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<p>Sono ancora oltre 19.000 gli sfollati dei <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/il-terremoto-siamo-noi/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">terremoti del 2016 nelle Marche</a></strong>, la Regione più colpita dalle scosse, che ha riportato oltre il 50% dei danni. Sei anni dopo è ancora piena emergenza, prorogata di anno in anno per decreto dal Governo.</p>



<p>Di questi sfollati 13.400 sono della provincia di <strong>Macerata</strong>, che è stata danneggiata per circa il 65%. A sei anni di distanza solo nel maceratese ci sono ancora <strong>3.385 persone</strong> <strong>nelle</strong> <strong>soluzioni abitative di emergenza</strong>, le casette provvisorie destinate a durare al massimo dieci anni, termine illusorio con una <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/caporali-cantieri-terremoto-marche-yvan-sagnet/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">ricostruzione in gran parte da realizzare</a>.</p>



<p>Ci sono ancora <strong>262 persone nei container</strong>; attualmente il campo container più grande è quello di Tolentino, dove vivono ancora 127 persone. Il loro costo ammonta a una cifra compresa tra i 13 e i 15 milioni di euro secondo i dati dell’amministrazione comunale, prima per l’affitto, poi per l’acquisto del terreno e il riscatto dei container e la loro manutenzione. Il campo sarà chiuso a fine dicembre e diventerà un centro per la Protezione civile locale.</p>



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<h2 id="h-terremoto-nelle-marche-tra-macerata-e-macerie-c-e-poca-differenza-colpa-dell-incuria">Terremoto nelle Marche, tra Macerata e macerie c’è poca differenza: colpa dell’incuria</h2>



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<p>Per le soluzioni abitative di emergenza la Protezione civile nazionale, consapevole dell’alto rischio sismico dell’Italia, aveva pronto un appalto preventivo che però non è stato indenne da criticità. Le <strong>soluzioni abitative prefabbricate</strong> hanno mostrato i loro <strong>limiti</strong>: si sono dovuti rifare pavimenti e tetti, e sono sottoposte a una <strong>manutenzione continua</strong>; in diversi centri hanno dato luogo a problemi di muffa.</p>



<p>Nel cratere marchigiano resistono solide le <strong>casette di legno</strong> destinate agli sfollati del <strong>terremoto del 1997</strong>, che colpì duro tra Marche e Umbria, provocando solo un quinto dei danni rispetto al 2016, nelle Marche. Sono solide e in tanti hanno scelto di acquistarle e viverci: le distese ordinate dei villaggi in legno si trovano soprattutto a <strong>Serravalle di Chienti</strong> (Macerata), il Comune che fu praticamente raso al suolo, ma che è rinato come una fenice grazie a una ricostruzione da tutti indicata come un modello, gestita congiuntamente dal Centro operativo misto, che comprendeva Regione ed enti locali.</p>



<p>Le case ricostruite dopo il 1997 hanno resistito perfettamente a Serravalle di Chienti, mentre in altri centri si sono danneggiate di nuovo le stesse strutture del terremoto precedente. È un percorso a ostacoli, la <strong>vita dei terremotati</strong>, schiacciati dalla <strong>burocrazia</strong> imperante. Una volta l’anno devono presentare i documenti che attestano il mantenimento dei requisiti per continuare a stare nelle SAE o a percepire il contributo di autonoma sistemazione; devono attendere le peripezie parlamentari dei decreti governativi per sapere se le rate dei loro mutui relativi a case e attività inagibili saranno sospese per un altro anno; nel 2022 la proroga è arrivata in leggero ritardo e alcune banche dal primo gennaio hanno fatto scattare l’addebito della rata, salvo poi essere costrette a tornare sui loro passi da un decreto.</p>



<p>Persino le <strong>macerie</strong> da portare via <strong>non sono ancora terminate</strong>. Tanti borghi, paesi e frazioni devastati dalle scosse sono un fermo immagine di quanto accaduto quei terribili giorni dell’autunno del 2016. Cresce solo l’erba tra le crepe, imperversano ancora zone rosse, silenzio e distruzione. Il programma da <strong>5 milioni di euro di demolizioni</strong> che interessa centinaia di edifici nei centri tra i più colpiti delle Marche, con ben 17 interventi distinti tra <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/arquata-del-tronto-dopo-il-sisma-il-turismo-che-non-cera/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Arquata del Tronto</a>, Castelsantangelo Sul Nera, Visso, Ussita e Pieve Torina, sarebbe dovuto partire con il grosso degli interventi entro l’autunno. Di fatto è ancora in piena fase burocratica, con le gare in corso per affidare i lavori.</p>



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<h2 id="h-l-italia-delle-emergenze-ancora-in-corso-si-lavora-ancora-sui-terremoti-di-un-secolo-fa">L’Italia delle emergenze ancora in corso: si lavora ancora sui terremoti di un secolo fa</h2>



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<p>Le <strong>case ricostruite</strong> secondo i dati al 30 settembre scorso erano 4.937, pari all’<strong>11% degli edifici danneggiati</strong>. Sino a quella data sono state presentate 13.089 richieste di contributo, pari al 29% del totale degli edifici danneggiati, per una cifra che ammonta a 5,6 miliardi. I contributi concessi dall’ufficio speciale ricostruzione sono 3,2 miliardi. I danni di tutto il cratere del sisma del centro Italia ammontano a oltre 27 miliardi di euro; sino ad oggi ne sono stati spesi circa 4,8.</p>



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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/Orazi.png"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/Orazi.png" alt="" class="wp-image-53454" /></a></figure></div>


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<p>A causa dei terremoti, tra il 1962 e il 2018 <strong>sono morte 5.018 persone</strong>. Secondo i dati forniti dal commissario <strong>Giovanni Legnini</strong> a un seminario tecnico, ogni anno si spendono 3 miliardi di euro per ricostruire quelle zone d’Italia devastate dalle scosse, per un totale di 191 miliardi di euro di danni a prezzi correnti, dal terremoto del Belice in Sicilia nel 1968 sino ad oggi.</p>



<p>Attualmente, ha stimato Legnini, sono <strong>sette le ricostruzioni in corso</strong>, oltre al sisma del 2016-2017: la ricostruzione post sisma 2009 all’Aquila, quella di Ischia del 2017, <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/il-terremoto-in-emilia-non-ha-spezzato-le-imprese/">dell’Emilia-Romagna del 2012</a>, e inoltre in Molise, Mugello e Catania. A ogni terremoto le sue procedure e le sue regole.</p>



<p>È tuttora aperta, con ventimila pratiche pendenti presso la Regione, la ricostruzione post terremoto dell’<strong>Irpinia</strong>: a oltre quarant’anni di distanza, per completarla sono stati stanziati dalla Campania 120 milioni di euro; fino al 1991, anno della commissione di inchiesta guidata da Oscar Luigi Scalfaro, erano stati spesi 25,8 miliardi di euro.</p>



<p>A <strong>Messina</strong> è terminata un anno fa la demolizione delle baracche dove vivevano ancora circa 2.000 persone, eredità del terremoto del 1908.</p>



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<h2 id="h-la-corresponsabilita-dei-morti-nei-terremoti">La “corresponsabilità” dei morti nei terremoti</h2>



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<p>Tra i processi e le condanne conseguiti a queste vicende non è mai accaduto che le <strong>vittime</strong> abbiano tenuto un comportamento che le rende <strong>corresponsabili della loro stessa morte</strong>. Questo fino a pochi mesi fa.</p>



<p>Non più tardi dello scorso ottobre la giudice Monica Corsi del tribunale dell’Aquila, nella richiesta di risarcimento per un palazzo il cui crollo provocò 24 morti, ha avuto il coraggio di scriverlo testualmente nella sentenza. “È fondata l’eccezione di <strong>concorso di colpa delle vittime</strong>, costituendo una condotta incauta quella di trattenersi a dormire nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del sei aprile”, si legge nel testo, che stima un concorso di colpa del 30%.</p>



<p>Alle prime scosse, quindi, è il caso di precipitarsi fuori, perché se tutto crolla, chi rimane dentro sarà ritenuto responsabile dei danni e anche in parte della propria morte, secondo l’interpretazione che ha fatto indignare tante persone.</p>



<p>Questo gioco alla <strong>deresponsabilizzazione</strong>, il non stabilire mai le colpe, condanna l’Italia a rincorrere nel tempo un <strong>susseguirsi di emergenze</strong>, che in mancanza di una chiara cornice normativa permettono di derogare alle leggi ordinarie e dirottare fiumi di denaro per ottenere obiettivi urgenti, che spesso non sono risolutivi in un’ottica a lungo termine.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/Foto-di-Angelo-Giordano-da-Pixabay-2.jpg"><img width="1024" height="681" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/Foto-di-Angelo-Giordano-da-Pixabay-2-1024x681.jpg" alt="" class="wp-image-53250" /></a></figure>



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<h2 id="h-la-sicurezza-scolastica-la-sicurezza-di-tutti-ma-nessuno-pensa-a-prevenire">La sicurezza scolastica, la sicurezza di tutti. Ma nessuno pensa a prevenire</h2>



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<p>L’ipocrisia che grida vendetta è quella legata alla tragedia di <strong>San Giuliano di Puglia</strong>, dove una scossa di magnitudo 5.7 fece crollare il tetto della scuola elementare, alle 11.32 del 31 ottobre 2002. Morirono 27 bambini e la loro maestra, vittime della criminale noncuranza di chi costruì l’edificio, senza rispettare le minime norme di sicurezza.</p>



<p>Per quei bambini e per la loro maestra, sulla <strong>sicurezza scolastica</strong>, purtroppo non scorrono ancora i titoli di coda. Secondo i dati di Cittadinanzattiva non si conosce l’anno di costruzione del 26% delle scuole; il 42% è stato costruito prima del 1976; più della metà non ha l’agibilità (quasi il 58%) e nemmeno il certificato di prevenzione incendi (54%). In teoria gli edifici senza collaudo statico non si possono utilizzare, ma oltre il 41% delle scuole ne è sprovvisto.</p>



<p>La parola <strong>manutenzione</strong> è stata per anni una sconosciuta per gli enti locali; per decenni non si è mai investito per garantire la sicurezza del patrimonio edilizio scolastico. Nel 2021 i lavori di ristrutturazione hanno riguardato solo il 7% delle scuole esistenti. Migliaia e migliaia di cittadini sono inconsapevoli dei rischi che corrono e ignorano di vivere vicino a una bomba a orologeria.</p>



<p>Anche se non si può prevedere il momento in cui ci sarà un’emergenza da calamità naturale, <strong>prevenire investendo sui fattori strutturali</strong> del territorio di riferimento potrebbe essere una strada percorribile.</p>



<p>In questo senso <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/sisma-marche-la-politica-ha-fatto-utili-con-le-macerie/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">la <strong>politica</strong> è gravemente miope</a>. Lo dimostra la gestione del <strong>fondo per la prevenzione del rischio sismico</strong>, istituito con la legge 77 del 2009, costituito presso il ministero dell’Economia e delle Finanze e destinato a coprire gli interventi per la <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/i-bonus-e-il-peccato-originale-delledilizia-italiana/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">prevenzione del rischio sismico</a> su tutto il territorio nazionale. La prima parte, di 965 milioni di euro, ha coperto solo l’1% del fabbisogno totale per la messa in sicurezza degli edifici. Lo si legge nella sezione dedicata, sul sito della Protezione civile nazionale: “La spesa autorizzata è di 44 milioni di euro per l’anno 2010, di 145,1 milioni di euro per il 2011, di 195,6 milioni di euro per ciascuno degli anni 2012, 2013 e 2014, di 145,1 milioni di euro per l&#8217;anno 2015 e di 44 milioni di euro per il 2016. L’attuazione dell’art.11 è affidata al Dipartimento della Protezione Civile e regolata attraverso ordinanze del Presidente del Consiglio dei ministri. La cifra complessiva, che ammonta a 965 milioni di euro, pur se cospicua rispetto al passato, rappresenta solo una minima percentuale, forse inferiore all’1%, del fabbisogno necessario al completo adeguamento sismico di tutte le costruzioni, pubbliche e private, e delle opere infrastrutturali strategiche. Tuttavia, questa operazione consentirà la messa in sicurezza di altre strutture pubbliche proseguendo nei programmi già avviati dopo il terremoto di S. Giuliano di Puglia e potrà favorire un deciso passo avanti nella crescita di una cultura della prevenzione sismica da parte della popolazione e degli amministratori pubblici”.</p>



<p>Il fondo è stato rifinanziato con 50 milioni di euro per il 2019, briciole rispetto alla necessità di rendere più forti contro le scosse edifici pubblici e privati: meglio spendere tre miliardi l’anno per ricostruire in decenni dopo un terremoto che investire risorse per aumentare la sicurezza degli edifici e salvare le vite della gente.</p>



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<h2 id="h-i-regolamenti-comuni-per-le-ricostruzioni-restano-lettera-morta-nel-cassetto-del-governo">I regolamenti comuni per le ricostruzioni restano lettera morta nel cassetto del Governo</h2>



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<p>Un tentativo di dettare <strong>regole comuni per ricostruire</strong> è stato attuato per il cratere sismico del Centro Italia. Giovanni Legnini ha adottato il <strong>testo unico sulla ricostruzione privata</strong>, firmandolo il 15 dicembre 2022 e consegnando negli ultimi mesi del suo mandato anche la delega al Governo per scrivere il codice unico della ricostruzione, di cui finora non si vedono tracce nelle attività parlamentari.</p>



<p>A ogni<strong> emergenza</strong> <strong>in Italia</strong> c’è una certezza: <strong>si ricomincia da capo</strong>. Si piangono i morti, si attiva la Protezione civile, sfilano in passerella mediatica politici dei diversi schieramenti, si promettono provvedimenti mai attuati. E le tragedie si rinnovano, in una sorta di coazione a ripetere, determinata non dal fato o dall’ineffabile destino, ma dalla noncuranza umana, che a volte sfocia in omissioni criminali.</p>



<p>Ne sono un esempio due delle tragedie più recenti, le alluvioni a <strong>Senigallia</strong> e a <strong>Ischia</strong>, dove sono morte persone travolte dal fango.</p>



<p>Era il maggio 2014 quando il Misa, il fiume che scorre nel cuore di Senigallia inondò la città. Si parlò di realizzare una cassa di espansione in località Brugnetto, ma nulla è stato fatto e la tragedia, allora più contenuta con il conto di soli tre morti, si è ripetuta di fronte all’imprevedibilità di un nubifragio eccezionale.</p>



<p>Stesso film a Ischia: si stacca dal fronte della montagna un fiume di fango e travolge una trentina di case, dodici le vittime. Già un secolo fa, il 24 ottobre 1910, il Comune di Casamicciola fu colpito da un’alluvione, con il fango nato dal monte Epomeo, che causò tredici vittime. Un territorio di origine vulcanica fragile, su cui nonostante le conoscenze avanzate di quest’epoca si è continuato a costruire come se nulla fosse. Episodi che dimostrano come la collettività non impari quasi mai nulla dalle tragedie, per prevenire eventuali calamità e disastri nel futuro.</p>



<p>Eppure il <strong>dissesto idrogeologico</strong> non è un’ipotesi remota in Italia, ma interessa secondo l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione dell’Ambiente) oltre il 93% dei Comuni italiani, con <strong>1.300.000 persone</strong> che rischiano di essere coinvolte nelle <strong>frane</strong> (pari a 548.000 famiglie), e <strong>6.800.000 persone</strong> (pari a 2.900.000 famiglie) sono sotto la spada di Damocle delle <strong>alluvioni</strong>, secondo i dati del Rapporto ISPRA sul dissesto idrogeologico in Italia del 2021. Sono 565.000 gli edifici che si trovano in una zona molto pericolosa per frana, mentre sono un milione e mezzo quelli che rischiano di essere coinvolti in alluvioni.</p>



<p>Quante altre tragedie servono prima che cominciamo a prendere provvedimenti prima che i disastri siano avvenuti?</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/welfare/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Welfare</a></strong>.</em></p>



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<p><strong><em>In copertina e dentro l&#8217;articolo, foto di Angelo Giordano da Pixabay </em></strong></p>



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Emergenze, non sappiamo ricostruire altro che l&#8217;ipocrisia: qui stanno in piedi solo i crolli


<p>Hanno lavorato senza sosta durante questi due anni di <strong>emergenza sanitaria</strong>, mettendo a rischio la loro salute; più volte, soprattutto all’inizio della pandemia, sono mancati i presidi sanitari di protezione per evitare il contagio dal virus SarS-CoV2. </p>



<p>Non si sono risparmiati la presa in carico della salute pubblica del cittadino, pur gestendo turni massacranti, insieme alla paura di un’eventuale contaminazione – e alcuni, purtroppo si sono ammalati – a seguito di un’importante carenza di personale, aggravatasi durante la pandemia COVID-19. </p>



<p>Non si può non ricordare la foto simbolo di <strong>quell’infermiera, Elena</strong> – il suo nome è rimasto impresso nella memoria storica di tanti – addormentata sulla tastiera di un computer perché provata da diverse notti di fatica.</p>



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<h2 id="h-all-italia-non-mancano-eroi-ma-infermieri-piu-di-70-000-quelli-latitanti">All’Italia non mancano eroi, ma infermieri: più di 70.000 quelli latitanti</h2>



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<p>Sono stati chiamati <strong>eroi</strong>, e subito dopo dimenticati.</p>



<p>La fotografia attuale della <strong>professione infermieristica</strong> in Italia non è certo edificante. Secondo i dati <strong>FNOPI </strong>(Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche) <strong>mancano all’appello</strong> <strong>70.000 infermieri in tutto il Paese</strong>, con un’incidenza maggiore al Nord, dove la carenza è di 27.000 infermieri, rispetto al Centro, con circa 13.000, e al Sud e nelle Isole, con 23.500 professionisti in meno.</p>



<p>Analizzando i dati dell’<strong>OCSE</strong> presentati nell’ultimo rapporto <em>Health at a glance 2022</em>,in Italia per ogni 1.000 abitanti mancherebbero due infermieri, che in base alla popolazione, secondo i dati ISTAT 2022, “si tradurrebbe nella <strong>mancanza di quasi 118.000 infermieri</strong>”.</p>



<p>“In Italia”, commenta la presidente FNOPI<strong> Barbara Mangiacavalli</strong>,“abbiamo una professione infermieristica che soffre di un <strong>appiattimento organizzativo</strong>, <strong>formativo</strong> e <strong>contrattuale</strong>: una situazione che non ci possiamo più permettere. C’è bisogno di lavorare su un’evoluzione di questa professione, di formare infermieri specialisti, riconoscerne il ruolo giuridico ed economico. Senza tali presupposti non può esserci una risposta appropriata ai bisogni di salute complessi, e non ci può essere un sistema salute degno di questo nome”.</p>



<p>“Non si può continuare a parlare di ricette semplicistiche per affrontare e risolvere i problemi, perché il sistema è ormai complesso e servono analisi e strumenti di complessità. La tutela della salute non è più e non può più essere un problema di singole professioni, ma di un <strong>sistema multiprofessionale</strong>. Infermieri e infermieri pediatrici”, conclude la presidente, “hanno in questo senso metodi e strumenti di stratificazione del bisogno assistenziale, della complessità assistenziale, dei livelli di intensità assistenziale, degli strumenti e dei metodi di valutazione dei bisogni dei pazienti, del rischio cadute, del rischio infezioni, della capacità di orientarsi. Istituzioni e politica devono comprenderlo, e noi siamo disponibili come sempre a dare il necessario supporto”.</p>



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<h2 id="h-gli-stati-generali-della-professione-infermieristica-vogliamo-riconoscimento-a-livello-sociale-ed-economico">Gli Stati Generali della Professione Infermieristica: “Vogliamo riconoscimento a livello sociale ed economico”</h2>



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<p>Gli infermieri, durante questi anni così duri e svilenti, non si sono mai tirati indietro nell’assistenza al cittadino, pur sapendo che alla base il loro lavoro è in affanno da tempo. Per questo – ma non solo – durante gli <strong>Stati Generali della Professione Infermieristica</strong>, che hanno visto la partecipazione degli infermieri iscritti (460.000), sono state avanzate delle richieste affinché la professione abbia dei suoi riconoscimenti.</p>



<p>“Quello che è venuto fuori da questi Stati Generali è un lavoro durato nove mesi, dove noi infermieri iscritti, attraverso una piattaforma online, abbiamo potuto esprimerci sul <strong>futuro della nostra professione</strong>”, spiega <strong>Romina Iannuzzi</strong>, infermiera e dirigente nazionale <strong>NurSind</strong>. “È stato domandato quali fossero le richieste degli infermieri, essenzialmente quelle basate sulla crescita professionale. Resta, di per sé, un documento portato all’attenzione del nuovo Governo. Noi infermieri chiediamo soprattutto il <strong>riconoscimento del nostro ruolo a livello sociale</strong>”.</p>



<p>Pur occupando una posizione di prim’ordine nell’assistenza c’è una carenza di organico spropositata, anche perché <strong>gli infermieri iniziano a dimettersi</strong>. “Questo perché è mancato un vero e proprio riconoscimento sia sociale che economico”, sottolinea la dirigente NurSind. “Abbiamo lavorato due anni in una situazione di emergenza sanitaria dove ci hanno spremuto come limoni, senza alcuna organizzazione, senza presidi, e non ci siamo fermati perché abbiamo preso in carico i pazienti – nonostante le varie problematiche – perché ci occupiamo della salute e di salute pubblica. Questo, però, non è bastato. Non è stato sufficiente a farci ottenere un riconoscimento. Non volevamo essere visti come eroi, ma neanche veder sfumare tutto il lavoro che abbiamo fatto”.</p>



