezza richiama i concetti di apertura e di chiusura, due estremi dentro cui le aziende spesso rimbalzano in una elastica indecisione e nello squilibrato equilibrio delle opposte polarità. Non spaventiamoci, però, per l’apparente contorsione sintattica: le aziende spesso dimenticano che loro stesse coincidono con chi ci lavora e altrettanto sovente i dipendenti […]