Silicon Valley a Napoli? “App” con vista sul Golfo

Lo scorso gennaio un comunicato di Palazzo Chigi ha messo il turbo ai titoli di tg e giornali: “Apple sbarca a Napoli e darà lavoro a 600 persone”. Una bella notizia insomma, mentre i dati Istat confermano luci ed ombre sull’occupazione in Italia dopo il varo del Jobs Act. Così nella città alla continua ricerca […]

Lo scorso gennaio un comunicato di Palazzo Chigi ha messo il turbo ai titoli di tg e giornali: “Apple sbarca a Napoli e darà lavoro a 600 persone”. Una bella notizia insomma, mentre i dati Istat confermano luci ed ombre sull’occupazione in Italia dopo il varo del Jobs Act.

Così nella città alla continua ricerca di un riscatto d’immagine, che sogna lo scudetto calcistico post-Maradona e in perenne lotta con la Camorra, la notizia ha subito fatto il pieno di aspettative. Euforia corroborata dall’idea che un colosso mondiale dell’informatica avesse scelto proprio il Golfo di Napoli per investire un bel gruzzolo dei suoi profitti miliardari.
“Lì, possiamo dare una mano da un punto di vista economico” aveva chiosato il ceo di Apple, Tim Cook, nell’incontro con il premier Renzi a Roma, sorvolando sul progetto e sul contezioso (chiuso) con il fisco italiano da 318 milioni di euro, un maxi sconto rispetto ai contestati 880 milioni.

Poi però con il passare dei giorni la scena è cambiata. E quello che sembrava come un roboante “Annunciazione, annunciazione”, di un famoso sketch, protagonisti Massimo Troisi e Lello Arena, è stato ridimensionato nei contenuti.
Non si tratta di posti di lavoro, ma di corsi di formazione per lo sviluppo delle app, prodotti per smartphone e  pc che stanno generando nuovi, ingenti profitti.

I dettagli dell’operazione, per ora si conoscono poco, ma a quel che sembra la Apple intende appoggiarsi, per il suo “primo centro di sviluppo europeo delle app” ad un istituto partner nella zona di Bagnoli, un tempo sede dell’Ilva e in attesa da anni di un piano di riconversione.
Colossi finanziari, capitali stranieri, progetti di sviluppo, il ruolo dello Stato: tutto questo con le dovute proporzioni sembra un deja-vu.
Almeno sfogliando le pagine di un saggio di Francesco Barbagallo  dal titolo Napoli, Belle Epoque, edito da Laterza e dedicato al fervore culturale ed imprenditoriale che imperava nella metropoli fra fine ‘800 e primi del ‘900.
“Questa della Apple – dice Barbagallo – mi sembra piuttosto un’operazione di marketing. Al momento non è proprio il caso di parlare di sviluppo produttivo. Non a caso Luigi Nicolais, presidente del CNR, ha detto che questo progetto è davvero troppo poco e che non bisogna illudere i giovani”.
Si parla di Apple e si evocano ovviamente altre realtà produttive del passato, su tutti l’Alfasud di Pomigliano d’Arco che contava 15mila operai negli anni ‘70.
“Non è assolutamente comparabile con quelle realtà che furono appunto Alfasud ed Olivetti e che facevano parte di un’altra epoca industriale.  Le Itc sono sistemi completamente diversi, intanto qui a Napoli non si produce niente, altra cosa sono gli stabilimenti nella Silicon Valley. Mi sembra al momento solo un’operazione politica e pubblicitaria.
Cosa manca allora a questo annuncio del colosso di Cupertino ?
“La città avrebbe bisogno di una grande progettualità come ad esempio accadde nell’ottocento quando proprio per Bagnoli l’urbanista ed architetto Lamont Young, prevedeva nel giro di pochi anni, la creazione di un grande sito turistico. Non andò a buon fine perché non si trovarono i capitali, ma quella era la progettualità , oggi Napoli è una grande città ma non ci sono idee che possano bastare a dare prospettive e lavoro.  L’annuncio della Apple non è la risposta ai problemi di Napoli. Non è neanche l’inizio della risposta.”

Progetti, sviluppo, occupazione. Eccolo il grande rebus presente dal dopoguerra ad oggi ai piedi del Vesuvio, dove comunque sia, l’immagine simbolo, il paradigma di un sistema-lavoro resta senza dubbio lo stabilimento dell’Alfasud a Pomigliano.
Icona di un Mezzogiorno che rincorre il nord nel processo di industrializzazione, grazie a capitali pubblici, con tutte le distorsioni del caso. Fabbrica divenuta bersaglio di critiche sul livello di produttività.

Tutto ciò in un territorio dove da sempre c’è fame di lavoro, e avere un posto fisso all’Alfasud era come fare 13 al Totocalcio. Ma l’abilità era anche un’altra: creare un secondo lavoro nell’indotto “fai da te”. Officine o carrozzerie dove potevi trovare ricambi originali usciti di “stramacchio” dallo stabilimento. Oggi a Pomigliano d’Arco l’Alfasud è un lontano ricordo.

C’è la FCA di Marchionne: 4500 operai più quelli che attendono in cassa integrazione.  La “car valley” potrebbe un domani essere soppiantata da una Silicon Valley?  C’è chi ora ci crede davvero. Intanto però si fanno i conti con la realtà. I giovani napoletani sempre più spesso si ritrovano ad un bivio. Restare o partire. C’è chi scommette sul restare, affrontando il percorso universitario con tutte le incognite del dopo. C’è chi decide, e sono sempre di più, coloro che puntano a fare le valigie ed andare  all’estero, su tutti l’Erasmus in qualche angolo d’Europa. Si pensa a breve termine.

Si guarda al presente. Smanettando sul proprio smartphone, dividendosi fra instant messanger o whattsapp. Domandandosi se stavolta varrà davvero la pena di fare la fila davanti alla Apple. Non certo per un nuovo fiammante iPhone. Ma per quel sogno chiamato app.
E per un lavoro c’è tempo.

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