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<h2 id="h-se-scappano-gli-infermieri-soprattutto-dal-nord">Se scappano gli infermieri (soprattutto dal Nord)</h2>



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<p>La fotografia della professione, oggi, mostra con chiarezza come questo lavoro stia pagando lo scotto di <strong>politiche sanitarie antecedenti disastrose</strong>.</p>



<p>“Molti infermieri, dopo la pandemia, hanno iniziato a presentare le loro <strong>dimissioni</strong>, un fenomeno riscontrabile soprattutto al <strong>Nord</strong>. Questo perché non c’è un’adeguata <strong>retribuzione</strong>, c’è poca <strong>attenzione</strong> proprio verso la figura dell’infermiere e ci sono anche poche possibilità di <strong>carriera</strong>” continua Romina Iannuzzi.</p>



<p>“Nonostante gli infermieri non si sono tirati indietro nel combattere un nemico invisibile, si trovano ancora nella situazione di dover chiedere un riconoscimento. Ad esempio, nella legge di bilancio non sono stati stanziati soldi a sufficienza per il personale infermieristico. L’unico riconoscimento che abbiamo avuto è stato quello stanziato nella manovra del 2021, quindi durante il <strong>Governo Conte</strong>, e cioè <strong>l’indennità di specificità infermieristica</strong>, che si è concretizzato nel contratto collettivo, sottoscritto da poco.”</p>



<p>Uno dei problemi maggiori è che ad oggi c’è una scarsa attenzione al personale infermieristico e una carenza dovuta al <strong>blocco</strong> <strong>delle assunzioni</strong>.</p>



<p>“Noi stiamo pagando lo scotto degli anni precedenti dove c’è stato un blocco di turn-over. Adesso sono stati indetti dei concorsi, ma continuano a mancare le risorse”, sottolinea Iannuzzi. “Basti pensare al <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/112-reportage-sua-sanita-pnrr/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">PNRR</a>, che sembrava dovesse risolvere tutti i mali della sanità: sono stati stanziati 20 miliardi di euro per organizzare le strutture e rinnovare i modelli organizzativi in sanità; ma se non ci sono le risorse come si può far partire questo nuovo sistema?”</p>



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<h2 id="h-che-cosa-chiede-la-professione-infermieristica">Che cosa chiede la professione infermieristica?</h2>



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<p>Dal report degli Stati Generali è venuto fuori l’<strong>inquadramento specifico della professione infermieristica</strong>.</p>



<p>“Noi chiediamo complessivamente una <strong>crescita professionale</strong> attraverso la <strong>formazione universitaria</strong>, che possa prevedere anche delle specializzazioni accademiche e dei percorsi clinici che non solo aumentano le responsabilità, ma danno anche più importanza alla carriera stessa”, sostiene la dirigente. “Ad esempio, l’<strong>infermiere di famiglia</strong>, che dovrà garantire l’assistenza e la continuità assistenziale tra ospedale e territorio, è una figura ancora sulla carta. Nessun infermiere di famiglia, ad oggi, è stato ancora assunto, e sono importanti nel loro ruolo perché in forza alla medicina territoriale, nelle case di salute, in tutti i modelli organizzativi che il PNRR si prefigge di realizzare sui territori”.</p>



<p>Di fatto gli infermieri sono stremati, e anche molto arrabbiati. Spesso, a causa della mancanza di personale, si sono trovati anche a dover svolgere ruoli non appartenenti alla loro categoria professionale. Una situazione che potrebbe incancrenirsi a discapito del cittadino – non dimentichiamo il ruolo importante che svolgono nell’accoglienza al malato e nel prendersi cura di lui – se non si fa qualcosa per tutelarli nel loro insieme.</p>



<p>“Purtroppo quello che si poteva fare era stanziare più soldi nella legge di bilancio per gli infermieri; è stato fatto per le strutture, ma <strong>non ci sono risorse per il personale</strong>”, conclude Romina Iannuzzi. La pandemia ha portato alla luce quanto sia importante questa professione, ma per il suo buon funzionamento ha bisogno di essere supportata. Il rischio è quello di avere strutture e strumenti in più, ma nessuno pronto a utilizzarli al servizio dei cittadini.</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/sanita/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Sanità</a></strong>.</em></p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi il mensile 116, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-116/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Cavalli di battaglia</strong></a>&#8220;, e il reportage &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/112-reportage-sua-sanita-pnrr/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Sua Sanità PNRR</strong></a>&#8220;.</em></p>



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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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Gli Stati Generali degli infermieri in crisi: ne mancano 70.000. E i riconoscimenti?

<p>La <strong>scuola in carcere</strong> è strana: il <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/102-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">carcere</a> è l’unico luogo dove gli studenti protestano quando ci sono le vacanze, e alcuni detenuti chiedono di essere bocciati per non concludere il percorso di studi e poter continuare le lezioni.</p>
<p>A pensarci bene però non è tanto strano, perché la scuola in questi luoghi è quasi più importante dell’ora d’aria. Permette di impiegare il tempo in maniera costruttiva, di crescere e di avere un titolo spendibile una volta scontata la pena, anche se gli studenti più attaccati allo studio in realtà sono quelli che ancora non hanno prospettive di uscita.</p>
<p>A spiegarmelo è stato <strong>Roberto Cavalieri</strong>, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna. Io e Roberto ci siamo incontrati a FierIDA, l’evento organizzato da RI.DA.P. (Rete Italiana Istruzione degli Adulti), e pochi giorni fa mi ha invitato nella <strong>casa di reclusione di Castelfranco</strong> <strong>Emilia</strong> offrendomi la possibilità di vedere studenti e insegnanti all’opera. La direttrice del carcere, Maria Martone, ha praticamente organizzato una sorta di open day, proprio come si fa a scuola: una giornata mai organizzata prima in altri istituti penitenziari e dedicata alle associazioni di volontariato per far conoscere tutte le attività dell’istituto.</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/roberto-cavalieri.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="628" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/roberto-cavalieri-1024x628.jpg" alt="" class="wp-image-53154" /></a><figcaption class="wp-element-caption">Roberto Cavalieri, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna. Foto@FrancescaMezzadri</figcaption></figure>
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<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<p>A Castelfranco ho visto aule spaziose, con lavagne elettroniche e disegni vivaci appesi alle pareti. Aule calde e colorate, con una forte identità. Quando sono entrata gli studenti mi hanno accolto con entusiasmo, e soprattutto con la voglia di raccontare quello che stavano studiando. A fare lezione c’era un’insegnante giovanissima, non ancora di ruolo. Devo essere onesta: per prima cosa ho pensato che una giovane donna in un carcere soltanto maschile potesse avere grandi difficoltà. Mi sbagliavo. Lei era molto serena: “Ho pochi studenti, tutti attenti e profondamente coinvolti nelle lezioni. <strong>Qui si lavora molto bene</strong>”, mi ha detto scavalcando tutti i miei dubbi.</p>
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<h2 id="h-roberto-cavalieri-garante-detenuti-dell-emilia-romagna-la-scuola-in-carcere-una-delle-migliori-esperienze-che-si-possano-fare-il-problema-e-concludere-il-percorso">Roberto Cavalieri, garante detenuti dell’Emilia-Romagna: “La scuola in carcere? Una delle migliori esperienze che si possano fare. Il problema è concludere il percorso”</h2>
<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<p>Però Castelfranco Emilia è un modello praticamente unico nel panorama italiano. La realtà è che il resto delle case di reclusione italiane è molto lontano dall’avere anche solo un decimo delle attività che si fanno qui, sia scolastiche che lavorative. Infatti Roberto Cavalieri mi ha raccontato che <strong>di norma nelle carceri non ci sono aule</strong>, ma spazi dedicati a diverse attività in cui si fa anche lezione.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/Carcere-scuola-Minori.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="575" height="383" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/Carcere-scuola-Minori.jpg" alt="" class="wp-image-53161" /></a><figcaption class="wp-element-caption">Alcuni minori a scuola all&#8217;interno di un carcere.</figcaption></figure>
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<p>“Negli istituti penitenziari gli spazi non sono definiti, diciamo che si connotano in base alla persona che ci trovi dentro. La chiami palestra se dentro c’è l’istruttore di ginnastica, la chiami scuola se dentro c’è l’insegnante. Quelli dedicati alle lezioni, ad esempio, sono spazi che hanno banchi e lavagne, ma che al bisogno possono essere riconvertiti in altro”. Il garante frequenta le carceri da trent’anni; in passato ci ha anche insegnato, e in questa intervista c’è tutta la sua esperienza e lo sguardo di chi vede <strong>i detenuti come persone su cui investire</strong>, perché l’investimento sull’uomo fa bene a tutta la società.</p>
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<p><strong>Roberto, quante persone in media studiano negli istituti penitenziari?</strong></p>
<p>La domanda vera non è quanti studenti fanno la scuola in carcere, ma quanti davvero si qualificano. E soprattutto: chi non si è qualificato perché non è arrivato in fondo? Perché è stato scarcerato, trasferito, perché ha commesso un’infrazione, o perché gli è stato proposto un lavoro negli stessi orari in cui faceva le lezioni scolastiche? Le cause possono essere tante, e anche se nelle carceri c’è la possibilità di studiare non ci sono statistiche vere che ci dicano quante persone concludono davvero il percorso.</p>
<p><strong>I dati non ci sono perché sarebbero sconfortarti?</strong></p>
<p>Diciamo che pubblicarli sarebbe un’ammissione di corresponsabilità. Ad esempio, la giornata operativa in carcere è molto corta, e questo è un problema. Di norma dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio si svolge la stragrande maggioranza delle attività, e questo significa che se vai a scuola non puoi lavorare e viceversa, e se vai a lavorare spesso non riesci ad andare all’aria aperta. In sostanza, mancano gli agenti per allungare la giornata scolastica o lavorativa perché negli orari serali c’è pochissimo personale.</p>
<p><strong>E gli insegnanti invece sono in numero sufficiente?</strong></p>
<p>Gli insegnanti ci sono, ma anche loro vivono la frustrazione di un’organizzazione molto complessa. Spesso perdono detenuti perché vengono trasferiti, perché iniziano a lavorare, perché magari qualcuno infrange le regole. Se vieni dall’esterno è abbastanza complicato lavorare, perché vieni a conoscenza dei fatti solo quando il dado è tratto ed è difficile fare programmazione. Qui le possibilità di finire il percorso non sono le stesse che all’esterno, però il detenuto ha un forte senso di attaccamento alla scuola, è un alunno fertile, sempre molto attento, desideroso di conoscere e con una grande voglia di riscatto. Insegnare in carcere è una delle migliori esperienze che si possano fare, e ci sono tutti i livelli di istruzione, dalla scuola di base (CPIA, quindi elementari e medie) alle scuole superiori e professionali.</p>
<p><strong>A FierIDA diceva che ci sono anche esempi straordinari di detenuti che riescono a frequentare l’università.</strong></p>
<p>Al Pratello (il carcere minorile bolognese) ci sono ragazzi che oggi studiano Scienze della formazione e Filosofia. E la scuola dimostra di essere davvero una leva del cambiamento. Certo, non è una leva che può andar bene per tutti; per questo le carceri più intelligenti sono quelle dove si offre un corredo diversificato di opportunità, come succede a Castelfranco Emilia, dove in tanti studiano, ma in tanti lavorano. Qui il lavoro della direttrice Maria Martone, che ha un approccio manageriale, ha fatto davvero la differenza.</p>
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<h2 id="h-una-scuola-strana-ma-molto-vissuta-l-esperienza-di-chi-insegna-in-carcere">Una scuola “strana, ma molto vissuta”: l’esperienza di chi insegna in carcere</h2>
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<p>Dopo le parole del garante ero curiosa di avere anche una testimonianza di un insegnante, ed è stato lo stesso Roberto a darmi il numero del professor <strong>Michele Carra</strong>, che da dieci anni insegna italiano ai detenuti delle scuole medie e superiori di Parma, un carcere in regime di media e alta sicurezza.</p>
<p>“Insegno a una <strong>classe di dieci persone</strong> perché, anche se il carcere di Parma è molto grande (conta circa 700 detenuti), non ci sono vere e proprie aule, ma celle che sono state riconvertite e non permettono una capienza maggiore. In totale gli studenti sono circa cento e si dividono tra elementari, medie e superiori. In particolare, a Parma c’è Ragioneria e l’istituto professionale alberghiero. <strong>È una scuola strana, ma molto vissuta</strong> soprattutto in <strong>alta sicurezza</strong>, dove ci sono le pene più dure e più lunghe e dove studiare è un bel modo di impegnare il tempo. Qui ci sono studenti che si lamentano quando ci sono le feste perché vorrebbero andare a scuola”.</p>
<p>Il professore distingue i due ambienti e mi spiega che in <strong>alta sicurezza</strong> i detenuti sono <strong>quasi tutti italiani</strong>, mentre in <strong>media sicurezza</strong> sono <strong>quasi tutti stranieri</strong>. In particolare, nell’alta sicurezza ci sono italiani che erano analfabeti e che sono stati accompagnati nel percorso dalle elementari alle superiori.</p>
<p>“La scuola – continua il professore – li ha aiutati a crescere, e sono convinto che, se avessero avuto la possibilità di studiare prima, certi reati non li avrebbero commessi. L’ignoranza ha giocato a loro sfavore”.</p>
<p>Invece la media sicurezza ha il problema del <strong>turn over</strong>: ci sono persone in attesa di giudizio, persone che verranno scarcerate o trasferite.</p>
<p>“Per la scuola media riusciamo a programmare percorsi brevi che permettono di fare tre anni in uno, e abbiamo pensato anche a percorsi brevissimi di appena tre mesi, per avere un attestato di italiano. Ci siamo adattati a una situazione di turn over, ma il problema rimane per la scuola superiore, che prevede un percorso più lungo. Alle <strong>superiori</strong>, in media sicurezza, c’è ancora molta <strong>dispersione</strong>”.</p>
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<h2 id="h-carceri-se-la-scuola-e-uno-slalom-tra-limitazioni-e-burocrazia">Carceri, se la scuola è uno slalom tra limitazioni e burocrazia</h2>
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<p>Il professore mi spiega che le criticità sono tante, ma mi fa capire che il gioco vale sempre la candela.</p>
<p>“Un insegnante di Italiano deve avere un po’ di fantasia nel dare i temi. Non posso chiedere ai detenuti di scrivere cosa hanno fatto durante le vacanze estive, e non posso richiedere storie troppo personali perché si spalancherebbero abissi incredibili. <strong>Non posso neanche assegnare compiti</strong> perché, anche se i detenuti avrebbero tutto il tempo del mondo per farli, le celle sono rumorose e spesso vengono disturbati.”</p>
<p>“Le <strong>procedure burocratiche</strong> poi sono complicate, bisogna sempre chiedere l’autorizzazione per i libri, le fotocopie, e passano anche settimane prima di averla. Abbiamo la lavagna elettronica, ma <strong>non possiamo avere internet</strong> e non siamo autorizzati a portare chiavette dall’esterno. E poi alle 15 vengono sospese tutte le attività, perché dopo quell’ora ci sono meno agenti in servizio. La realtà è che non avremmo bisogno di agenti, perché non ci sono problemi di disciplina: sono i detenuti stessi a chiedere di andare a scuola, quindi non hanno interesse a generare problemi.”</p>
<p>“Le difficoltà maggiori, a volte, sono nel conciliare le esigenze tra le diverse amministrazioni, quella scolastica e quella penitenziaria. Può succedere, infatti, che attività lavorative o di altre tipologie siano proposte a studenti già iscritti ai corsi scolastici, e ciò spesso comporta l’abbandono della scuola. Il maggior <strong>coordinamento</strong> <strong>tra le varie attività</strong>, seppur a volte problematico, è dunque auspicabile.”<s></s></p>
<p>“Durante la pandemia ci sono state parecchie <strong>rivolte</strong> all’interno delle carceri, ma al di là delle notizie che hanno fatto scalpore si è indagato poco sulle motivazioni. Spesso i detenuti si sono ribellati perché <strong>durante la pandemia sono state chiuse tutte le attività</strong>: scuola, incontri, colloqui. Da noi non c’era neanche la possibilità di fare didattica a distanza, e la loro reazione dimostra che le attività sono fondamentali durante le loro giornate, anche per uscire dal carcere migliori di prima.”</p>
<p>Il carcere non è capitato per caso sulla strada di Michele Carra. Era curioso di entrare in una realtà misteriosa, sconosciuta, che a molti fa paura. Del resto, le notizie che si danno sugli istituti penitenziari sono sempre negative. Del carcere si parla sempre male, i giornalisti fanno la conta dei detenuti per parlare di sovraffollamento, di suicidi e di rivolte. Invece dentro c’è anche un mondo diverso, che forse più persone dovrebbero conoscere come ha fatto lui.</p>
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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/scuola/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Scuola</a></strong>.</em></p>
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<p><em>Photo credits: ilbolive.unipd.it</em></p>


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Mariani

Lara Mariani

Giornalista per indole, fotografa per passione, ama vedere la realtà da alternativi punti di vista e non crede nei confini netti, né geografici né sociali. Dopo la laurea in Scienze Politiche e un master in comunicazione ha lavorato 10 anni per una casa editrice bolognese. Oggi, oltre a essere responsabile di redazione di SenzaFiltro collabora con l’ufficio comunicazione del Cefa, una ong che aiuta le comunità più povere del mondo a raggiungere l’autosufficienza alimentare. Inoltre, collabora con TerzoTropico e Tempo e Diaframma, associazioni culturali che realizzano reportage, mostre e volumi fotografici. È autrice del volume “I portici di Bologna, patrimonio di cultura e identità”, Minerva edizioni. &nbsp; E-mail: lara.m@fiordirisorse.eu

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Carcere: la scuola serve più dell&#8217;ora d&#8217;aria

Le attività scolastiche trovano un ambiente molto fertile nelle carceri: lì la questione non è la sicurezza, ma la burocrazia. Il parere del garante dei detenuti dell&#8217;Emilia-Romagna Roberto Cavalieri e dell&#8217;insegnante Michele Carra.

Carcere: la scuola serve più dell&#8217;ora d&#8217;aria - Informazione senza filtro

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seven


<p>La <strong>scuola in carcere</strong> è strana: il <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/102-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">carcere</a> è l’unico luogo dove gli studenti protestano quando ci sono le vacanze, e alcuni detenuti chiedono di essere bocciati per non concludere il percorso di studi e poter continuare le lezioni.</p>



<p>A pensarci bene però non è tanto strano, perché la scuola in questi luoghi è quasi più importante dell’ora d’aria. Permette di impiegare il tempo in maniera costruttiva, di crescere e di avere un titolo spendibile una volta scontata la pena, anche se gli studenti più attaccati allo studio in realtà sono quelli che ancora non hanno prospettive di uscita.</p>



<p>A spiegarmelo è stato <strong>Roberto Cavalieri</strong>, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna. Io e Roberto ci siamo incontrati a FierIDA, l’evento organizzato da RI.DA.P. (Rete Italiana Istruzione degli Adulti), e pochi giorni fa mi ha invitato nella <strong>casa di reclusione di Castelfranco</strong> <strong>Emilia</strong> offrendomi la possibilità di vedere studenti e insegnanti all’opera. La direttrice del carcere, Maria Martone, ha praticamente organizzato una sorta di open day, proprio come si fa a scuola: una giornata mai organizzata prima in altri istituti penitenziari e dedicata alle associazioni di volontariato per far conoscere tutte le attività dell’istituto.</p>



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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/roberto-cavalieri.jpg"><img width="1024" height="628" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/roberto-cavalieri-1024x628.jpg" alt="" class="wp-image-53154" /></a><figcaption class="wp-element-caption">Roberto Cavalieri, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna. Foto@FrancescaMezzadri</figcaption></figure></div>


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<p>A Castelfranco ho visto aule spaziose, con lavagne elettroniche e disegni vivaci appesi alle pareti. Aule calde e colorate, con una forte identità. Quando sono entrata gli studenti mi hanno accolto con entusiasmo, e soprattutto con la voglia di raccontare quello che stavano studiando. A fare lezione c’era un’insegnante giovanissima, non ancora di ruolo. Devo essere onesta: per prima cosa ho pensato che una giovane donna in un carcere soltanto maschile potesse avere grandi difficoltà. Mi sbagliavo. Lei era molto serena: “Ho pochi studenti, tutti attenti e profondamente coinvolti nelle lezioni. <strong>Qui si lavora molto bene</strong>”, mi ha detto scavalcando tutti i miei dubbi.</p>



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<h2 id="h-roberto-cavalieri-garante-detenuti-dell-emilia-romagna-la-scuola-in-carcere-una-delle-migliori-esperienze-che-si-possano-fare-il-problema-e-concludere-il-percorso">Roberto Cavalieri, garante detenuti dell’Emilia-Romagna: “La scuola in carcere? Una delle migliori esperienze che si possano fare. Il problema è concludere il percorso”</h2>



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<p>Però Castelfranco Emilia è un modello praticamente unico nel panorama italiano. La realtà è che il resto delle case di reclusione italiane è molto lontano dall’avere anche solo un decimo delle attività che si fanno qui, sia scolastiche che lavorative. Infatti Roberto Cavalieri mi ha raccontato che <strong>di norma nelle carceri non ci sono aule</strong>, ma spazi dedicati a diverse attività in cui si fa anche lezione.</p>



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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/Carcere-scuola-Minori.jpg"><img width="575" height="383" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/Carcere-scuola-Minori.jpg" alt="" class="wp-image-53161" /></a><figcaption class="wp-element-caption">Alcuni minori a scuola all&#8217;interno di un carcere.</figcaption></figure></div>


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<p>“Negli istituti penitenziari gli spazi non sono definiti, diciamo che si connotano in base alla persona che ci trovi dentro. La chiami palestra se dentro c’è l’istruttore di ginnastica, la chiami scuola se dentro c’è l’insegnante. Quelli dedicati alle lezioni, ad esempio, sono spazi che hanno banchi e lavagne, ma che al bisogno possono essere riconvertiti in altro”. Il garante frequenta le carceri da trent’anni; in passato ci ha anche insegnato, e in questa intervista c’è tutta la sua esperienza e lo sguardo di chi vede <strong>i detenuti come persone su cui investire</strong>, perché l’investimento sull’uomo fa bene a tutta la società.</p>



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<p><strong>Roberto, quante persone in media studiano negli istituti penitenziari?</strong></p>



<p>La domanda vera non è quanti studenti fanno la scuola in carcere, ma quanti davvero si qualificano. E soprattutto: chi non si è qualificato perché non è arrivato in fondo? Perché è stato scarcerato, trasferito, perché ha commesso un’infrazione, o perché gli è stato proposto un lavoro negli stessi orari in cui faceva le lezioni scolastiche? Le cause possono essere tante, e anche se nelle carceri c’è la possibilità di studiare non ci sono statistiche vere che ci dicano quante persone concludono davvero il percorso.</p>



<p><strong>I dati non ci sono perché sarebbero sconfortarti?</strong></p>



<p>Diciamo che pubblicarli sarebbe un’ammissione di corresponsabilità. Ad esempio, la giornata operativa in carcere è molto corta, e questo è un problema. Di norma dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio si svolge la stragrande maggioranza delle attività, e questo significa che se vai a scuola non puoi lavorare e viceversa, e se vai a lavorare spesso non riesci ad andare all’aria aperta. In sostanza, mancano gli agenti per allungare la giornata scolastica o lavorativa perché negli orari serali c’è pochissimo personale.</p>



<p><strong>E gli insegnanti invece sono in numero sufficiente?</strong></p>



<p>Gli insegnanti ci sono, ma anche loro vivono la frustrazione di un’organizzazione molto complessa. Spesso perdono detenuti perché vengono trasferiti, perché iniziano a lavorare, perché magari qualcuno infrange le regole. Se vieni dall’esterno è abbastanza complicato lavorare, perché vieni a conoscenza dei fatti solo quando il dado è tratto ed è difficile fare programmazione. Qui le possibilità di finire il percorso non sono le stesse che all’esterno, però il detenuto ha un forte senso di attaccamento alla scuola, è un alunno fertile, sempre molto attento, desideroso di conoscere e con una grande voglia di riscatto. Insegnare in carcere è una delle migliori esperienze che si possano fare, e ci sono tutti i livelli di istruzione, dalla scuola di base (CPIA, quindi elementari e medie) alle scuole superiori e professionali.</p>



<p><strong>A FierIDA diceva che ci sono anche esempi straordinari di detenuti che riescono a frequentare l’università.</strong></p>



<p>Al Pratello (il carcere minorile bolognese) ci sono ragazzi che oggi studiano Scienze della formazione e Filosofia. E la scuola dimostra di essere davvero una leva del cambiamento. Certo, non è una leva che può andar bene per tutti; per questo le carceri più intelligenti sono quelle dove si offre un corredo diversificato di opportunità, come succede a Castelfranco Emilia, dove in tanti studiano, ma in tanti lavorano. Qui il lavoro della direttrice Maria Martone, che ha un approccio manageriale, ha fatto davvero la differenza.</p>



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<h2 id="h-una-scuola-strana-ma-molto-vissuta-l-esperienza-di-chi-insegna-in-carcere">Una scuola “strana, ma molto vissuta”: l’esperienza di chi insegna in carcere</h2>



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<p>Dopo le parole del garante ero curiosa di avere anche una testimonianza di un insegnante, ed è stato lo stesso Roberto a darmi il numero del professor <strong>Michele Carra</strong>, che da dieci anni insegna italiano ai detenuti delle scuole medie e superiori di Parma, un carcere in regime di media e alta sicurezza.</p>



<p>“Insegno a una <strong>classe di dieci persone</strong> perché, anche se il carcere di Parma è molto grande (conta circa 700 detenuti), non ci sono vere e proprie aule, ma celle che sono state riconvertite e non permettono una capienza maggiore. In totale gli studenti sono circa cento e si dividono tra elementari, medie e superiori. In particolare, a Parma c’è Ragioneria e l’istituto professionale alberghiero. <strong>È una scuola strana, ma molto vissuta</strong> soprattutto in <strong>alta sicurezza</strong>, dove ci sono le pene più dure e più lunghe e dove studiare è un bel modo di impegnare il tempo. Qui ci sono studenti che si lamentano quando ci sono le feste perché vorrebbero andare a scuola”.</p>



<p>Il professore distingue i due ambienti e mi spiega che in <strong>alta sicurezza</strong> i detenuti sono <strong>quasi tutti italiani</strong>, mentre in <strong>media sicurezza</strong> sono <strong>quasi tutti stranieri</strong>. In particolare, nell’alta sicurezza ci sono italiani che erano analfabeti e che sono stati accompagnati nel percorso dalle elementari alle superiori.</p>



<p>“La scuola – continua il professore – li ha aiutati a crescere, e sono convinto che, se avessero avuto la possibilità di studiare prima, certi reati non li avrebbero commessi. L’ignoranza ha giocato a loro sfavore”.</p>



<p>Invece la media sicurezza ha il problema del <strong>turn over</strong>: ci sono persone in attesa di giudizio, persone che verranno scarcerate o trasferite.</p>



<p>“Per la scuola media riusciamo a programmare percorsi brevi che permettono di fare tre anni in uno, e abbiamo pensato anche a percorsi brevissimi di appena tre mesi, per avere un attestato di italiano. Ci siamo adattati a una situazione di turn over, ma il problema rimane per la scuola superiore, che prevede un percorso più lungo. Alle <strong>superiori</strong>, in media sicurezza, c’è ancora molta <strong>dispersione</strong>”.</p>



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<h2 id="h-carceri-se-la-scuola-e-uno-slalom-tra-limitazioni-e-burocrazia">Carceri, se la scuola è uno slalom tra limitazioni e burocrazia</h2>



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<p>Il professore mi spiega che le criticità sono tante, ma mi fa capire che il gioco vale sempre la candela.</p>



<p>“Un insegnante di Italiano deve avere un po’ di fantasia nel dare i temi. Non posso chiedere ai detenuti di scrivere cosa hanno fatto durante le vacanze estive, e non posso richiedere storie troppo personali perché si spalancherebbero abissi incredibili. <strong>Non posso neanche assegnare compiti</strong> perché, anche se i detenuti avrebbero tutto il tempo del mondo per farli, le celle sono rumorose e spesso vengono disturbati.”</p>



<p>“Le <strong>procedure burocratiche</strong> poi sono complicate, bisogna sempre chiedere l’autorizzazione per i libri, le fotocopie, e passano anche settimane prima di averla. Abbiamo la lavagna elettronica, ma <strong>non possiamo avere internet</strong> e non siamo autorizzati a portare chiavette dall’esterno. E poi alle 15 vengono sospese tutte le attività, perché dopo quell’ora ci sono meno agenti in servizio. La realtà è che non avremmo bisogno di agenti, perché non ci sono problemi di disciplina: sono i detenuti stessi a chiedere di andare a scuola, quindi non hanno interesse a generare problemi.”</p>



<p>“Le difficoltà maggiori, a volte, sono nel conciliare le esigenze tra le diverse amministrazioni, quella scolastica e quella penitenziaria. Può succedere, infatti, che attività lavorative o di altre tipologie siano proposte a studenti già iscritti ai corsi scolastici, e ciò spesso comporta l’abbandono della scuola. Il maggior <strong>coordinamento</strong> <strong>tra le varie attività</strong>, seppur a volte problematico, è dunque auspicabile.”<s></s></p>



<p>“Durante la pandemia ci sono state parecchie <strong>rivolte</strong> all’interno delle carceri, ma al di là delle notizie che hanno fatto scalpore si è indagato poco sulle motivazioni. Spesso i detenuti si sono ribellati perché <strong>durante la pandemia sono state chiuse tutte le attività</strong>: scuola, incontri, colloqui. Da noi non c’era neanche la possibilità di fare didattica a distanza, e la loro reazione dimostra che le attività sono fondamentali durante le loro giornate, anche per uscire dal carcere migliori di prima.”</p>



<p>Il carcere non è capitato per caso sulla strada di Michele Carra. Era curioso di entrare in una realtà misteriosa, sconosciuta, che a molti fa paura. Del resto, le notizie che si danno sugli istituti penitenziari sono sempre negative. Del carcere si parla sempre male, i giornalisti fanno la conta dei detenuti per parlare di sovraffollamento, di suicidi e di rivolte. Invece dentro c’è anche un mondo diverso, che forse più persone dovrebbero conoscere come ha fatto lui.</p>



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<p><em>Photo credits: ilbolive.unipd.it</em></p>



<p>“Io oggi le donne le ho messe perché sono ‘anta’. Se dovevano sposarsi lo hanno già fatto, se dovevano avere figli, li hanno già fatti, se dovevano separarsi, hanno fatto anche quello… per cui io le prendo che hanno fatto <strong>tutti e quattro i giri di boa</strong>”.</p>



<p>Sono passati più di sei mesi da quando la stilista <strong>Elisabetta Franchi</strong> ha pronunciato, in un evento tra l’altro dedicato a donne e lavoro, una frase che ha fatto e continua a far discutere. Da qui è nato un <strong>collettivo di giornaliste e scrittrici</strong> che da allora hanno iniziato a chiedersi se un’alternativa al “modello Franchi” è possibile. La condivisione di storie, esperienze e domande ha dato vita al libro <strong><em>Senza giri di boa</em></strong> (Casa editrice Paper first, 2022), che prende spunto proprio dalla frase incriminata.</p>



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<h2 id="h-donne-lavoro-maternita-ma-non-solo-i-giri-di-boa-delle-professioniste">Donne, lavoro, maternità, ma non solo. I giri di boa delle professioniste</h2>



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<p>Ma se il fatto ormai lo conosciamo tutti, più interessante è capire <strong>che cosa è successo dopo</strong>. Con <strong>Giulia Cerino</strong>, giornalista freelance e una delle voci del libro, abbiamo provato ad approfondire.</p>



<p>“Dopo l’uscita del libro si è iniziato a parlare in modo più diffuso di questo argomento e di <strong>lavoro</strong>, <strong>donne</strong>, <strong>maternità</strong>. Tante persone hanno deciso di scriverci e di <strong>raccontare</strong>, cosa che prima si faceva, ma rimaneva sempre un po’ a margine. L’elezione della prima premier donna italiana, anche se con modalità differenti e non sempre condivisibili, ha facilitato la presenza sulla stampa di questi temi.”</p>



<p>Lo scenario lo conosciamo tutti ed è abbastanza impietoso; basti pensare ad esempio che, secondo l’ultimo rapporto ISTAT, le <strong>donne giovani</strong> rappresentano il <strong>47,2%</strong> della quota complessiva di <strong>lavoratori non standard</strong>, ossia con contratti a tempo determinato, di collaborazione o in part time involontario. O che nel 2021 risulta occupato il 73% delle donne tra 25 e 49 anni senza figli, a fronte del 53% di quelle con almeno un figlio nella stessa fascia d’età. Dati che la dicono lunga sul “ruolo” delle donne nel nostro mondo lavorativo.</p>



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<h2 id="h-il-quinto-giro-di-boa-delle-donne-lavoratrici-la-malattia">Il quinto giro di boa delle donne lavoratrici: la malattia</h2>



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<p><em>Senza giri di boa</em> ha avuto però la capacità di andare oltre, soffermandosi non solo sulla maternità, ma anche su <strong>questioni più trasversali</strong>. Nel libro non ci sono solo Azzurra, discriminata e demansionata al rientro dalla maternità, e Loredana, che ha messo in primo piano la carriera fino a essere fuori tempo massimo per avere un figlio; ci sono anche le loro storie di Claudia ed Elena, che non riguardano solo chi ha o vuole avere figli.</p>



<p>L’esperienza di <strong>Claudia</strong> è quella del <strong>lavoro h24,</strong> che non lascia spazio a nessun tipo di realizzazione esterna alle mura dell’ufficio, ”un tema che sta riscuotendo più successo degli altri tra le tante persone che ci hanno scritto”, spiega Giulia Cerino, “legato alla necessità di essere produttivi non tanto per la qualità, ma per la quantità del lavoro”. Un grido d’allarme emerso in maniera esponenziale con la pandemia, se si pensa a come siano diventati attuali temi come le grandi dimissioni, lo smart working o la necessità sempre più forte di un’adeguata conciliazione vita-lavoro.</p>



<p><strong>Elena</strong>, che affronta più di un tumore e per i suoi colleghi e il capo “oggi c’è, domani chissà”, è invece la testimonianza del “quinto giro di boa”, quello della <strong>malattia</strong>, lasciato fuori dai quattro – matrimonio, figli, divorzio, over 40 – citati dalla Franchi.</p>



<p>“Abbiamo deciso di aggiungere questo giro di boa che la Franchi non menziona e che rappresenta l’esempio più drammatico dell’imprevisto che può colpire il lavoratore o la lavoratrice. Quando c’è spesso accade un disastro; il nostro è <strong>un mercato del lavoro fatto per chi è invincibile</strong>, per coloro che hanno una disponibilità costante. Come si fa a gestire un mercato del lavoro così se poi dobbiamo fare i conti anche con la malattia, che costringe ad avere a che fare con l’umanità del lavoratore? Tra le nostre colleghe c’è chi l’ha vissuta su di sé, chi è stata tutelata nei propri diritti di malattia e si considera una privilegiata. Noi stesse siamo le prime a sentirci tali, è un paradosso”, spiega la Cerino.</p>



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<h2 id="h-perche-leggere-senza-giri-di-boa">Perché leggere <em>Senza giri di boa</em></h2>



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<p>In un contesto simile il libro è la testimonianza concreta di come le <strong>donne</strong>, quando vogliono, riescano a <strong>fare rete</strong>, cosa che spesso non accade sul lavoro e nella vita di tutti i giorni.</p>



<p>“Questo è uno dei punti da cui noi siamo partite. Noi siamo state le prime a chiederci perché questo molte volte non accade. La risposta è che è così faticoso conquistare il proprio posto che è diventato una sorte di <em>mors tua vita mea</em>. C’è un elemento culturale che fa pensare che <strong>il mio successo dipenda dalla tua fine</strong>, una paura di perdere la posizione acquisita.”</p>



<p>Iniziare quindi a diffondere lo “spirito di squadra” tra le donne potrebbe essere un buon punto di partenza, ma non basta. Ci sono tanti aspetti culturali, politici e normativi da rivedere del tutto.<br>Giulia Cerino è però ottimista: “Nel nostro Paese esistono già delle <strong>realtà virtuose</strong>, la nostra società è già al passo con i tempi; <strong>sono le norme che risultano ancora indietro</strong>. Questo è anche un tema culturale. Se si va avanti con questo tipo di cambiamento culturale, anche sul ruolo dei padri, che oggi rispetto al passato è molto cambiato, penso che prima o poi ci arriveremo. Le Istituzioni dovrebbero sostenere questo <strong>trend positivo che parte da alcune aziende</strong> e dalla <strong>società</strong> e incanalarlo verso uno sviluppo che ci metta allo stesso livello di tanti Paesi europei”.</p>



<p>Molte di queste <strong>best practice</strong> sono citate anche nel libro.</p>



<p>In <strong>Francia</strong> si stanno portando avanti politiche di sostegno alla genitorialità attraverso una serie di disposizioni. Tra queste l’assegno universale indipendente dal reddito, principale elemento distintivo rispetto a quello previsto nel nostro Paese, e valido non solo alla nascita, ma anche per tutto il periodo della crescita di un figlio. Altro esempio la possibilità di lavorare part time nei primi anni di vita dei bambini, con obbligo da parte dei datori di lavoro di accettare la richiesta di lavoro a tempo parziale, che può essere fatta sia dalla madre che dal padre.</p>



<p>La <strong>Svezia</strong> è molto avanti sul tema congedo di paternità, che dura tre mesi, così come in <strong>Spagna</strong> sono previste 16 settimane di congedo per i neopapà, contro i 10 giorni italiani da poco sdoganati. Sempre in Spagna è stata inoltre avviata in alcune regioni la sperimentazione della <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/4-giorni-lavorativi-spagna/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">settimana lavorativa di 32 ore</a>, che porterà poi il Governo a valutarne gli impatti su produttività e bilanci delle aziende.</p>



<p>In <strong>Italia</strong>, a quanto pare, come spesso accade <strong>la società va più veloce delle leggi</strong> e delle istituzioni, rivendicando da più parti una maggiore conciliazione tra lavoro e famiglia, e in generale politiche di sostegno alla genitorialità più “ampie” e durature.</p>



<p>“Ci siamo prese la briga di delineare un mondo possibile: il mondo che verrà e che da qualche parte, in piccolo, esiste già. Ma affinché questi semi germoglino e diventino strutturali è essenziale che le istituzioni pubbliche sostengano il cambiamento attraverso un’azione legislativa che si dimostri all’altezza, coerente con le richieste della società”, si legge nelle ultime pagine.</p>



<p>Basterà, questa spinta?</p>



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&#8220;Senza giri di boa&#8221;, il libro sulle donne che Elisabetta Franchi non assumerebbe

<p>Hanno lavorato senza sosta durante questi due anni di <strong>emergenza sanitaria</strong>, mettendo a rischio la loro salute; più volte, soprattutto all’inizio della pandemia, sono mancati i presidi sanitari di protezione per evitare il contagio dal virus SarS-CoV2. </p>
<p>Non si sono risparmiati la presa in carico della salute pubblica del cittadino, pur gestendo turni massacranti, insieme alla paura di un’eventuale contaminazione – e alcuni, purtroppo si sono ammalati – a seguito di un’importante carenza di personale, aggravatasi durante la pandemia COVID-19. </p>
<p>Non si può non ricordare la foto simbolo di <strong>quell’infermiera, Elena</strong> – il suo nome è rimasto impresso nella memoria storica di tanti – addormentata sulla tastiera di un computer perché provata da diverse notti di fatica.</p>
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<h2 id="h-all-italia-non-mancano-eroi-ma-infermieri-piu-di-70-000-quelli-latitanti">All’Italia non mancano eroi, ma infermieri: più di 70.000 quelli latitanti</h2>
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<p>Sono stati chiamati <strong>eroi</strong>, e subito dopo dimenticati.</p>
<p>La fotografia attuale della <strong>professione infermieristica</strong> in Italia non è certo edificante. Secondo i dati <strong>FNOPI </strong>(Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche) <strong>mancano all’appello</strong> <strong>70.000 infermieri in tutto il Paese</strong>, con un’incidenza maggiore al Nord, dove la carenza è di 27.000 infermieri, rispetto al Centro, con circa 13.000, e al Sud e nelle Isole, con 23.500 professionisti in meno.</p>
<p>Analizzando i dati dell’<strong>OCSE</strong> presentati nell’ultimo rapporto <em>Health at a glance 2022</em>,in Italia per ogni 1.000 abitanti mancherebbero due infermieri, che in base alla popolazione, secondo i dati ISTAT 2022, “si tradurrebbe nella <strong>mancanza di quasi 118.000 infermieri</strong>”.</p>
<p>“In Italia”, commenta la presidente FNOPI<strong> Barbara Mangiacavalli</strong>,“abbiamo una professione infermieristica che soffre di un <strong>appiattimento organizzativo</strong>, <strong>formativo</strong> e <strong>contrattuale</strong>: una situazione che non ci possiamo più permettere. C’è bisogno di lavorare su un’evoluzione di questa professione, di formare infermieri specialisti, riconoscerne il ruolo giuridico ed economico. Senza tali presupposti non può esserci una risposta appropriata ai bisogni di salute complessi, e non ci può essere un sistema salute degno di questo nome”.</p>
<p>“Non si può continuare a parlare di ricette semplicistiche per affrontare e risolvere i problemi, perché il sistema è ormai complesso e servono analisi e strumenti di complessità. La tutela della salute non è più e non può più essere un problema di singole professioni, ma di un <strong>sistema multiprofessionale</strong>. Infermieri e infermieri pediatrici”, conclude la presidente, “hanno in questo senso metodi e strumenti di stratificazione del bisogno assistenziale, della complessità assistenziale, dei livelli di intensità assistenziale, degli strumenti e dei metodi di valutazione dei bisogni dei pazienti, del rischio cadute, del rischio infezioni, della capacità di orientarsi. Istituzioni e politica devono comprenderlo, e noi siamo disponibili come sempre a dare il necessario supporto”.</p>
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<h2 id="h-gli-stati-generali-della-professione-infermieristica-vogliamo-riconoscimento-a-livello-sociale-ed-economico">Gli Stati Generali della Professione Infermieristica: “Vogliamo riconoscimento a livello sociale ed economico”</h2>
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<p>Gli infermieri, durante questi anni così duri e svilenti, non si sono mai tirati indietro nell’assistenza al cittadino, pur sapendo che alla base il loro lavoro è in affanno da tempo. Per questo – ma non solo – durante gli <strong>Stati Generali della Professione Infermieristica</strong>, che hanno visto la partecipazione degli infermieri iscritti (460.000), sono state avanzate delle richieste affinché la professione abbia dei suoi riconoscimenti.</p>
<p>“Quello che è venuto fuori da questi Stati Generali è un lavoro durato nove mesi, dove noi infermieri iscritti, attraverso una piattaforma online, abbiamo potuto esprimerci sul <strong>futuro della nostra professione</strong>”, spiega <strong>Romina Iannuzzi</strong>, infermiera e dirigente nazionale <strong>NurSind</strong>. “È stato domandato quali fossero le richieste degli infermieri, essenzialmente quelle basate sulla crescita professionale. Resta, di per sé, un documento portato all’attenzione del nuovo Governo. Noi infermieri chiediamo soprattutto il <strong>riconoscimento del nostro ruolo a livello sociale</strong>”.</p>
<p>Pur occupando una posizione di prim’ordine nell’assistenza c’è una carenza di organico spropositata, anche perché <strong>gli infermieri iniziano a dimettersi</strong>. “Questo perché è mancato un vero e proprio riconoscimento sia sociale che economico”, sottolinea la dirigente NurSind. “Abbiamo lavorato due anni in una situazione di emergenza sanitaria dove ci hanno spremuto come limoni, senza alcuna organizzazione, senza presidi, e non ci siamo fermati perché abbiamo preso in carico i pazienti – nonostante le varie problematiche – perché ci occupiamo della salute e di salute pubblica. Questo, però, non è bastato. Non è stato sufficiente a farci ottenere un riconoscimento. Non volevamo essere visti come eroi, ma neanche veder sfumare tutto il lavoro che abbiamo fatto”.</p>
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<h2 id="h-se-scappano-gli-infermieri-soprattutto-dal-nord">Se scappano gli infermieri (soprattutto dal Nord)</h2>
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<p>La fotografia della professione, oggi, mostra con chiarezza come questo lavoro stia pagando lo scotto di <strong>politiche sanitarie antecedenti disastrose</strong>.</p>
<p>“Molti infermieri, dopo la pandemia, hanno iniziato a presentare le loro <strong>dimissioni</strong>, un fenomeno riscontrabile soprattutto al <strong>Nord</strong>. Questo perché non c’è un’adeguata <strong>retribuzione</strong>, c’è poca <strong>attenzione</strong> proprio verso la figura dell’infermiere e ci sono anche poche possibilità di <strong>carriera</strong>” continua Romina Iannuzzi.</p>
<p>“Nonostante gli infermieri non si sono tirati indietro nel combattere un nemico invisibile, si trovano ancora nella situazione di dover chiedere un riconoscimento. Ad esempio, nella legge di bilancio non sono stati stanziati soldi a sufficienza per il personale infermieristico. L’unico riconoscimento che abbiamo avuto è stato quello stanziato nella manovra del 2021, quindi durante il <strong>Governo Conte</strong>, e cioè <strong>l’indennità di specificità infermieristica</strong>, che si è concretizzato nel contratto collettivo, sottoscritto da poco.”</p>
<p>Uno dei problemi maggiori è che ad oggi c’è una scarsa attenzione al personale infermieristico e una carenza dovuta al <strong>blocco</strong> <strong>delle assunzioni</strong>.</p>
<p>“Noi stiamo pagando lo scotto degli anni precedenti dove c’è stato un blocco di turn-over. Adesso sono stati indetti dei concorsi, ma continuano a mancare le risorse”, sottolinea Iannuzzi. “Basti pensare al <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/112-reportage-sua-sanita-pnrr/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">PNRR</a>, che sembrava dovesse risolvere tutti i mali della sanità: sono stati stanziati 20 miliardi di euro per organizzare le strutture e rinnovare i modelli organizzativi in sanità; ma se non ci sono le risorse come si può far partire questo nuovo sistema?”</p>
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<h2 id="h-che-cosa-chiede-la-professione-infermieristica">Che cosa chiede la professione infermieristica?</h2>
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<p>Dal report degli Stati Generali è venuto fuori l’<strong>inquadramento specifico della professione infermieristica</strong>.</p>
<p>“Noi chiediamo complessivamente una <strong>crescita professionale</strong> attraverso la <strong>formazione universitaria</strong>, che possa prevedere anche delle specializzazioni accademiche e dei percorsi clinici che non solo aumentano le responsabilità, ma danno anche più importanza alla carriera stessa”, sostiene la dirigente. “Ad esempio, l’<strong>infermiere di famiglia</strong>, che dovrà garantire l’assistenza e la continuità assistenziale tra ospedale e territorio, è una figura ancora sulla carta. Nessun infermiere di famiglia, ad oggi, è stato ancora assunto, e sono importanti nel loro ruolo perché in forza alla medicina territoriale, nelle case di salute, in tutti i modelli organizzativi che il PNRR si prefigge di realizzare sui territori”.</p>
<p>Di fatto gli infermieri sono stremati, e anche molto arrabbiati. Spesso, a causa della mancanza di personale, si sono trovati anche a dover svolgere ruoli non appartenenti alla loro categoria professionale. Una situazione che potrebbe incancrenirsi a discapito del cittadino – non dimentichiamo il ruolo importante che svolgono nell’accoglienza al malato e nel prendersi cura di lui – se non si fa qualcosa per tutelarli nel loro insieme.</p>
<p>“Purtroppo quello che si poteva fare era stanziare più soldi nella legge di bilancio per gli infermieri; è stato fatto per le strutture, ma <strong>non ci sono risorse per il personale</strong>”, conclude Romina Iannuzzi. La pandemia ha portato alla luce quanto sia importante questa professione, ma per il suo buon funzionamento ha bisogno di essere supportata. Il rischio è quello di avere strutture e strumenti in più, ma nessuno pronto a utilizzarli al servizio dei cittadini.</p>
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Francescapaola Iannaccone

Giornalista alla ricerca del tempo perduto. Ha iniziando muovendo i primi passi tra la cronaca e la politica, prestando la penna al servizio di diverse testate della sua città, Avellino; poi la svolta giel&#8217;ha data la collaborazione con Panorama dove ha imparato l&#8217;ossatura del mestiere. In seguito ha collaborato con l&#8217;Espresso, il Corriere del Mezzogiorno, il Dubbio. Attualmente cura una rubrica domenicale, Le Chicche, sul Quotidiano del Sud- l&#8217;Altra voce dell&#8217;Italia, dove scrive anche di approfondimenti. Curiosa di tutto, fagocita informazioni e con la prova del nove ne deduce esperienza. Appassionata di medicina, storia e politica internazionale, questo ha influenzato, dopo gli studi classici, la preferenza del suo percorso universitario: Scienze politiche è stata una scelta vincente. Ama la filosofia di Socrate, l’Idiota di Fëdor Dostoevskij, tutti i libri di Tolstoj, la Livella di Totò e tra un caffè e un cornetto ama leggere Topolino.

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In Italia latitano i professionisti dell&#8217;infermieristica, e l&#8217;ultima gratificazione risale al Governo Conte II. Le dichiarazioni della presidente FNOPI Barbara Mangiacavalli e l&#8217;opinione di Romina Iannuzzi di NurSind.

Gli Stati Generali degli infermieri in crisi: ne mancano 70.000. E i riconoscimenti? - Informazione senza filtro

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<p>Oggi, 9 dicembre, mi sarei aspettata un doodle intelligente per la <strong>giornata internazionale contro la corruzione</strong> che si celebra ormai da qualche anno. Lampadine colorate e dondolanti, invece, e c’è scritto <em>festività stagionali 2022</em> se ci passi sopra col cursore. Siamo ancora lontani dal passare messaggi intelligenti attraverso canali popolari.&nbsp;</p>



<p>Immancabile, questo sì, il comunicato stampa di <strong>Anac</strong> dal sito istituzionale, col <strong>Presidente Giuseppe Busia</strong> a dichiarare che “Siamo migliorati nelle classifiche internazionali, ma non basta. In un anno l’Italia ha scalato dieci posizioni nella graduatoria di Transparency International: secondo i dati dell’indice della percezione della corruzione 2021 siamo al 42° posto su una classifica di 180 Paesi”. L’anno scorso eravamo dieci posti più giù e dal 2012 a oggi siamo risaliti di 14. Poi aggiunge: “Dal sistema di misurazione oggettiva dei rischi di corruzione, messo a punto da Anac, emerge comunque che il fenomeno è ancora alto nel nostro Paese. Guai a smobilitare la lotta alla corruzione. L’Italia ha già ricevuto 67 miliardi dalla Ue in erogazioni per il Pnrr e ne riceverà altri 53 miliardi entro la fine del 2023, se rispetteremo tutti i parametri. Sono cifre enormi, che ingolosiscono la malavita, anche organizzata. Il rischio di corruzione e di infiltrazioni criminose in Italia diventa per questo più elevato”.</p>



<p><strong>Questa dichiarazione di rito da parte di Anac a me non fa né caldo né freddo, arriva come dovuta</strong>: un po’ dà i numeri, un po’ mette in allarme, un po’ mette la mano sulla spalla a un’Italia che prova a fare meglio.</p>



<p>Quando la settimana scorsa SenzaFiltro ha lavorato a Milano come unico media partner della giornata organizzata da <strong>The Good Lobby </strong>sull’urgenza di recepimento della direttiva UE in materia di whistleblowing &#8211; “<strong>Whistleblowing in Italia: le distanze da colmare</strong>” &#8211; accanto a me, e anche lui col microfono in mano, c’era <strong>Giorgio Fraschini, Responsabile Advocacy e Whistleblowing per Transparency International Italia</strong>. Prima di trovarci su quel palco avevamo a lungo parlato al telefono. La sua posizione è chiara: manca una cultura anticorruzione, non mancano solo le norme da mettere a sistema. E mi è piaciuto quando si è esposto pubblicamente per aprire meglio la ferita e per dire chiaro e tondo che sono le istituzioni a dover recuperare in fretta davanti a lavoratori che &#8211; pur a fatica, per colpa di pressioni di ogni genere &#8211; stanno invece provando a smantellare decenni di pratiche illecite e corruttive nel mondo del lavoro, pagandolo con la propria pelle professionale e personale. </p>



<p>ll whistleblowing non è un istituto nuovo, è solo troppo estraneo alla nostra cultura e a quella europea: ad oggi, nell’area dei 27, siamo tra i 16 che non hanno ancora recepito correttamente la direttiva UE; 10 Paesi sono già in regola, uno solo non ha nemmeno fatto un passo e si chiama Ungheria.</p>



<p>I whistleblower ci sono, sono a centinaia, hanno nomi e cognomi italiani (<strong>Francesco Zambon, Sergio Arcuri, Carlo Bertini </strong>solo per citare i presenti in quella sala a Milano), hanno facce e storie che non si vergognano di mostrare. Denunciano illeciti di interesse generale, e mai individuale, di cui sono venuti a conoscenza nel proprio rapporto di lavoro. <strong>I nomi e cognomi che invece mi preoccupano sono dei magistrati che non conoscono le norme in materia e non le mettono a sentenza, non le applicano, le ignorano più o meno volutamente</strong>. Mi preoccupano i <strong>sottodimensionamenti</strong> di organico come all’ANAC, i suoi ritmi di lavoro se misuriamo quante segnalazioni ricevono ogni anno (centinaia) e quante (pochissime, meno di dieci) ne prendono in carico fino a chiusura ma di cui si vantano per il buon rendimento. Mi danno pensiero le <strong>dispersioni di competenze</strong> che periodicamente ruotano nella Pubblica Amministrazione ma che, su aree di lavoro come questa, rischiano di vanificare la continuità delle cose. <strong>Disprezzo le aziende che con una mano si coprono dietro i modelli organizzativi della 231 e con l’altra fanno e disfanno prima l’etica e poi la legalità in nome del profitto</strong>. Disprezzo ancor di più quelle che buttano negli <strong>sgabuzzini dell’isolamento</strong> i collaboratori migliori, innamorati del lavoro fatto bene, e che segnalano qualcosa che non torna solo perché vorrebbero migliorare il contesto. Sono proprio i lavoratori che alla fine vengono demansionati, allontanati, licenziati, annullati come colleghi e come persone. È qui che mi cadono le braccia verso il basso anche quando Busia dice che saliamo in classifica.</p>



<p>A Milano è intervenuta anche <strong>Valentina Donini </strong>per conto della <strong>SNA</strong> (Scuola nazionale dell’Amministrazione) dove coordina la Comunità di pratica dei Responsabili prevenzione corruzione e trasparenza (RPCT) e quanta gradita sfrontatezza in ciò che ha detto e che mi sono trascritta con fedeltà, parola per parola: “Spesso arrivo a fare formazione dentro aule di dirigenti della PA che hanno almeno 50 o 60 anni e che sono già contaminati da una formazione di corridoio che si è sovrapposta alla scala dei buoni valori. Se ci riduciamo a fare una formazione solo tecnica o giuridica non ci ascolterà mai nessuno e non cambieremo mai la cultura, serve far capire l’urgenza a livello pratico. Ad ogni modo, se vogliamo cambiare le cose, l’anticorruzione andrebbe spiegata alle materne”.</p>



<p></p>



<h2 id="h-fiorito-dieci-anni-dopo-il-whistleblowing-tradito">Fiorito, dieci anni dopo. Il whistleblowing tradito</h2>



<p>I dizionari, come primo significato, spiegano la corruzione legandola al venir meno della qualità di certi oggetti, un disfacimento, un guastarsi delle proprietà originarie, putrefazione. A pensarci bene, così si capisce meglio da dove può arrivare il puzzo che si sente in giro per l’Italia quando si parla di lavoro, aziende pubbliche e private, bandi, appalti, profitti, morti sul lavoro, fondi, politica, consulenze. La lista è lunga. Sono passati dieci anni dalle parole di Michele Serra che mi si stamparono in testa con una sua Amaca del settembre 2012, le misi da parte, il titolo era <em>Fiorito siamo noi</em>. Le riporto, una parte per il tutto: &#8220;Io questo Franco Fiorito lo conosco. E lo conoscete anche voi. Lo abbiamo visto dietro il bancone di un bar. Alla guida di un autobus. Alla cassa di una pescheria. In coda all’ufficio postale. È un normotipo popolare italiano. Franco Fiorito, “er federale de Anagni”, è uno di noi. La parola “casta” è perlomeno fuorviante. Lascia intendere che esista un ceto parassitario alieno alla brava gente che lavora, quasi una cricca di invasori. Purtroppo non è così. Tra casta e popolo c’è osmosi, e un continuo, costante passaggio di consegne. Fiorito non nasce ricco e non nasce potente. Fiorito è un prodotto della democrazia”.</p>



<p><strong>Visto che si parla di whistleblower e di chi segnala, Fiorito ci sta tutto ma al contrario</strong>. Era l’uomo dei conti di Renata Polverini in Regione Lazio. Per cavalcare l’onda piena dei proclami anticasta e antisprechi, fece finta di incarnare quei valori e inviò una circolare per denunciare la gravità di spese anomale dei consiglieri regionali. Partì un’inchiesta, la Procura gli mise gli occhi addosso, alla fine fu condannato per peculato, beni milionari sequestrati, in poco più di due anni di carcere se la cavò tra sconti e riduzioni di pena. Non è mai stato interdetto dai pubblici uffici, poi reintegrato nelle liste elettorali. </p>



<p>Intanto, da poche ore, le agenzie di stampa battono la notizia che <strong>Antonio Panzeri, ex europarlamentare del PD ed ex segretario della CGIL milanese, è stato fermato stamattina a Bruxelles per un interrogatorio legato a una gigante indagine su anticorruzione, riciclaggio di denaro e organizzazione a delinquere</strong>. Sembra avesse 500 mila euro in contanti in casa, si sospettano pressioni di uno Stato del Golfo sulle politiche europee. Tra i 14 interrogatori in corso, anche Luca Visentini, segretario generale della Confederazione internazionale dei Sindacati (ITUC). </p>



<p>Il 9 dicembre dell&#8217;anticorruzione: la giornata ideale per farsi trovare in casa dalla polizia. </p>



<p>Il puzzo si fa sempre più acre.</p>



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<p><a href="https://fiordirisorse.hubspotpagebuilder.com/senzafiltrocartaceo" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Qui</a> l&#8217;ultimo numero cartaceo di SenzaFiltro (dicembre 2022), dedicato al tema del whistleblowing. </p>



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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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L&#8217;anticorruzione andrebbe spiegata alle materne

<p>“Io oggi le donne le ho messe perché sono ‘anta’. Se dovevano sposarsi lo hanno già fatto, se dovevano avere figli, li hanno già fatti, se dovevano separarsi, hanno fatto anche quello… per cui io le prendo che hanno fatto <strong>tutti e quattro i giri di boa</strong>”.</p>
<p>Sono passati più di sei mesi da quando la stilista <strong>Elisabetta Franchi</strong> ha pronunciato, in un evento tra l’altro dedicato a donne e lavoro, una frase che ha fatto e continua a far discutere. Da qui è nato un <strong>collettivo di giornaliste e scrittrici</strong> che da allora hanno iniziato a chiedersi se un’alternativa al “modello Franchi” è possibile. La condivisione di storie, esperienze e domande ha dato vita al libro <strong><em>Senza giri di boa</em></strong> (Casa editrice Paper first, 2022), che prende spunto proprio dalla frase incriminata.</p>
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<h2 id="h-donne-lavoro-maternita-ma-non-solo-i-giri-di-boa-delle-professioniste">Donne, lavoro, maternità, ma non solo. I giri di boa delle professioniste</h2>
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<p>Ma se il fatto ormai lo conosciamo tutti, più interessante è capire <strong>che cosa è successo dopo</strong>. Con <strong>Giulia Cerino</strong>, giornalista freelance e una delle voci del libro, abbiamo provato ad approfondire.</p>
<p>“Dopo l’uscita del libro si è iniziato a parlare in modo più diffuso di questo argomento e di <strong>lavoro</strong>, <strong>donne</strong>, <strong>maternità</strong>. Tante persone hanno deciso di scriverci e di <strong>raccontare</strong>, cosa che prima si faceva, ma rimaneva sempre un po’ a margine. L’elezione della prima premier donna italiana, anche se con modalità differenti e non sempre condivisibili, ha facilitato la presenza sulla stampa di questi temi.”</p>
<p>Lo scenario lo conosciamo tutti ed è abbastanza impietoso; basti pensare ad esempio che, secondo l’ultimo rapporto ISTAT, le <strong>donne giovani</strong> rappresentano il <strong>47,2%</strong> della quota complessiva di <strong>lavoratori non standard</strong>, ossia con contratti a tempo determinato, di collaborazione o in part time involontario. O che nel 2021 risulta occupato il 73% delle donne tra 25 e 49 anni senza figli, a fronte del 53% di quelle con almeno un figlio nella stessa fascia d’età. Dati che la dicono lunga sul “ruolo” delle donne nel nostro mondo lavorativo.</p>
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<h2 id="h-il-quinto-giro-di-boa-delle-donne-lavoratrici-la-malattia">Il quinto giro di boa delle donne lavoratrici: la malattia</h2>
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<p><em>Senza giri di boa</em> ha avuto però la capacità di andare oltre, soffermandosi non solo sulla maternità, ma anche su <strong>questioni più trasversali</strong>. Nel libro non ci sono solo Azzurra, discriminata e demansionata al rientro dalla maternità, e Loredana, che ha messo in primo piano la carriera fino a essere fuori tempo massimo per avere un figlio; ci sono anche le loro storie di Claudia ed Elena, che non riguardano solo chi ha o vuole avere figli.</p>
<p>L’esperienza di <strong>Claudia</strong> è quella del <strong>lavoro h24,</strong> che non lascia spazio a nessun tipo di realizzazione esterna alle mura dell’ufficio, ”un tema che sta riscuotendo più successo degli altri tra le tante persone che ci hanno scritto”, spiega Giulia Cerino, “legato alla necessità di essere produttivi non tanto per la qualità, ma per la quantità del lavoro”. Un grido d’allarme emerso in maniera esponenziale con la pandemia, se si pensa a come siano diventati attuali temi come le grandi dimissioni, lo smart working o la necessità sempre più forte di un’adeguata conciliazione vita-lavoro.</p>
<p><strong>Elena</strong>, che affronta più di un tumore e per i suoi colleghi e il capo “oggi c’è, domani chissà”, è invece la testimonianza del “quinto giro di boa”, quello della <strong>malattia</strong>, lasciato fuori dai quattro – matrimonio, figli, divorzio, over 40 – citati dalla Franchi.</p>
<p>“Abbiamo deciso di aggiungere questo giro di boa che la Franchi non menziona e che rappresenta l’esempio più drammatico dell’imprevisto che può colpire il lavoratore o la lavoratrice. Quando c’è spesso accade un disastro; il nostro è <strong>un mercato del lavoro fatto per chi è invincibile</strong>, per coloro che hanno una disponibilità costante. Come si fa a gestire un mercato del lavoro così se poi dobbiamo fare i conti anche con la malattia, che costringe ad avere a che fare con l’umanità del lavoratore? Tra le nostre colleghe c’è chi l’ha vissuta su di sé, chi è stata tutelata nei propri diritti di malattia e si considera una privilegiata. Noi stesse siamo le prime a sentirci tali, è un paradosso”, spiega la Cerino.</p>
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<h2 id="h-perche-leggere-senza-giri-di-boa">Perché leggere <em>Senza giri di boa</em></h2>
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<p>In un contesto simile il libro è la testimonianza concreta di come le <strong>donne</strong>, quando vogliono, riescano a <strong>fare rete</strong>, cosa che spesso non accade sul lavoro e nella vita di tutti i giorni.</p>
<p>“Questo è uno dei punti da cui noi siamo partite. Noi siamo state le prime a chiederci perché questo molte volte non accade. La risposta è che è così faticoso conquistare il proprio posto che è diventato una sorte di <em>mors tua vita mea</em>. C’è un elemento culturale che fa pensare che <strong>il mio successo dipenda dalla tua fine</strong>, una paura di perdere la posizione acquisita.”</p>
<p>Iniziare quindi a diffondere lo “spirito di squadra” tra le donne potrebbe essere un buon punto di partenza, ma non basta. Ci sono tanti aspetti culturali, politici e normativi da rivedere del tutto.<br />Giulia Cerino è però ottimista: “Nel nostro Paese esistono già delle <strong>realtà virtuose</strong>, la nostra società è già al passo con i tempi; <strong>sono le norme che risultano ancora indietro</strong>. Questo è anche un tema culturale. Se si va avanti con questo tipo di cambiamento culturale, anche sul ruolo dei padri, che oggi rispetto al passato è molto cambiato, penso che prima o poi ci arriveremo. Le Istituzioni dovrebbero sostenere questo <strong>trend positivo che parte da alcune aziende</strong> e dalla <strong>società</strong> e incanalarlo verso uno sviluppo che ci metta allo stesso livello di tanti Paesi europei”.</p>
<p>Molte di queste <strong>best practice</strong> sono citate anche nel libro.</p>
<p>In <strong>Francia</strong> si stanno portando avanti politiche di sostegno alla genitorialità attraverso una serie di disposizioni. Tra queste l’assegno universale indipendente dal reddito, principale elemento distintivo rispetto a quello previsto nel nostro Paese, e valido non solo alla nascita, ma anche per tutto il periodo della crescita di un figlio. Altro esempio la possibilità di lavorare part time nei primi anni di vita dei bambini, con obbligo da parte dei datori di lavoro di accettare la richiesta di lavoro a tempo parziale, che può essere fatta sia dalla madre che dal padre.</p>
<p>La <strong>Svezia</strong> è molto avanti sul tema congedo di paternità, che dura tre mesi, così come in <strong>Spagna</strong> sono previste 16 settimane di congedo per i neopapà, contro i 10 giorni italiani da poco sdoganati. Sempre in Spagna è stata inoltre avviata in alcune regioni la sperimentazione della <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/4-giorni-lavorativi-spagna/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">settimana lavorativa di 32 ore</a>, che porterà poi il Governo a valutarne gli impatti su produttività e bilanci delle aziende.</p>
<p>In <strong>Italia</strong>, a quanto pare, come spesso accade <strong>la società va più veloce delle leggi</strong> e delle istituzioni, rivendicando da più parti una maggiore conciliazione tra lavoro e famiglia, e in generale politiche di sostegno alla genitorialità più “ampie” e durature.</p>
<p>“Ci siamo prese la briga di delineare un mondo possibile: il mondo che verrà e che da qualche parte, in piccolo, esiste già. Ma affinché questi semi germoglino e diventino strutturali è essenziale che le istituzioni pubbliche sostengano il cambiamento attraverso un’azione legislativa che si dimostri all’altezza, coerente con le richieste della società”, si legge nelle ultime pagine.</p>
<p>Basterà, questa spinta?</p>
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Chiara Del Priore

35 anni, di cui dieci dedicati ad approfondire i temi della formazione e dell’occupazione, soprattutto giovanile. Giornalista professionista e, come dicono quelli bravi, web content manager. Per il pubblico a casa redattore web impegnato a combattere in prima linea la personale crociata quotidiana anti refuso. Il suo mondo ideale contempla quasi esclusivamente viaggi e buona cucina. Al supermarket degli aggettivi ne sceglierebbe quattro: ironica, determinata, logorroica e caciarona. Un difetto: è della Vergine.

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Un collettivo di giornaliste e scrittrici ha raccolto in un libro esperienze e problematiche contemporanee di donne al lavoro. Ne parliamo con Giulia Cerino, tra le autrici del testo: &#8220;Vietato fermarsi, avere figli o ammalarsi: il nostro è un mercato del lavoro fatto per chi è invincibile&#8221;.

&#8220;Senza giri di boa&#8221;, il libro sulle donne che Elisabetta Franchi non assumerebbe - Informazione senza filtro

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<p>Strano Paese il nostro, in cui a Napoli si assumono dodici laureati (su duecento giovani che hanno superato il concorso) per un posto da netturbino mentre contemporaneamente a Genova i ricercatori scioperano per ottenere il riconoscimento legittimo del loro lavoro.</p>



<p>Se al momento i netturbini napoletani sembrano essere stati &#8220;messi in sicurezza&#8221;, in entrambi i casi c&#8217;è da chiedersi perché &#8220;il sistema lavoro&#8221; che va dalle Istituzioni ai Centri per l&#8217;Impiego, dalle scuole alle imprese, sia così distratto o semplicemente impreparato da non riuscire a collocare le persone giuste al posto giusto e soprattutto a tutelare le professioni più strategiche in quella che sarebbe la necessaria visione di futuro di un Paese.  </p>



<p><strong>L&#8217;Istituto Italiano di Tecnologia</strong> è considerato una delle Eccellenze accademiche del nostro Paese, tanto da mutuare l&#8217;affidamento di un Ministero a Roberto Cingolani, ex direttore scientifico dell&#8217;Istituto, da parte dei Governi prima Draghi e poi Meloni.</p>



<p>Ma a quanto pare, l&#8217;aurea di innovazione ed eccellenza con cui troppo spesso in Italia si etichettano (soprattutto) le Accademie, prima o poi si scontra con una realtà fatta di opposizione al merito e alla trasparenza. È di ieri la notizia che i ricercatori dell&#8217;IIT sono in sciopero per ottenere quello che per qualsiasi altro lavoratore in Italia è un diritto costituzionale: l&#8217;adeguamento del loro lavoro ad un contratto collettivo nazionale di riferimento.</p>



<p>A quanto pare, proprio nel Regno dell&#8217;Innovazione i ricercatori, i tecnici e gli amministrativi accusano l&#8217;Istituto di creare precarietà e fuga di cervelli, di bloccare gli avanzamenti di carriera, di operare con modalità paternalistiche. Tutto questo nonostante i fondi non manchino di certo visto che l&#8217;Istituto è ben sponsorizzato dai privati e riceve circa 90 milioni di Euro solo dal Ministero dell&#8217;Economia.</p>



<p>La situazione ha dell&#8217;incredibile: 1900 dipendenti gestiti con contratti &#8220;individuali&#8221; e mal tutelati da una &#8220;rappresentanza di lavoratori&#8221; autonoma, ma da nessuna RSU interna. In poche parole stiamo parlando di un sistema che genera inevitabilmente pochissima trasparenza sui ruoli, le mansioni, le retribuzioni, le promozioni, i premi, gli inquadramenti, le pause. Il tutto nel nome di un &#8220;modello flessibile e competitivo&#8221; inaugurato da Cingolani stesso che negli anni è diventato sinonimo di &#8220;discrezionalità&#8221;. Parola elegante che nasconde un sistema di favori più affine ad una Pubblica Amministrazione qualsiasi o ad un&#8217;impresa padronale che non ad un&#8217;eccellenza dell&#8217;innovazione. </p>



<p>I ricercatori sono una categoria preziosissima di cui pare si occupino solo i media quando si tratta di sciorinare le cifre dell&#8217;emorragia di cervelli in fuga che ogni anno raggiungono le Università e i centri di ricerca di altri Paesi ma che non riusciamo a tutelare &#8211; non solo nelle Università &#8211; ma nemmeno nei luoghi deputati al futuro. Un evergreen che &#8220;tira sempre&#8221; nei grandi convegni, nei meeting delle Associazioni di Categoria, nei programmi elettorali raffazzonati in fretta e furia e infarciti di &#8220;empowerment al femminile&#8221;, &#8220;inclusione&#8221;, &#8220;sostenibilità&#8221; e &#8220;giovani&#8221;. Di cui poi, all&#8217;atto pratico nessuno si occupa.</p>



<p>Come sempre, l&#8217;innovazione è una bellissima parola che in Italia si scontra con la tradizione nella sua peggiore accezione. </p>



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L&#8217;innovativo precariato dell&#8217;Istituto Italiano di Tecnologia

<p>Oggi, 9 dicembre, mi sarei aspettata un doodle intelligente per la <strong>giornata internazionale contro la corruzione</strong> che si celebra ormai da qualche anno. Lampadine colorate e dondolanti, invece, e c’è scritto <em>festività stagionali 2022</em> se ci passi sopra col cursore. Siamo ancora lontani dal passare messaggi intelligenti attraverso canali popolari.&nbsp;</p>
<p>Immancabile, questo sì, il comunicato stampa di <strong>Anac</strong> dal sito istituzionale, col <strong>Presidente Giuseppe Busia</strong> a dichiarare che “Siamo migliorati nelle classifiche internazionali, ma non basta. In un anno l’Italia ha scalato dieci posizioni nella graduatoria di Transparency International: secondo i dati dell’indice della percezione della corruzione 2021 siamo al 42° posto su una classifica di 180 Paesi”. L’anno scorso eravamo dieci posti più giù e dal 2012 a oggi siamo risaliti di 14. Poi aggiunge: “Dal sistema di misurazione oggettiva dei rischi di corruzione, messo a punto da Anac, emerge comunque che il fenomeno è ancora alto nel nostro Paese. Guai a smobilitare la lotta alla corruzione. L’Italia ha già ricevuto 67 miliardi dalla Ue in erogazioni per il Pnrr e ne riceverà altri 53 miliardi entro la fine del 2023, se rispetteremo tutti i parametri. Sono cifre enormi, che ingolosiscono la malavita, anche organizzata. Il rischio di corruzione e di infiltrazioni criminose in Italia diventa per questo più elevato”.</p>
<p><strong>Questa dichiarazione di rito da parte di Anac a me non fa né caldo né freddo, arriva come dovuta</strong>: un po’ dà i numeri, un po’ mette in allarme, un po’ mette la mano sulla spalla a un’Italia che prova a fare meglio.</p>
<p>Quando la settimana scorsa SenzaFiltro ha lavorato a Milano come unico media partner della giornata organizzata da <strong>The Good Lobby </strong>sull’urgenza di recepimento della direttiva UE in materia di whistleblowing &#8211; “<strong>Whistleblowing in Italia: le distanze da colmare</strong>” &#8211; accanto a me, e anche lui col microfono in mano, c’era <strong>Giorgio Fraschini, Responsabile Advocacy e Whistleblowing per Transparency International Italia</strong>. Prima di trovarci su quel palco avevamo a lungo parlato al telefono. La sua posizione è chiara: manca una cultura anticorruzione, non mancano solo le norme da mettere a sistema. E mi è piaciuto quando si è esposto pubblicamente per aprire meglio la ferita e per dire chiaro e tondo che sono le istituzioni a dover recuperare in fretta davanti a lavoratori che &#8211; pur a fatica, per colpa di pressioni di ogni genere &#8211; stanno invece provando a smantellare decenni di pratiche illecite e corruttive nel mondo del lavoro, pagandolo con la propria pelle professionale e personale. </p>
<p>ll whistleblowing non è un istituto nuovo, è solo troppo estraneo alla nostra cultura e a quella europea: ad oggi, nell’area dei 27, siamo tra i 16 che non hanno ancora recepito correttamente la direttiva UE; 10 Paesi sono già in regola, uno solo non ha nemmeno fatto un passo e si chiama Ungheria.</p>
<p>I whistleblower ci sono, sono a centinaia, hanno nomi e cognomi italiani (<strong>Francesco Zambon, Sergio Arcuri, Carlo Bertini </strong>solo per citare i presenti in quella sala a Milano), hanno facce e storie che non si vergognano di mostrare. Denunciano illeciti di interesse generale, e mai individuale, di cui sono venuti a conoscenza nel proprio rapporto di lavoro. <strong>I nomi e cognomi che invece mi preoccupano sono dei magistrati che non conoscono le norme in materia e non le mettono a sentenza, non le applicano, le ignorano più o meno volutamente</strong>. Mi preoccupano i <strong>sottodimensionamenti</strong> di organico come all’ANAC, i suoi ritmi di lavoro se misuriamo quante segnalazioni ricevono ogni anno (centinaia) e quante (pochissime, meno di dieci) ne prendono in carico fino a chiusura ma di cui si vantano per il buon rendimento. Mi danno pensiero le <strong>dispersioni di competenze</strong> che periodicamente ruotano nella Pubblica Amministrazione ma che, su aree di lavoro come questa, rischiano di vanificare la continuità delle cose. <strong>Disprezzo le aziende che con una mano si coprono dietro i modelli organizzativi della 231 e con l’altra fanno e disfanno prima l’etica e poi la legalità in nome del profitto</strong>. Disprezzo ancor di più quelle che buttano negli <strong>sgabuzzini dell’isolamento</strong> i collaboratori migliori, innamorati del lavoro fatto bene, e che segnalano qualcosa che non torna solo perché vorrebbero migliorare il contesto. Sono proprio i lavoratori che alla fine vengono demansionati, allontanati, licenziati, annullati come colleghi e come persone. È qui che mi cadono le braccia verso il basso anche quando Busia dice che saliamo in classifica.</p>
<p>A Milano è intervenuta anche <strong>Valentina Donini </strong>per conto della <strong>SNA</strong> (Scuola nazionale dell’Amministrazione) dove coordina la Comunità di pratica dei Responsabili prevenzione corruzione e trasparenza (RPCT) e quanta gradita sfrontatezza in ciò che ha detto e che mi sono trascritta con fedeltà, parola per parola: “Spesso arrivo a fare formazione dentro aule di dirigenti della PA che hanno almeno 50 o 60 anni e che sono già contaminati da una formazione di corridoio che si è sovrapposta alla scala dei buoni valori. Se ci riduciamo a fare una formazione solo tecnica o giuridica non ci ascolterà mai nessuno e non cambieremo mai la cultura, serve far capire l’urgenza a livello pratico. Ad ogni modo, se vogliamo cambiare le cose, l’anticorruzione andrebbe spiegata alle materne”.</p>
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<h2 id="h-fiorito-dieci-anni-dopo-il-whistleblowing-tradito">Fiorito, dieci anni dopo. Il whistleblowing tradito</h2>
<p>I dizionari, come primo significato, spiegano la corruzione legandola al venir meno della qualità di certi oggetti, un disfacimento, un guastarsi delle proprietà originarie, putrefazione. A pensarci bene, così si capisce meglio da dove può arrivare il puzzo che si sente in giro per l’Italia quando si parla di lavoro, aziende pubbliche e private, bandi, appalti, profitti, morti sul lavoro, fondi, politica, consulenze. La lista è lunga. Sono passati dieci anni dalle parole di Michele Serra che mi si stamparono in testa con una sua Amaca del settembre 2012, le misi da parte, il titolo era <em>Fiorito siamo noi</em>. Le riporto, una parte per il tutto: &#8220;Io questo Franco Fiorito lo conosco. E lo conoscete anche voi. Lo abbiamo visto dietro il bancone di un bar. Alla guida di un autobus. Alla cassa di una pescheria. In coda all’ufficio postale. È un normotipo popolare italiano. Franco Fiorito, “er federale de Anagni”, è uno di noi. La parola “casta” è perlomeno fuorviante. Lascia intendere che esista un ceto parassitario alieno alla brava gente che lavora, quasi una cricca di invasori. Purtroppo non è così. Tra casta e popolo c’è osmosi, e un continuo, costante passaggio di consegne. Fiorito non nasce ricco e non nasce potente. Fiorito è un prodotto della democrazia”.</p>
<p><strong>Visto che si parla di whistleblower e di chi segnala, Fiorito ci sta tutto ma al contrario</strong>. Era l’uomo dei conti di Renata Polverini in Regione Lazio. Per cavalcare l’onda piena dei proclami anticasta e antisprechi, fece finta di incarnare quei valori e inviò una circolare per denunciare la gravità di spese anomale dei consiglieri regionali. Partì un’inchiesta, la Procura gli mise gli occhi addosso, alla fine fu condannato per peculato, beni milionari sequestrati, in poco più di due anni di carcere se la cavò tra sconti e riduzioni di pena. Non è mai stato interdetto dai pubblici uffici, poi reintegrato nelle liste elettorali. </p>
<p>Intanto, da poche ore, le agenzie di stampa battono la notizia che <strong>Antonio Panzeri, ex europarlamentare del PD ed ex segretario della CGIL milanese, è stato fermato stamattina a Bruxelles per un interrogatorio legato a una gigante indagine su anticorruzione, riciclaggio di denaro e organizzazione a delinquere</strong>. Sembra avesse 500 mila euro in contanti in casa, si sospettano pressioni di uno Stato del Golfo sulle politiche europee. Tra i 14 interrogatori in corso, anche Luca Visentini, segretario generale della Confederazione internazionale dei Sindacati (ITUC). </p>
<p>Il 9 dicembre dell&#8217;anticorruzione: la giornata ideale per farsi trovare in casa dalla polizia. </p>
<p>Il puzzo si fa sempre più acre.</p>
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<p><a href="https://fiordirisorse.hubspotpagebuilder.com/senzafiltrocartaceo" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Qui</a> l&#8217;ultimo numero cartaceo di SenzaFiltro (dicembre 2022), dedicato al tema del whistleblowing. </p>
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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>
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Zolotti

Stefania Zolotti

Direttrice responsabile di SenzaFiltro e giornalista con il debole per le relazioni e le persone. Studiosa e appassionata di geografie umane e di paesi. Con la laurea in giurisprudenza non ha mai intrapreso le classiche strade: l&#8217;unico ufficio legale in cui ha lavorato è stato quello di Altroconsumo a Milano dal 2001 al 2003, con una parentesi nella sede di Bolzano grazie al patentino di bilinguismo tedesco. Dal 2002 Collabora come freelance con la rivista Business People e dal 2023 con Artribune dove racconta storie italiane di teatri di periferia. &#8220;Sentimenti precisi&#8221; è il nome del progetto con cui dal 2021 gira l&#8217;Italia tenendo laboratori contro i blocchi della scrittura: lo fa per aziende, associazioni, scuole, singole persone e gruppi. Dal 2008 al 2017 Responsabile Comunicazione e Segretaria di direzione per una grande azienda pubblica del settore ambiente dove ha sviluppato progetti di green marketing e di educazione sostenibile. Dal 2012 contribuisce a creare e coordinare progetti per la business community FiordiRisorse, che è anche l&#8217;Associazione editrice di SenzaFiltro. Autrice del libro &#8220;Ti fai male&#8221; (2020), romanzo generazionale scritto inizialmente come ghostwriter. Ha lavorato per 20 anni come giornalista nel campo del vino e del cibo collaborando con le principali testate nazionali e pubblicando due libri: &#8220;Vino a doppio senso. Guida ironica per uomini e donne&#8221; (Gabrio Marinelli Editore, 2006) e &#8220;Il Bicchiere mezzo pieno. Liberarsi dagli esperti è il primo passo per bere bene&#8221; (Le Lettere, 2020). L&#8217;ultimo libro, di cui è curatrice, è &#8220;Coaching, maneggiare con cura&#8221; di Carlo Bisi (Edizioni FiordiRisorse, 2023). &nbsp; E-mail: stefania.z@fiordirisorse.eu

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Oggi, 9 dicembre, mi sarei aspettata un doodle intelligente per la giornata internazionale contro la corruzione che si celebra ormai da qualche anno. Lampadine colorate e dondolanti, invece, e c’è scritto festività stagionali 2022 se ci passi sopra col cursore. Siamo ancora lontani dal passare messaggi intelligenti attraverso canali popolari.&nbsp; Immancabile, questo sì, il comunicato [&hellip;]

L&#8217;anticorruzione andrebbe spiegata alle materne - Informazione senza filtro

https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/12/Prevenzione-Corruzione.jpeg


<p>Una promessa e una garanzia di trovare lavoro e stabilità. <strong>Milano</strong> per diverso tempo è stata definita da questa aspettativa, confermata per decenni. Oggi “stabilità” è un termine che cola a picco in generale, perché fuori luogo e fuori tempo oltre che stucchevole rispetto al periodo storico che stiamo vivendo.</p>



<p>Una cosa però è sicura: se da un lato le offerte di lavoro a Milano non mancano, dall’altro è innegabile che risultino insostenibili a causa di quello che è diventato un problema rilevante: il <strong>costo delle abitazioni</strong>.</p>



<p><strong>Casa contro lavoro</strong> non è il titolo di un nuovo film thriller, ma una situazione tangibile con cui la cosiddetta “città del lavoro” deve fare i conti, più salati che mai. La casa non rappresenta infatti più un problema esclusivo delle persone che vivono situazioni di fragilità e indigenza, ma lo è diventato anche per coloro che hanno un lavoro o stanno per essere assunti, e sul territorio ci devono vivere (e magari non solo sopravvivere).</p>



<p>La questione dei costi delle abitazioni è così entrata a pieno titolo nell&#8217;ambito del lavoro, perché il rischio non è solo quello di non avvicinare nuove risorse alla città di Milano, ma anche di perdere quelle già presenti a causa di abbandoni annunciati di progetti professionali, come in effetti sta accadendo.</p>



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<h2 id="h-milano-e-il-costo-delle-abitazioni-e-ancora-lei-la-piu-cara-in-italia">Milano e il costo delle abitazioni: è ancora lei la più cara in Italia</h2>



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<p>Secondo un’indagine realizzata da Tecnocasa, <strong>Milano</strong> si configura come <strong>la città più cara per acquistare</strong> un appartamento di 85 metri quadrati: sembra ci vogliano 12,8 anni di stipendio; a seguire Roma e Firenze.</p>



<p>Non va meglio per la questione<strong> affitti</strong>, al centro di questo articolo. L’Osservatorio semestrale di Immobiliare.it afferma che sono necessari mediamente&nbsp;<strong>20 euro al metro quadro</strong>. Conti alla mano, per circa 100 metri quadrati si arriva tranquillamente a spendere 2.000 euro mensili. Non stupiscono nemmeno quasi più i 1.000 euro richiesti per monolocali, una tipologia di appartamento molto ricercata a Milano. Tutto questo in un’Italia dove i salari sono più bassi rispetto ai livelli europei.</p>



<p>Conti alla mano, guadagnando uno stipendio di circa 1.400 euro netti al mese, anche con un’assunzione a tempo indeterminato, come può risultare sostenibile – se si è da soli o con famiglia monoreddito – sostenere un affitto o un mutuo che sfiora o sorpassa i 1.000 euro mensili? Cibo e bollette (alle stelle) restano un appuntamento fisso, e aggiungere la questione benzina, spese mediche e non solo, significa rischiare di affogare.</p>



<p>La questione è così impattante e diffusa da determinare un <strong>effetto domino</strong> non solo sulle persone che cercano lavoro, ma anche sulle <strong>imprese</strong>, che, nei casi di mansioni che non prevedono lo smart working, non riescono a tenere i dipendenti sul territorio. E così siamo di fronte a una sorta di paradosso, perché l’emergenza abitativa è diventata un problema strutturale.</p>



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<h2 id="h-sergio-de-feudis-delegato-sindacale-atm-i-nostri-dipendenti-rifiutano-le-case-convenzionate-perche-in-periferia">Sergio De Feudis, delegato sindacale ATM: “I nostri dipendenti rifiutano le case convenzionate perché in periferia”</h2>



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<p>Un esempio ce lo porta <strong>Sergio De Feudis</strong>, delegato sindacale nell’Azienda Trasporti Milanesi –<strong>ATM</strong>.</p>



<p>“Confermo che la questione dei costi delle abitazioni è un problema. Anche i salari insufficienti hanno il loro peso: chi inizia questo lavoro guadagna infatti 1.300 euro al mese”. De Feudis ci parla di un <strong>progetto</strong> attivato dalla Fondazione ATM in sinergia con ALER attraverso il quale vengono messe a disposizione delle&nbsp;<strong>abitazioni in affitto a costi calmierati,</strong><strong>&nbsp;</strong>attraverso una<strong>&nbsp;convenzione</strong>.</p>



<p>“Per usufruire di questa possibilità occorre avere un&nbsp;<strong>contratto di assunzione con ATM</strong><strong>&nbsp;</strong>ed essere iscritti alla fondazione”, specifica. “In Fondazione ATM c’è uno&nbsp;<strong>sportello di ascolto</strong>&nbsp;dove i dipendenti possono fare richiesta di abitazione, non c’è bisogno di presentare l&#8217;ISEE. La fondazione presenta le possibilità a disposizione e accompagna la persona a visitare le <strong>abitazioni in zone periferiche</strong> di Milano. La&nbsp;<strong>convenzione</strong><strong> dura un anno</strong>, diamo agio per altri due o tre mesi in aggiunta, ma non si va oltre”.</p>



<p>L&#8217;iniziativa per certi versi garantisce un servizio simile a quello delle agenzie immobiliari, ma con un fine ben preciso, che è quello di supportare lavoratori e lavoratrici nella dinamica complessa della ricerca di casa a un prezzo abbordabile. Chiediamo se il progetto abbia avuto successo, viste le premesse di aiuto fornito: “In realtà no”, risponde De Feudis con schiettezza. “Diverse persone rinunciano perché hanno <strong>timori rispetto alla zona</strong> in cui si trovano ubicate le abitazioni, considerata <strong>poco signorile</strong>”.</p>



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<h2 id="h-pierfrancesco-maran-assessore-alla-casa-del-comune-di-milano-decide-il-mercato-ma-e-in-cantiere-un-progetto-sul-welfare-abitativo">Pierfrancesco Maran, assessore alla Casa del Comune di Milano: “Decide il mercato, ma è in cantiere un progetto sul welfare abitativo”</h2>



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<p>Storie di defezioni da parte di persone che lasciano Milano per approdare su territori più economicamente sostenibili abbondano sui social e sulle pagine dei giornali, eppure al fianco di questa situazione ne permane un’altra innegabile: <strong>la domanda di affitti a Milano</strong> <strong>cresce</strong>. Se una parte di persone deve rinunciare perché i costi sono insostenibili, ce n’è un’altra che continua a cercare e a trovare casa a Milano. Con tutta evidenza, chi se lo può permettere.</p>



<p>Parliamo di questi aspetti con l’assessore alla Casa e Piano Quartieri del Comune di Milano <strong>Pierfrancesco Maran</strong>.</p>



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<p><strong>Assessore Maran, Milano è diventata una città per coloro che se la possono permettere, aspetto che cozza con l’idea di sostenibilità. Negli ultimi tempi il problema costi si è acuito: conferma? </strong><strong></strong></p>



<p>L’incremento dei prezzi è significativo ed è tipico delle città attrattive, ossia le città che registrano una domanda elevata e crescente di persone che vogliono viverci, come accade appunto a Milano.</p>



<p><strong>Tradotto: le abitazioni a Milano costano di più rispetto ad altre città perché Milano è più attrattiva?</strong><strong></strong></p>



<p>È così: le altre città non sono così attrattive dal punto di vista abitativo e quindi non registrano la stessa crescita. Oggi Milano con Bologna è l’unica città ad attrarre più persone con profili simili, perlopiù giovani studenti o lavoratori che cercano soluzioni di piccole dimensioni. Fino a dieci anni fa altre città italiane erano parimenti attrattive e si distribuivano questo carico di migrazioni, che oggi si concentra su Milano.</p>



<p><strong>Milano è molto ricercata per lavoro e per studio, però nel momento in cui viene offerta un’opportunità di lavoro capitano diversi casi di persone che devono rinunciarvi perché con quello che pagano di affitto non ce la fanno a vivere. La contraddizione resta ed è palese.</strong></p>



<p>Sono convinto che ci troviamo di fronte a un grande problema sociale al quale bisogna cercare di porre delle limitazioni, perché può diventare selettivo ed escludente. Non lo considero però un problema di carattere economico, altrimenti le case a Milano rimarrebbero sfitte, e questo di fatto non accade: i dati ci dicono in maniera evidente che la domanda qui cresce. Non mancano coloro che vogliono vivere a Milano alle condizioni date, che ammetto essere oggettivamente importanti. Faccio un esempio: se un proprietario mette un monolocale in affitto a 1.100 euro al mese ha la coda di persone che sono disposte ad abitarlo in cambio di quel prezzo, anche se gli stipendi non salgono e ci sono tante persone che non possono permettersi la città attuale. L’affitto è di certo una fonte di reddito importante per i milanesi, e la casa resta un bene privato regolato dalla dinamica della domanda e dell’offerta dove purtroppo è difficile intervenire. Va però anche detto che se calasse la domanda calerebbero anche i costi, ma questo non accade. È normale che i proprietari cerchino di ottenere il prezzo più alto.</p>



<p><strong>Ci troviamo di fronte a una spaccatura che per Milano è diventata una ferita: prezzi alti alimentati da una continua richiesta, e persone che devono abbandonare progetti di vita e lavoro perché non se li possono permettere. Che cosa può fare per loro l’ente pubblico, fermo restando che non può decidere né delimitare i costi degli affitti?</strong></p>



<p>L’unico sistema che ad oggi può funzionare in zone così dense è quello del bonus affitti, ossia una leva di welfare che consenta ai lavoratori di accedere ad affitti coerenti con l’aspettativa.</p>



<p><strong>Ci spieghi meglio.</strong></p>



<p>A questo proposito sto cercando di dialogare con l’Agenzia delle Entrate. Credo infatti si debba lavorare a una leva di welfare più adeguata e che coinvolga più persone. Ad oggi il bonus affitti, che prevede un contributo annuo di 3.000 euro, arriva infatti alla classe media ed è utilizzabile da 5-7.000 persone, mentre se potesse essere strutturalmente esteso a 40-50.000 utenti potrebbe aiutare ad alleviare il peso del costo degli affitti. Tutto questo considerando anche che Milano è una città di nuclei monofamiliari, e quindi la maggior parte degli affittuari non ha nemmeno il sollievo di essere in due a condividere le spese.</p>



<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p><em>Lo scorso settembre con SenzaFiltro siamo venuti a conoscenza di un <strong>progetto</strong>, ancora allo stato embrionale perché abbozzato a maggio, che riguarda il <strong>welfare abitativo</strong> e che ha come capofila proprio l’assessorato alla Casa. Tale progetto rientra anche tra i punti del cosiddetto Patto per il lavoro di Milano, che prevede oltre 70 azioni e che è stato firmato il 29 aprile scorso da varie realtà: Comune di Milano, CGIL, CISL, UIL, Città Metropolitana, Assolombarda, Confcommercio, Camera di Commercio, AFOL metropolitana. </em><strong><em>Maran conferma la notizia</em></strong><em>.</em></p>



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<p><strong>Il progetto ha già un nome?</strong><strong></strong></p>



<p>Informalmente lo stiamo chiamando “Case ai lavoratori”, ma dobbiamo confermarlo. Nonostante i corposi investimenti che il Comune sta facendo da anni sul sistema delle case pubbliche non riusciamo ad arrivare al 100% degli appartamenti affittati: il tema delle case popolari è un sistema di welfare in perdita. Stiamo ragionando se destinare una parte del patrimonio che si fatica a riqualificare nei condomini misti, ossia non al cento per cento pubblici. Ci ritroviamo infatti con centinaia di appartamenti vuoti da ristrutturare e che potrebbero essere destinati ai lavoratori con un canone concordato.</p>



<p><strong>Per capire la dinamica in maniera fruibile facciamo finta che io sia una persona che trova lavoro a Milano e necessita di questo progetto: nella pratica come mi supporterebbe?</strong></p>



<p>Il progetto potrebbe prevedere che il lavoratore si faccia carico di una ristrutturazione, che si aggira sui 15.000 euro, magari da gestire attraverso un piccolo mutuo, e stipuli un contratto di affitto 4+4. Anziché pagare 1.000 euro di affitto al mese ne pagherebbe 300 più il mutuo della ristrutturazione, quindi il 35% in meno, a seconda dei calcoli, di quello che costerebbe affittare un appartamento uguale sullo stesso pianerottolo. Ricapitolando: 2.000 euro all’anno di mutuo per ristrutturazione più 3.000 di affitto all’anno, per un totale di 6.000 euro spesi annualmente per un appartamento che sul mercato ne costa 12.000 o anche 13.000. Questo permetterebbe di massimizzare l’utilizzo del patrimonio pubblico venendo allo stesso tempo incontro alle esigenze dei lavoratori con un prezzo più abbordabile per loro. In più loro stessi aiuterebbero a gestire bene e a tutelare questi spazi.</p>



<p><strong>Ma questo contratto 4+4 avrebbe delle garanzie?</strong></p>



<p>Certo: chi ci va ad abitare se vuole può disdirlo, ma nessun altro può rescinderlo prima.</p>



<p><strong>I criteri di accesso li avete stabiliti, tipo ISEE, o sono ancora in fase di ragionamento?</strong></p>



<p>Stiamo ancora stabilendo la modalità di accesso avendo chiari i soggetti a cui ci stiamo rivolgendo, soprattutto giovani e nuove famiglie, che pur lavorando faticano a stare sul mercato degli affitti della città.</p>



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<h2 id="h-l-assessora-alessia-cappello-alcune-aziende-hanno-scelto-di-aiutarci-ad-affrontare-la-questione-abitativa">L’assessora Alessia Cappello: “Alcune aziende hanno scelto di aiutarci ad affrontare la questione abitativa”</h2>



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<p>Sempre lo scorso settembre ci siamo confrontati anche con <strong>Alessia Cappello</strong>, assessora allo Sviluppo economico e Politiche del Lavoro del Comune di Milano.</p>



<p>“Il tema dell’abitare incide con forza non solo su chi sceglie di venire a Milano per studiare o lavorare, ma anche per chi già ci vive. Il problema è evidente e vogliamo trovare delle soluzioni, anche se non sarà semplice”. E sottolinea: “Per il discorso abitazione ci sono <strong>aziende</strong> che hanno deciso spontaneamente di <strong>darci un aiuto</strong>, provando a fare con noi questa scommessa”.</p>



<p>Le difficoltà da parte di diverse persone sul fronte dei costi delle abitazioni sono tangibili. Milano è ambita per diverse ragioni, ma è anche la cartina tornasole di una dinamica che nel nostro Paese, al Nord come al Centro e al Sud, si sta estendendo a diversi aspetti: potersi permettere o meno luoghi, abitazioni, lavori, persino servizi o le stesse aspirazioni. Una forbice che sta polarizzando condizioni non solo economiche, ma anche di vita, e che hanno urgente bisogno di progetti concreti.</p>



<p>Che cosa succederà si può dire che lo scopriremo solo vivendo, ma per una buona fetta di persone non certo abitando; perlomeno in quelle città dove il termine “sostenibile” è ormai più una coccarda per alcuni che una promessa per tutti.</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/welfare/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Welfare</a></strong>.</em></p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi il mensile 116, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-116/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Cavalli di battaglia</strong></a>&#8220;, e il reportage &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/112-reportage-sua-sanita-pnrr/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Sua Sanità PNRR</strong></a>&#8220;.</em></p>



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<p><em>Photo credits: notiziarioimmobiliare.it</em></p>


Boschi verticali e affitti di traverso. Milano prima per costo delle abitazioni prova a correre ai ripari

<p>Strano Paese il nostro, in cui a Napoli si assumono dodici laureati (su duecento giovani che hanno superato il concorso) per un posto da netturbino mentre contemporaneamente a Genova i ricercatori scioperano per ottenere il riconoscimento legittimo del loro lavoro.</p>
<p>Se al momento i netturbini napoletani sembrano essere stati &#8220;messi in sicurezza&#8221;, in entrambi i casi c&#8217;è da chiedersi perché &#8220;il sistema lavoro&#8221; che va dalle Istituzioni ai Centri per l&#8217;Impiego, dalle scuole alle imprese, sia così distratto o semplicemente impreparato da non riuscire a collocare le persone giuste al posto giusto e soprattutto a tutelare le professioni più strategiche in quella che sarebbe la necessaria visione di futuro di un Paese.  </p>
<p><strong>L&#8217;Istituto Italiano di Tecnologia</strong> è considerato una delle Eccellenze accademiche del nostro Paese, tanto da mutuare l&#8217;affidamento di un Ministero a Roberto Cingolani, ex direttore scientifico dell&#8217;Istituto, da parte dei Governi prima Draghi e poi Meloni.</p>
<p>Ma a quanto pare, l&#8217;aurea di innovazione ed eccellenza con cui troppo spesso in Italia si etichettano (soprattutto) le Accademie, prima o poi si scontra con una realtà fatta di opposizione al merito e alla trasparenza. È di ieri la notizia che i ricercatori dell&#8217;IIT sono in sciopero per ottenere quello che per qualsiasi altro lavoratore in Italia è un diritto costituzionale: l&#8217;adeguamento del loro lavoro ad un contratto collettivo nazionale di riferimento.</p>
<p>A quanto pare, proprio nel Regno dell&#8217;Innovazione i ricercatori, i tecnici e gli amministrativi accusano l&#8217;Istituto di creare precarietà e fuga di cervelli, di bloccare gli avanzamenti di carriera, di operare con modalità paternalistiche. Tutto questo nonostante i fondi non manchino di certo visto che l&#8217;Istituto è ben sponsorizzato dai privati e riceve circa 90 milioni di Euro solo dal Ministero dell&#8217;Economia.</p>
<p>La situazione ha dell&#8217;incredibile: 1900 dipendenti gestiti con contratti &#8220;individuali&#8221; e mal tutelati da una &#8220;rappresentanza di lavoratori&#8221; autonoma, ma da nessuna RSU interna. In poche parole stiamo parlando di un sistema che genera inevitabilmente pochissima trasparenza sui ruoli, le mansioni, le retribuzioni, le promozioni, i premi, gli inquadramenti, le pause. Il tutto nel nome di un &#8220;modello flessibile e competitivo&#8221; inaugurato da Cingolani stesso che negli anni è diventato sinonimo di &#8220;discrezionalità&#8221;. Parola elegante che nasconde un sistema di favori più affine ad una Pubblica Amministrazione qualsiasi o ad un&#8217;impresa padronale che non ad un&#8217;eccellenza dell&#8217;innovazione. </p>
<p>I ricercatori sono una categoria preziosissima di cui pare si occupino solo i media quando si tratta di sciorinare le cifre dell&#8217;emorragia di cervelli in fuga che ogni anno raggiungono le Università e i centri di ricerca di altri Paesi ma che non riusciamo a tutelare &#8211; non solo nelle Università &#8211; ma nemmeno nei luoghi deputati al futuro. Un evergreen che &#8220;tira sempre&#8221; nei grandi convegni, nei meeting delle Associazioni di Categoria, nei programmi elettorali raffazzonati in fretta e furia e infarciti di &#8220;empowerment al femminile&#8221;, &#8220;inclusione&#8221;, &#8220;sostenibilità&#8221; e &#8220;giovani&#8221;. Di cui poi, all&#8217;atto pratico nessuno si occupa.</p>
<p>Come sempre, l&#8217;innovazione è una bellissima parola che in Italia si scontra con la tradizione nella sua peggiore accezione. </p>
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Danzi

Osvaldo Danzi

Appassionato di Umane Risorse e tecnologie. Inizia l’attività di recruiter nel 1997 selezionando profili legati al settore alberghiero e oggi collabora con SCR Consulenza seguendo le selezioni di middle e top management. È il fondatore della Business Community FiordiRisorse nominata da Linkedin come caso di successo italiano, l’ideatore dell’unico Master italiano per manager e imprenditori definito etico, lowcost, itinerante che in otto anni è stato ospitato in oltre 150 aziende italiane. Collabora con Harvard Business Review. Tre volte speaker di TedX, è fra gli ideatori di Nobìlita, il Festival della Cultura del lavoro. &nbsp; E-mail: osvaldo.d@fiordirisorse.eu

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Ricercatori e lavoratori dell&#8217;IIT di Genova in sciopero per il riconoscimento di un contratto di lavoro regolare. Anche l&#8217;innovazione non sfugge alla tradizione.

L&#8217;innovativo precariato dell&#8217;Istituto Italiano di Tecnologia - Informazione senza filtro

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<p>Prende vita un nuovo <strong>3 dicembre</strong>, la giornata internazionale dedicata ai <strong>diritti delle</strong> <strong>persone con disabilità</strong> cui si affianca spesso – e purtroppo – un corteo di frasi fatte e di nodi al fazzoletto mai sciolti. Un corteo che ferisce per l’ipocrisia di cui è intriso. Parliamo di una giornata simbolica: i diritti, per dirsi tali, andrebbero infatti riconosciuti e tutelati ogni giorno, ma la realtà ci mostra una situazione ben diversa. Proprio per questo con <em>SenzaFiltro</em> ci occupiamo di diritti, <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/inclusione/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">inclusione</a> e <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/discriminazioni/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">discriminazioni</a> anche in giorni privi di dedica, dando voce a storie e vissuti che raccontano le sfaccettature di un tema che non ha e non può avere scadenze.</p>



<p>In questa occasione torniamo a focalizzarci su <strong>accessibilità </strong>e <strong>autonomia</strong>, due aspetti fondamentali inclusi nella stessa Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità. Ma come sempre è una storia in carne e ossa ad aprire un varco di potenziale consapevolezza sull’argomento.</p>



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<h2 id="h-la-disabilita-e-l-accessibilita-per-partecipare-a-tutti-gli-ambiti-della-vita">La disabilità e l’accessibilità per “partecipare a tutti gli ambiti della vita”</h2>



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<p>Prima di introdurre la vicenda che stiamo per raccontare facciamo una doverosa premessa.</p>



<p>La Convenzione ONU, ratificata in Italia nel 2009, introduce un nuovo concetto di disabilità che possiamo definire a tutti gli effetti “dinamico”. La disabilità è così definita come “il risultato dell’interazione tra persone con<strong><em> </em></strong>minorazioni e barriere attitudinali <strong>e</strong> <strong>ambientali</strong>,<em> </em>che impediscono la piena ed efficace<em> </em>partecipazione nella società su una base di parità<em> </em>con gli altri”. Un ambiente fatto di persone, strutture, costruzioni e allestimenti che hanno un ruolo, e quindi delle <strong>responsabilità</strong> al riguardo.</p>



<p>In particolare l’<strong>articolo 9 </strong>della Convenzione è dedicato al tema <strong>accessibilità</strong>: “Al fine di consentire alle persone con disabilità di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli ambiti della vita, gli Stati Parti devono prendere misure appropriate per assicurare alle persone con disabilità, su base di <strong>eguaglianza</strong> con gli altri, l’<strong>accesso</strong> all’ambiente fisico, ai <strong>trasporti</strong>, all’informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o offerti al pubblico, sia nelle aree urbane che nelle aree rurali”.</p>



<p>E proprio traporti, autonomia e accessibilità sono al centro della storia di <strong>Irene</strong> (nome di fantasia), che vive in un piccolo Comune della <strong>bassa modenese</strong>.</p>



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<h2 id="h-stessa-stazione-due-tratte-una-accessibile-l-altra-no-la-segnalazione-di-irene">Stessa stazione, due tratte: una accessibile, l’altra no. La segnalazione di Irene</h2>



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<p>Irene è una giovane donna che studia, svolge attività di tirocinio, è impegnata in numerose iniziative di carattere culturale e ha una disabilità di tipo motorio. Aggiungiamo quest’ultima specifica solo perché saliente per la vicenda che intendiamo approfondire. Irene decide di andare a <strong>Bologna</strong> per partecipare al <strong>Disability Pride</strong>, e il <strong>treno</strong> si configura come il mezzo di trasporto più adatto per motivi importanti e ben comprensibili, come spiega: “Oltre a inquinare di meno, è la soluzione migliore per eventi come questo perché risulta molto complicato trovare parcheggi riservati alle persone con disabilità”.</p>



<p>Irene ci illustra la sua situazione: “Premetto che la stazione del paese in cui vivo è ben servita dal punto di vista dei treni che partono per Bologna. Ci sono infatti sia i treni della tratta Bologna-Poggio Rusco sia quelli della Bologna-Verona. Per una persona con una disabilità motoria, come nel mio caso, il discorso però si complica: <strong>i treni della tratta Bologna-Verona non sono infatti accessibili in autonomia</strong>. I treni della tratta Bologna-Poggio Rusco invece lo sono, ossia non presentano <strong>dislivello tra la banchina e il treno</strong>, o comunque ne presentano uno superabile. La situazione cambia del tutto nei giorni festivi, perché i treni della tratta Bologna-Poggio Rusco mancano; occorre allora dirottarsi su quelli della tratta Bologna-Verona, che sono accessibili alle persone con disabilità ma non in autonomia, ossia serve l’operatore per salire a bordo”.</p>



<p>Irene inoltre sottolinea: “Pochi treni della linea Bologna-Verona risultano accessibili, anche con l’aiuto dell’operatore. Spesso si tratta infatti di treni vecchi e con la presenza di gradini: questo implica fatica anche con l’utilizzo del carrello elevatore, e per motivi ben comprensibili”.</p>



<p>Accessibilità e autonomia sono termini distinti, da non confondere, e Irene fa il punto della situazione: “Capisco che non si possa avere un’offerta piena come durante la settimana, ma non capisco perché nei giorni festivi ci debba essere un così grande divario. Si tratta di sostenere il <strong>diritto</strong> non solo al trasporto, ma anche alla <strong>cultura </strong>e alla <strong>libertà di movimento in autonomia</strong>, indipendentemente dalla condizione che si ha”.</p>



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<h2 id="h-costretti-a-chiedere-aiuto-ma-la-discriminazione-passa-anche-dalla-comunicazione">Costretti a chiedere aiuto. Ma la discriminazione passa anche dalla comunicazione</h2>



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<p>Irene puntualizza: “Il mio non è un capriccio, ma una questione importante che vorrei porre all’attenzione soprattutto per come è stato gestito il riscontro alla mia perplessità. In quell’occasione mi sono interfacciata, come in altri casi, con la <strong>Sala Blu</strong>, che gestisce il servizio per le persone con ridotta mobilità. Mi è stato risposto di contattarli il giorno prima perché così avrebbero saputo con certezza quale materiale sarebbe stato presente sul treno di riferimento. Così ho fatto, e mi hanno risposto”.</p>



<p>Irene ci mostra la <strong>risposta</strong> ricevuta, che di certo non presenta elementi di maleducazione, ma balza all’occhio la questione da lei evidenziata: “I treni da Lei indicati sono in materiale cosiddetto ‘Vivalto’ non idoneo alla salita in autonomia. Questo perché essendo domenica mancano tutti i treni della tratta Poggio Rusco-Bologna che sarebbero stati per Lei idonei. <strong>Se proprio vuole prendere i treni da Lei indicati</strong> dobbiamo fornirle la nostra assistenza. Ci faccia sapere”.</p>



<p>“Mi sembra assurdo che nel 2022 <strong>l’autonomia</strong> venga tradotta come una <strong>pretesa</strong> e che si punti sull’assistenzialismo”, chiosa Irene. “In più trovo fuorviante l’espressione ‘<strong>se proprio vuole</strong>’: fa sentire un peso la persona in questione, ed è una sensazione che chi accede ai servizi non dovrebbe provare. Mi sono sentita di dover rinunciare al treno dirottandomi su altre soluzioni”. E aggiunge: “Occorre investire di più sul binomio <strong>accessibilità</strong> e <strong>autonomia</strong>, e in una <strong>comunicazione </strong>adeguata da parte dei servizi che non faccia sentire in alcun modo le persone con disabilità un peso. Ho posto la questione a coloro che hanno esplicitato la comunicazione, ma non ho ricevuto risposta”.</p>



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<h2 id="h-un-luogo-a-misura-di-persona-con-disabilita-diventa-a-misura-di-tutti">“Un luogo a misura di persona con disabilità diventa a misura di tutti”</h2>



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<p>Irene non è a digiuno di esperienze lacunose o negative sul fronte trasporti: “Mi è già capitato più volte che mancasse la possibilità di salire sull’<strong>autobus</strong>, e quindi che non fosse accessibile nonostante lo avessi prenotato nel rispetto dei tempi. In uno di questi frangenti un autista mi aveva suggerito di chiamare mia madre per farmi venire a prendere, come se fosse una cosa implicita per una persona con disabilità avere un genitore che non lavora ed è disponibile a farsi diversi chilometri di strada di andata e ritorno, o essere accompagnata da qualcuno a piedi. Quel giorno sono riuscita a salire in autobus solo grazie a dei miei amici che mi hanno caricata di peso sul bus”.</p>



<p>Le cose non vanno meglio con i treni: “Alcuni garantiscono autonomia e accessibilità, ma mi è anche capitato di viaggiare su treni con <strong>cinture della sicurezza non funzionanti</strong>. Non sono mancate occasioni in cui sul treno mi è stato detto: ‘Ma tanto non succede nulla se metti i freni della carrozzina’: una risposta non adeguata. A volte, ad esempio, si fa fatica persino a raggiungere i pulsanti della richiesta di aiuto per comunicare con il capotreno. Non dimentichiamo la questione bagno: per fortuna non ho mai avuto la necessità, ma chi potrebbe portarmici se non sempre riesco prima ad avvisare? Sinceramente mi chiedo se in Italia esista un trasporto per tutti”.</p>



<p>Se qualcuno a livello governativo fosse disponibile, Irene si dichiara aperta al <strong>confronto</strong> per proporre soluzioni. Intanto la sua istanza suona chiara e forte più che mai: “Credo sia ora di capire che le battaglie per i diritti portate avanti da persone con disabilità o dai caregiver non sono battaglie che riguardano soltanto loro, ma l’<strong>intera società</strong>. I miglioramenti raggiunti con queste azioni coinvolgono infatti anche bambini, donne incinte, persone anziane, genitori che spingono un passeggino, chiunque conviva con una disabilità magari temporanea a causa di una frattura. Bisogna partire dalla logica che un luogo a misura di persona con <strong>disabilità </strong>diventa a misura di <strong>tutti</strong>”.</p>



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<p><em>Photo credits: concreteonlus.org</em></p>


Mezzi di trasporto, non mezzi passeggeri: disabilità e accessibilità, diritti a intermittenza

<p>Una promessa e una garanzia di trovare lavoro e stabilità. <strong>Milano</strong> per diverso tempo è stata definita da questa aspettativa, confermata per decenni. Oggi “stabilità” è un termine che cola a picco in generale, perché fuori luogo e fuori tempo oltre che stucchevole rispetto al periodo storico che stiamo vivendo.</p>
<p>Una cosa però è sicura: se da un lato le offerte di lavoro a Milano non mancano, dall’altro è innegabile che risultino insostenibili a causa di quello che è diventato un problema rilevante: il <strong>costo delle abitazioni</strong>.</p>
<p><strong>Casa contro lavoro</strong> non è il titolo di un nuovo film thriller, ma una situazione tangibile con cui la cosiddetta “città del lavoro” deve fare i conti, più salati che mai. La casa non rappresenta infatti più un problema esclusivo delle persone che vivono situazioni di fragilità e indigenza, ma lo è diventato anche per coloro che hanno un lavoro o stanno per essere assunti, e sul territorio ci devono vivere (e magari non solo sopravvivere).</p>
<p>La questione dei costi delle abitazioni è così entrata a pieno titolo nell&#8217;ambito del lavoro, perché il rischio non è solo quello di non avvicinare nuove risorse alla città di Milano, ma anche di perdere quelle già presenti a causa di abbandoni annunciati di progetti professionali, come in effetti sta accadendo.</p>
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<h2 id="h-milano-e-il-costo-delle-abitazioni-e-ancora-lei-la-piu-cara-in-italia">Milano e il costo delle abitazioni: è ancora lei la più cara in Italia</h2>
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<p>Secondo un’indagine realizzata da Tecnocasa, <strong>Milano</strong> si configura come <strong>la città più cara per acquistare</strong> un appartamento di 85 metri quadrati: sembra ci vogliano 12,8 anni di stipendio; a seguire Roma e Firenze.</p>
<p>Non va meglio per la questione<strong> affitti</strong>, al centro di questo articolo. L’Osservatorio semestrale di Immobiliare.it afferma che sono necessari mediamente&nbsp;<strong>20 euro al metro quadro</strong>. Conti alla mano, per circa 100 metri quadrati si arriva tranquillamente a spendere 2.000 euro mensili. Non stupiscono nemmeno quasi più i 1.000 euro richiesti per monolocali, una tipologia di appartamento molto ricercata a Milano. Tutto questo in un’Italia dove i salari sono più bassi rispetto ai livelli europei.</p>
<p>Conti alla mano, guadagnando uno stipendio di circa 1.400 euro netti al mese, anche con un’assunzione a tempo indeterminato, come può risultare sostenibile – se si è da soli o con famiglia monoreddito – sostenere un affitto o un mutuo che sfiora o sorpassa i 1.000 euro mensili? Cibo e bollette (alle stelle) restano un appuntamento fisso, e aggiungere la questione benzina, spese mediche e non solo, significa rischiare di affogare.</p>
<p>La questione è così impattante e diffusa da determinare un <strong>effetto domino</strong> non solo sulle persone che cercano lavoro, ma anche sulle <strong>imprese</strong>, che, nei casi di mansioni che non prevedono lo smart working, non riescono a tenere i dipendenti sul territorio. E così siamo di fronte a una sorta di paradosso, perché l’emergenza abitativa è diventata un problema strutturale.</p>
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<h2 id="h-sergio-de-feudis-delegato-sindacale-atm-i-nostri-dipendenti-rifiutano-le-case-convenzionate-perche-in-periferia">Sergio De Feudis, delegato sindacale ATM: “I nostri dipendenti rifiutano le case convenzionate perché in periferia”</h2>
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<p>Un esempio ce lo porta <strong>Sergio De Feudis</strong>, delegato sindacale nell’Azienda Trasporti Milanesi –<strong>ATM</strong>.</p>
<p>“Confermo che la questione dei costi delle abitazioni è un problema. Anche i salari insufficienti hanno il loro peso: chi inizia questo lavoro guadagna infatti 1.300 euro al mese”. De Feudis ci parla di un <strong>progetto</strong> attivato dalla Fondazione ATM in sinergia con ALER attraverso il quale vengono messe a disposizione delle&nbsp;<strong>abitazioni in affitto a costi calmierati,</strong><strong>&nbsp;</strong>attraverso una<strong>&nbsp;convenzione</strong>.</p>
<p>“Per usufruire di questa possibilità occorre avere un&nbsp;<strong>contratto di assunzione con ATM</strong><strong>&nbsp;</strong>ed essere iscritti alla fondazione”, specifica. “In Fondazione ATM c’è uno&nbsp;<strong>sportello di ascolto</strong>&nbsp;dove i dipendenti possono fare richiesta di abitazione, non c’è bisogno di presentare l&#8217;ISEE. La fondazione presenta le possibilità a disposizione e accompagna la persona a visitare le <strong>abitazioni in zone periferiche</strong> di Milano. La&nbsp;<strong>convenzione</strong><strong> dura un anno</strong>, diamo agio per altri due o tre mesi in aggiunta, ma non si va oltre”.</p>
<p>L&#8217;iniziativa per certi versi garantisce un servizio simile a quello delle agenzie immobiliari, ma con un fine ben preciso, che è quello di supportare lavoratori e lavoratrici nella dinamica complessa della ricerca di casa a un prezzo abbordabile. Chiediamo se il progetto abbia avuto successo, viste le premesse di aiuto fornito: “In realtà no”, risponde De Feudis con schiettezza. “Diverse persone rinunciano perché hanno <strong>timori rispetto alla zona</strong> in cui si trovano ubicate le abitazioni, considerata <strong>poco signorile</strong>”.</p>
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<h2 id="h-pierfrancesco-maran-assessore-alla-casa-del-comune-di-milano-decide-il-mercato-ma-e-in-cantiere-un-progetto-sul-welfare-abitativo">Pierfrancesco Maran, assessore alla Casa del Comune di Milano: “Decide il mercato, ma è in cantiere un progetto sul welfare abitativo”</h2>
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<p>Storie di defezioni da parte di persone che lasciano Milano per approdare su territori più economicamente sostenibili abbondano sui social e sulle pagine dei giornali, eppure al fianco di questa situazione ne permane un’altra innegabile: <strong>la domanda di affitti a Milano</strong> <strong>cresce</strong>. Se una parte di persone deve rinunciare perché i costi sono insostenibili, ce n’è un’altra che continua a cercare e a trovare casa a Milano. Con tutta evidenza, chi se lo può permettere.</p>
<p>Parliamo di questi aspetti con l’assessore alla Casa e Piano Quartieri del Comune di Milano <strong>Pierfrancesco Maran</strong>.</p>
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<p><strong>Assessore Maran, Milano è diventata una città per coloro che se la possono permettere, aspetto che cozza con l’idea di sostenibilità. Negli ultimi tempi il problema costi si è acuito: conferma? </strong><strong></strong></p>
<p>L’incremento dei prezzi è significativo ed è tipico delle città attrattive, ossia le città che registrano una domanda elevata e crescente di persone che vogliono viverci, come accade appunto a Milano.</p>
<p><strong>Tradotto: le abitazioni a Milano costano di più rispetto ad altre città perché Milano è più attrattiva?</strong><strong></strong></p>
<p>È così: le altre città non sono così attrattive dal punto di vista abitativo e quindi non registrano la stessa crescita. Oggi Milano con Bologna è l’unica città ad attrarre più persone con profili simili, perlopiù giovani studenti o lavoratori che cercano soluzioni di piccole dimensioni. Fino a dieci anni fa altre città italiane erano parimenti attrattive e si distribuivano questo carico di migrazioni, che oggi si concentra su Milano.</p>
<p><strong>Milano è molto ricercata per lavoro e per studio, però nel momento in cui viene offerta un’opportunità di lavoro capitano diversi casi di persone che devono rinunciarvi perché con quello che pagano di affitto non ce la fanno a vivere. La contraddizione resta ed è palese.</strong></p>
<p>Sono convinto che ci troviamo di fronte a un grande problema sociale al quale bisogna cercare di porre delle limitazioni, perché può diventare selettivo ed escludente. Non lo considero però un problema di carattere economico, altrimenti le case a Milano rimarrebbero sfitte, e questo di fatto non accade: i dati ci dicono in maniera evidente che la domanda qui cresce. Non mancano coloro che vogliono vivere a Milano alle condizioni date, che ammetto essere oggettivamente importanti. Faccio un esempio: se un proprietario mette un monolocale in affitto a 1.100 euro al mese ha la coda di persone che sono disposte ad abitarlo in cambio di quel prezzo, anche se gli stipendi non salgono e ci sono tante persone che non possono permettersi la città attuale. L’affitto è di certo una fonte di reddito importante per i milanesi, e la casa resta un bene privato regolato dalla dinamica della domanda e dell’offerta dove purtroppo è difficile intervenire. Va però anche detto che se calasse la domanda calerebbero anche i costi, ma questo non accade. È normale che i proprietari cerchino di ottenere il prezzo più alto.</p>
<p><strong>Ci troviamo di fronte a una spaccatura che per Milano è diventata una ferita: prezzi alti alimentati da una continua richiesta, e persone che devono abbandonare progetti di vita e lavoro perché non se li possono permettere. Che cosa può fare per loro l’ente pubblico, fermo restando che non può decidere né delimitare i costi degli affitti?</strong></p>
<p>L’unico sistema che ad oggi può funzionare in zone così dense è quello del bonus affitti, ossia una leva di welfare che consenta ai lavoratori di accedere ad affitti coerenti con l’aspettativa.</p>
<p><strong>Ci spieghi meglio.</strong></p>
<p>A questo proposito sto cercando di dialogare con l’Agenzia delle Entrate. Credo infatti si debba lavorare a una leva di welfare più adeguata e che coinvolga più persone. Ad oggi il bonus affitti, che prevede un contributo annuo di 3.000 euro, arriva infatti alla classe media ed è utilizzabile da 5-7.000 persone, mentre se potesse essere strutturalmente esteso a 40-50.000 utenti potrebbe aiutare ad alleviare il peso del costo degli affitti. Tutto questo considerando anche che Milano è una città di nuclei monofamiliari, e quindi la maggior parte degli affittuari non ha nemmeno il sollievo di essere in due a condividere le spese.</p>
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<p><em>Lo scorso settembre con SenzaFiltro siamo venuti a conoscenza di un <strong>progetto</strong>, ancora allo stato embrionale perché abbozzato a maggio, che riguarda il <strong>welfare abitativo</strong> e che ha come capofila proprio l’assessorato alla Casa. Tale progetto rientra anche tra i punti del cosiddetto Patto per il lavoro di Milano, che prevede oltre 70 azioni e che è stato firmato il 29 aprile scorso da varie realtà: Comune di Milano, CGIL, CISL, UIL, Città Metropolitana, Assolombarda, Confcommercio, Camera di Commercio, AFOL metropolitana. </em><strong><em>Maran conferma la notizia</em></strong><em>.</em></p>
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<p><strong>Il progetto ha già un nome?</strong><strong></strong></p>
<p>Informalmente lo stiamo chiamando “Case ai lavoratori”, ma dobbiamo confermarlo. Nonostante i corposi investimenti che il Comune sta facendo da anni sul sistema delle case pubbliche non riusciamo ad arrivare al 100% degli appartamenti affittati: il tema delle case popolari è un sistema di welfare in perdita. Stiamo ragionando se destinare una parte del patrimonio che si fatica a riqualificare nei condomini misti, ossia non al cento per cento pubblici. Ci ritroviamo infatti con centinaia di appartamenti vuoti da ristrutturare e che potrebbero essere destinati ai lavoratori con un canone concordato.</p>
<p><strong>Per capire la dinamica in maniera fruibile facciamo finta che io sia una persona che trova lavoro a Milano e necessita di questo progetto: nella pratica come mi supporterebbe?</strong></p>
<p>Il progetto potrebbe prevedere che il lavoratore si faccia carico di una ristrutturazione, che si aggira sui 15.000 euro, magari da gestire attraverso un piccolo mutuo, e stipuli un contratto di affitto 4+4. Anziché pagare 1.000 euro di affitto al mese ne pagherebbe 300 più il mutuo della ristrutturazione, quindi il 35% in meno, a seconda dei calcoli, di quello che costerebbe affittare un appartamento uguale sullo stesso pianerottolo. Ricapitolando: 2.000 euro all’anno di mutuo per ristrutturazione più 3.000 di affitto all’anno, per un totale di 6.000 euro spesi annualmente per un appartamento che sul mercato ne costa 12.000 o anche 13.000. Questo permetterebbe di massimizzare l’utilizzo del patrimonio pubblico venendo allo stesso tempo incontro alle esigenze dei lavoratori con un prezzo più abbordabile per loro. In più loro stessi aiuterebbero a gestire bene e a tutelare questi spazi.</p>
<p><strong>Ma questo contratto 4+4 avrebbe delle garanzie?</strong></p>
<p>Certo: chi ci va ad abitare se vuole può disdirlo, ma nessun altro può rescinderlo prima.</p>
<p><strong>I criteri di accesso li avete stabiliti, tipo ISEE, o sono ancora in fase di ragionamento?</strong></p>
<p>Stiamo ancora stabilendo la modalità di accesso avendo chiari i soggetti a cui ci stiamo rivolgendo, soprattutto giovani e nuove famiglie, che pur lavorando faticano a stare sul mercato degli affitti della città.</p>
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<h2 id="h-l-assessora-alessia-cappello-alcune-aziende-hanno-scelto-di-aiutarci-ad-affrontare-la-questione-abitativa">L’assessora Alessia Cappello: “Alcune aziende hanno scelto di aiutarci ad affrontare la questione abitativa”</h2>
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<p>Sempre lo scorso settembre ci siamo confrontati anche con <strong>Alessia Cappello</strong>, assessora allo Sviluppo economico e Politiche del Lavoro del Comune di Milano.</p>
<p>“Il tema dell’abitare incide con forza non solo su chi sceglie di venire a Milano per studiare o lavorare, ma anche per chi già ci vive. Il problema è evidente e vogliamo trovare delle soluzioni, anche se non sarà semplice”. E sottolinea: “Per il discorso abitazione ci sono <strong>aziende</strong> che hanno deciso spontaneamente di <strong>darci un aiuto</strong>, provando a fare con noi questa scommessa”.</p>
<p>Le difficoltà da parte di diverse persone sul fronte dei costi delle abitazioni sono tangibili. Milano è ambita per diverse ragioni, ma è anche la cartina tornasole di una dinamica che nel nostro Paese, al Nord come al Centro e al Sud, si sta estendendo a diversi aspetti: potersi permettere o meno luoghi, abitazioni, lavori, persino servizi o le stesse aspirazioni. Una forbice che sta polarizzando condizioni non solo economiche, ma anche di vita, e che hanno urgente bisogno di progetti concreti.</p>
<p>Che cosa succederà si può dire che lo scopriremo solo vivendo, ma per una buona fetta di persone non certo abitando; perlomeno in quelle città dove il termine “sostenibile” è ormai più una coccarda per alcuni che una promessa per tutti.</p>
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Sara Bellingeri

Scrive fin da quando ha acchiappato in mano la sua prima matita e da allora la passione di raccontare e incontrare le storie non è mai sbiadita. Dal 2005 lavora come giornalista e responsabile ufficio stampa occupandosi soprattutto di diritti, ambiente, inclusione lavorativa, sanità e disabilità. Nel curriculum una laurea in Antropologia Filosofica, un master in comunicazione di eventi e tre libri. In testa la costante voglia di partire anche se il viaggio più emozionante glielo fanno fare ogni giorno i suoi bambini. “Io sono una parte di tutto quello che ho incontrato”. La frase di Tennyson rappresenta al meglio il suo modo di vivere la vita, il lavoro e le esperienze.

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È sempre Milano la città più cara in Italia dal punto di vista degli immobili, eppure la domanda di affitti continua a crescere, con le case popolari non coperte al 100%. Ma sono sempre di più i lavoratori che rinunciano a trasferirsi. L&#8217;opinione degli assessori Pierfrancesco Maran e Alessia Cappello e di Sergio De Feudis di ATM.

Boschi verticali e affitti di traverso. Milano prima per costo delle abitazioni prova a correre ai ripari - Informazione senza filtro

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<p>La <strong>scuola per adulti</strong> non fa notizia, è un dato di fatto. Se facessi un sondaggio tra chi legge, in pochi saprebbero dirmi come si strutturano i percorsi formativi, e altrettanto pochi saprebbero quali scuole sono a disposizione per chi decide di studiare e non è minorenne. Certo, le <strong>scuole serali </strong>per prendere il diploma non sono una novità, ma per gli adulti <strong>c’è anche la scuola di base</strong>, primaria e secondaria.</p>



<p>Non stupisce che se ne parli poco. Del resto, a fronte degli 8 milioni di studenti del mattino e dei 16 milioni di genitori, i problemi della scuola per adulti riguardano “solo” <strong>230.000 persone</strong>, in gran parte straniere. Anch’io sapevo poco della scuola per gli adulti finché non ho partecipato a FierIDA a Bologna. L’evento, organizzato da RI.DA.P. (Rete Italiana Istruzione degli Adulti), ha raccolto dirigenti e docenti per fare il punto sulle criticità e le prospettive dei <strong>CPIA</strong> (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti) che, anche se svolgono un ruolo fondamentale nei processi di inclusione e di coesione sociale, a dieci anni dalla loro istituzione rimangono ancora all’ombra del sistema di istruzione.</p>



<p>Lì ho incontrato <strong>Emilio Porcaro</strong>, dirigente del CPIA metropolitano di Bologna, fondatore di RI.DA.P. e autore di tre libri sull’insegnamento agli adulti, del quale si occupa dal 1999. Nei giorni successivi ci siamo risentiti perché volevo capire dove studiano gli adulti, chi sono i loro insegnanti e quali sono i problemi con cui studenti e insegnanti si confrontano tutti i giorni.</p>



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<figure class="aligncenter size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/pORCARO.jpeg"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/pORCARO-1024x683.jpeg" alt="" class="wp-image-53030" width="861" height="574" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><em>Emilio Porcaro, dirigente del CPIA metropolitano di Bologna e capofila della rete nazionale dei CPIA</em></figcaption></figure></div>


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<p>L’analisi di Emilio Porcaro non è delle più rosee. I problemi sono tanti e le soluzioni sono lontane, ma la prospettiva futura è molto interessante, anche perché secondo il capofila della rete nazionale dei CPIA l’investimento sulla scuola per adulti potrebbe offrire non solo soluzioni per gli insegnanti precari della scuola del mattino (cioè quella frequentata da bambini e ragazzi), ma anche rappresentare una svolta per 13 milioni di italiani.</p>



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<p><strong>Quando si parla di istruzione si discute sempre di scuola 0-18, ma la scuola non finisce a 18 anni, almeno non per tutti. Quali sono le esigenze di chi frequenta la scuola per adulti</strong>?</p>



<p>Spesso la scuola per adulti è una necessità perché il diploma serve per un’esigenza lavorativa. Le sedi sono in tutte le province italiane, ma dobbiamo distinguere la scuola di base dalle scuole che rilasciano i diplomi tecnici e professionali. Le scuole di base sono i CPIA, i Centri per l’Istruzione degli Adulti; sono 130 in Italia, e a ognuno di loro sono agganciate sul territorio un certo numero di scuole superiori che erogano percorsi serali. In pratica ogni CPIA è collegato a una decina di scuole serali, che sono istituti professionali e licei artistici. I licei classici e scientifici non hanno il percorso serale perché non c’è domanda. L’esigenza è esclusivamente legata a istituti tecnici e professionali, che consentono una riqualificazione lavorativa e una migliore occupabilità.</p>



<p><strong>Quali tra CPIA e scuole serali accolgono il maggior numero di studenti?</strong></p>



<p>Gli studenti adulti frequentano soprattutto le scuole di base. Ai CPIA si rivolgono anche gli stranieri per apprendere la lingua italiana, perché il titolo fornito alla fine del percorso ha un valore per fare richiesta dei documenti di soggiorno. Il 67,7% dei CPIA ha sede nelle Regioni del Centro-Nord, e ai 130 centri attivi si rivolgono 230.000 adulti e giovani adulti, l’80% dei quali stranieri. Inoltre non dobbiamo dimenticare che della scuola degli adulti fa parte anche il mondo del carcere, e ai CPIA si iscrivono anche quei minorenni che alla scuola del mattino non ce l’hanno fatta. In pratica le scuole per adulti sono per loro la seconda chance, e hanno anche il compito di ridurre e contrastare la dispersione scolastica creata dalla scuola del mattino.</p>



<p><strong>Dove studiano gli adulti?</strong></p>



<p>Quello della sede è un grande problema, perché i CPIA non hanno sedi proprie. Le scuole sono sparpagliate sul territorio e collocate all’interno di altre scuole, e in molti sottovalutano il fatto che l’edificio contribuisce a creare l’identità della scuola. Se io dico che ho fatto il Galvani, a Bologna tutti sanno cos’è; questo per i CPIA non succede. Quando i bambini finiscono il loro orario scolastico usiamo un certo numero delle loro aule, ma in generale l’offerta formativa è frammentata. Servono poli sul territorio che si occupino di alfabetizzazione, diplomi e percorsi per competenze di cittadinanza. Servirebbero luoghi dove l’offerta formativa è sempre presente, e questa è la proposta che faremo presto al nuovo ministro Giuseppe Valditara.</p>



<p><strong>Il corpo docenti è lo stesso della scuola del mattino?</strong></p>



<p>Anche il corpo docenti è frammentato, perché gli insegnanti dei CPIA lavorano solo con gli adulti, mentre i docenti dei corsi serali (quindi negli istituti tecnici e professionali) lavorano un po’ con i ragazzi e un po’ con gli adulti. Questo però implica una “non piena consapevolezza” delle metodologie e degli strumenti da mettere in campo per gli adulti. Il docente deve barcamenarsi tra approcci diversi, mentre servirebbe un organico dedicato. Questo sarà un problema che ci porteremo dietro per tanto tempo, a meno che non aumentino i posti sulla scuola per adulti. In quel caso il corpo docenti si trasformerebbe, anche perché non si tratterebbe più di lavorare solo poche ore la sera.</p>



<p><strong>Ma se la domanda non aumenta come si può pensare di potenziare la scuola per adulti?</strong></p>



<p>Serve un progetto e una visione. Il calo demografico è innegabile, quindi in futuro dovremmo aspettarci sempre meno classi nella scuola del mattino. Allo stesso tempo ci sarà sempre più bisogno di potenziare le competenze della popolazione adulta quindi potremmo utilizzare la scuola degli adulti per compensare il calo demografico e i posti di lavoro che verrebbero a mancare. Il Piano strategico nazionale per le competenze della popolazione adulta 2021 (redatto dal ministero del Lavoro) ci dice che in Italia 13 milioni di adulti hanno un basso livello di istruzione; in particolare il 39% delle persone tra i 25 e i 64 anni ha un livello di istruzione pari alla terza media. Il numero di adulti potenzialmente bisognosi di riqualificazione potrebbe anche essere superiore a 13 milioni, se si considerano le persone con livelli di istruzione medio-alti ma con scarse capacità digitali, di alfabetizzazione e di calcolo. E poi bisogna aggiungere le persone occupate in posti di lavoro poco qualificati e in lavori che subiranno un importante cambiamento tecnologico. In base a queste riflessioni, la popolazione adulta italiana potenzialmente bisognosa di riqualificazione è stimata tra il 53% e il 59% delle persone tra i 25 e i 64 anni.</p>



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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/image-4.png"><img width="886" height="645" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/11/image-4.png" alt="" class="wp-image-53035" /></a><figcaption class="wp-element-caption"><em>Livelli educativi della popolazione italiana per classi di età</em></figcaption></figure></div>


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<p><strong>A quel punto gli adulti che avrebbero bisogno di istruzione e formazione diventerebbero quasi il doppio dei ragazzi.</strong></p>



<p>Quello è il target su cui dobbiamo lavorare per ridurre il gap di istruzione della popolazione italiana, perché anche nelle indagini OCSE siamo sempre agli ultimi posti delle classifiche europee. Durante l’ultima edizione di FierIDA abbiamo percepito una maggiore attenzione da parte delle istituzioni sulle nostre criticità, quindi voglio sperare che nell’immediato futuro qualcosa possa cambiare.</p>



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<p><em>Photo credits: centropagina.it</em></p>


Altro che ripetenti: la scuola per adulti in Italia servirebbe a 13 milioni di persone

<p>Prende vita un nuovo <strong>3 dicembre</strong>, la giornata internazionale dedicata ai <strong>diritti delle</strong> <strong>persone con disabilità</strong> cui si affianca spesso – e purtroppo – un corteo di frasi fatte e di nodi al fazzoletto mai sciolti. Un corteo che ferisce per l’ipocrisia di cui è intriso. Parliamo di una giornata simbolica: i diritti, per dirsi tali, andrebbero infatti riconosciuti e tutelati ogni giorno, ma la realtà ci mostra una situazione ben diversa. Proprio per questo con <em>SenzaFiltro</em> ci occupiamo di diritti, <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/inclusione/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">inclusione</a> e <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/discriminazioni/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">discriminazioni</a> anche in giorni privi di dedica, dando voce a storie e vissuti che raccontano le sfaccettature di un tema che non ha e non può avere scadenze.</p>
<p>In questa occasione torniamo a focalizzarci su <strong>accessibilità </strong>e <strong>autonomia</strong>, due aspetti fondamentali inclusi nella stessa Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità. Ma come sempre è una storia in carne e ossa ad aprire un varco di potenziale consapevolezza sull’argomento.</p>
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<h2 id="h-la-disabilita-e-l-accessibilita-per-partecipare-a-tutti-gli-ambiti-della-vita">La disabilità e l’accessibilità per “partecipare a tutti gli ambiti della vita”</h2>
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<p>Prima di introdurre la vicenda che stiamo per raccontare facciamo una doverosa premessa.</p>
<p>La Convenzione ONU, ratificata in Italia nel 2009, introduce un nuovo concetto di disabilità che possiamo definire a tutti gli effetti “dinamico”. La disabilità è così definita come “il risultato dell’interazione tra persone con<strong><em> </em></strong>minorazioni e barriere attitudinali <strong>e</strong> <strong>ambientali</strong>,<em> </em>che impediscono la piena ed efficace<em> </em>partecipazione nella società su una base di parità<em> </em>con gli altri”. Un ambiente fatto di persone, strutture, costruzioni e allestimenti che hanno un ruolo, e quindi delle <strong>responsabilità</strong> al riguardo.</p>
<p>In particolare l’<strong>articolo 9 </strong>della Convenzione è dedicato al tema <strong>accessibilità</strong>: “Al fine di consentire alle persone con disabilità di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli ambiti della vita, gli Stati Parti devono prendere misure appropriate per assicurare alle persone con disabilità, su base di <strong>eguaglianza</strong> con gli altri, l’<strong>accesso</strong> all’ambiente fisico, ai <strong>trasporti</strong>, all’informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o offerti al pubblico, sia nelle aree urbane che nelle aree rurali”.</p>
<p>E proprio traporti, autonomia e accessibilità sono al centro della storia di <strong>Irene</strong> (nome di fantasia), che vive in un piccolo Comune della <strong>bassa modenese</strong>.</p>
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<h2 id="h-stessa-stazione-due-tratte-una-accessibile-l-altra-no-la-segnalazione-di-irene">Stessa stazione, due tratte: una accessibile, l’altra no. La segnalazione di Irene</h2>
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<p>Irene è una giovane donna che studia, svolge attività di tirocinio, è impegnata in numerose iniziative di carattere culturale e ha una disabilità di tipo motorio. Aggiungiamo quest’ultima specifica solo perché saliente per la vicenda che intendiamo approfondire. Irene decide di andare a <strong>Bologna</strong> per partecipare al <strong>Disability Pride</strong>, e il <strong>treno</strong> si configura come il mezzo di trasporto più adatto per motivi importanti e ben comprensibili, come spiega: “Oltre a inquinare di meno, è la soluzione migliore per eventi come questo perché risulta molto complicato trovare parcheggi riservati alle persone con disabilità”.</p>
<p>Irene ci illustra la sua situazione: “Premetto che la stazione del paese in cui vivo è ben servita dal punto di vista dei treni che partono per Bologna. Ci sono infatti sia i treni della tratta Bologna-Poggio Rusco sia quelli della Bologna-Verona. Per una persona con una disabilità motoria, come nel mio caso, il discorso però si complica: <strong>i treni della tratta Bologna-Verona non sono infatti accessibili in autonomia</strong>. I treni della tratta Bologna-Poggio Rusco invece lo sono, ossia non presentano <strong>dislivello tra la banchina e il treno</strong>, o comunque ne presentano uno superabile. La situazione cambia del tutto nei giorni festivi, perché i treni della tratta Bologna-Poggio Rusco mancano; occorre allora dirottarsi su quelli della tratta Bologna-Verona, che sono accessibili alle persone con disabilità ma non in autonomia, ossia serve l’operatore per salire a bordo”.</p>
<p>Irene inoltre sottolinea: “Pochi treni della linea Bologna-Verona risultano accessibili, anche con l’aiuto dell’operatore. Spesso si tratta infatti di treni vecchi e con la presenza di gradini: questo implica fatica anche con l’utilizzo del carrello elevatore, e per motivi ben comprensibili”.</p>
<p>Accessibilità e autonomia sono termini distinti, da non confondere, e Irene fa il punto della situazione: “Capisco che non si possa avere un’offerta piena come durante la settimana, ma non capisco perché nei giorni festivi ci debba essere un così grande divario. Si tratta di sostenere il <strong>diritto</strong> non solo al trasporto, ma anche alla <strong>cultura </strong>e alla <strong>libertà di movimento in autonomia</strong>, indipendentemente dalla condizione che si ha”.</p>
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<h2 id="h-costretti-a-chiedere-aiuto-ma-la-discriminazione-passa-anche-dalla-comunicazione">Costretti a chiedere aiuto. Ma la discriminazione passa anche dalla comunicazione</h2>
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<p>Irene puntualizza: “Il mio non è un capriccio, ma una questione importante che vorrei porre all’attenzione soprattutto per come è stato gestito il riscontro alla mia perplessità. In quell’occasione mi sono interfacciata, come in altri casi, con la <strong>Sala Blu</strong>, che gestisce il servizio per le persone con ridotta mobilità. Mi è stato risposto di contattarli il giorno prima perché così avrebbero saputo con certezza quale materiale sarebbe stato presente sul treno di riferimento. Così ho fatto, e mi hanno risposto”.</p>
<p>Irene ci mostra la <strong>risposta</strong> ricevuta, che di certo non presenta elementi di maleducazione, ma balza all’occhio la questione da lei evidenziata: “I treni da Lei indicati sono in materiale cosiddetto ‘Vivalto’ non idoneo alla salita in autonomia. Questo perché essendo domenica mancano tutti i treni della tratta Poggio Rusco-Bologna che sarebbero stati per Lei idonei. <strong>Se proprio vuole prendere i treni da Lei indicati</strong> dobbiamo fornirle la nostra assistenza. Ci faccia sapere”.</p>
<p>“Mi sembra assurdo che nel 2022 <strong>l’autonomia</strong> venga tradotta come una <strong>pretesa</strong> e che si punti sull’assistenzialismo”, chiosa Irene. “In più trovo fuorviante l’espressione ‘<strong>se proprio vuole</strong>’: fa sentire un peso la persona in questione, ed è una sensazione che chi accede ai servizi non dovrebbe provare. Mi sono sentita di dover rinunciare al treno dirottandomi su altre soluzioni”. E aggiunge: “Occorre investire di più sul binomio <strong>accessibilità</strong> e <strong>autonomia</strong>, e in una <strong>comunicazione </strong>adeguata da parte dei servizi che non faccia sentire in alcun modo le persone con disabilità un peso. Ho posto la questione a coloro che hanno esplicitato la comunicazione, ma non ho ricevuto risposta”.</p>
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<h2 id="h-un-luogo-a-misura-di-persona-con-disabilita-diventa-a-misura-di-tutti">“Un luogo a misura di persona con disabilità diventa a misura di tutti”</h2>
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<p>Irene non è a digiuno di esperienze lacunose o negative sul fronte trasporti: “Mi è già capitato più volte che mancasse la possibilità di salire sull’<strong>autobus</strong>, e quindi che non fosse accessibile nonostante lo avessi prenotato nel rispetto dei tempi. In uno di questi frangenti un autista mi aveva suggerito di chiamare mia madre per farmi venire a prendere, come se fosse una cosa implicita per una persona con disabilità avere un genitore che non lavora ed è disponibile a farsi diversi chilometri di strada di andata e ritorno, o essere accompagnata da qualcuno a piedi. Quel giorno sono riuscita a salire in autobus solo grazie a dei miei amici che mi hanno caricata di peso sul bus”.</p>
<p>Le cose non vanno meglio con i treni: “Alcuni garantiscono autonomia e accessibilità, ma mi è anche capitato di viaggiare su treni con <strong>cinture della sicurezza non funzionanti</strong>. Non sono mancate occasioni in cui sul treno mi è stato detto: ‘Ma tanto non succede nulla se metti i freni della carrozzina’: una risposta non adeguata. A volte, ad esempio, si fa fatica persino a raggiungere i pulsanti della richiesta di aiuto per comunicare con il capotreno. Non dimentichiamo la questione bagno: per fortuna non ho mai avuto la necessità, ma chi potrebbe portarmici se non sempre riesco prima ad avvisare? Sinceramente mi chiedo se in Italia esista un trasporto per tutti”.</p>
<p>Se qualcuno a livello governativo fosse disponibile, Irene si dichiara aperta al <strong>confronto</strong> per proporre soluzioni. Intanto la sua istanza suona chiara e forte più che mai: “Credo sia ora di capire che le battaglie per i diritti portate avanti da persone con disabilità o dai caregiver non sono battaglie che riguardano soltanto loro, ma l’<strong>intera società</strong>. I miglioramenti raggiunti con queste azioni coinvolgono infatti anche bambini, donne incinte, persone anziane, genitori che spingono un passeggino, chiunque conviva con una disabilità magari temporanea a causa di una frattura. Bisogna partire dalla logica che un luogo a misura di persona con <strong>disabilità </strong>diventa a misura di <strong>tutti</strong>”.</p>
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<p><em>Photo credits: concreteonlus.org</em></p>


L&#8217;autonomia delle persone con disabilità passa anche per il libero accesso ai mezzi pubblici. Una questione che spesso va in secondo piano, specie su treni e autobus: il caso di Irene.

Mezzi di trasporto, non mezzi passeggeri: disabilità e accessibilità, diritti a intermittenza - Informazione senza filtro

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