Spoiler – “Le dimensioni contano?” nel prossimo Senza Filtro

Quando citiamo l’espressione “le dimensioni contano” e la collochiamo in un contesto legato al cinema, il nostro pensiero va istintivamente alla pornografia, ai suoi protagonisti e alle caratteristiche anatomiche di attrici e attori. Ma nel mondo dell’hard-core, il cinema del tutto visibile a tutti i costi, le dimensioni non riguardano solo certe caratteristiche attoriali, bensì […]

Quando citiamo l’espressione “le dimensioni contano” e la collochiamo in un contesto legato al cinema, il nostro pensiero va istintivamente alla pornografia, ai suoi protagonisti e alle caratteristiche anatomiche di attrici e attori. Ma nel mondo dell’hard-core, il cinema del tutto visibile a tutti i costi, le dimensioni non riguardano solo certe caratteristiche attoriali, bensì anche un vero e proprio discorso, emanato attraverso il mercato del cinema per adulti, che oggi è fortemente segmentato e contempla prodotti diversissimi, dal punto di vista artistico ma anche produttivo.

Il film pornografico, in quanto film di genere, nasce nel Novecento negli Stati Uniti, ma è nell’Europa dei Lumière e della nascita del cinema che le primissime produzioni prendono vita. Si pensa che il primo esempio di film per adulti sia stato girato in Francia, nel 1897, diretto da Georges Méliès e interpretato da Jehanne d’Alcy, la futura moglie del regista (Après le bal, G. Méliès, 1897). E sempre in Francia saranno girate, pochi decenni più tardi, pellicole come Soeur Vaseline e Chez le docteur, esplicitamente destinate ai saloni d’attesa delle case di tolleranza.

Le chiamavano “films de bordel”.

Ma è nel corso della seconda metà del Novecento che la pornografia si diffonde in modo capillare, per assumere, a mano a mano, le caratteristiche che la identificano oggi. Nel secondo dopoguerra, con la diffusione della Pellicola 8 millimetri e del formato Super 8, nascono i primi esempi di cinema soft-core — i nudi parziali e le situazioni sessualmente allusive — e, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, il fotografo britannico Harrison Marks realizza i suoi glamour home movies, che per primi istituzionalizzano un mercato in crescente fermento.

https://www.youtube.com/watch?v=dBZsbx4XpSg

Anche l’arte fa la sua parte e nel 1969 Andy Warhol dirige e produce il primo porno chic della storia (Blue Movie, A. Warhol, 1969), un dialogo sulla guerra del Vietnam durante un pomeriggio ordinario nell’appartamento di David Bourdon, a Greenwich Village. L’opera, presentata alla stampa come «Un film sulla guerra del Vietnam e su cosa possiamo fare a riguardo» è nota ai più come Dick ed è destinata a influenzare il cinema erotico d’autore successivo. Tant’è che, solo pochi anni dopo, lo scrittore Bob Colacello racconterà che, nel vedere Ultimo tango a Parigi (id., B. Bertolucci, 1972), Andy Warhol vi riconobbe elementi comuni al suo film.

Ma sono gli anni Settanta quelli della grande svolta. Dei primi film esplicitamente pornografici come Mona, la storia di una giovane donna affascinata dal sesso orale, ma decisa a rimanere vergine fino alle nozze (Mona the Virgin Nymph, M. Benveniste, H. Ziehm, 1970) e Flesh Gordon (id., M. Benveniste, H. Ziehm,1974), la parodia erotico-demenziale della striscia a fumetti ideata da Alex Raymond; e dei grandi successi, destinati a diventare veri e propri classici dell’hard-core vintage. Come Dietro la porta verde (Behind the Green Door, A. Mitchell, J. Mitchell, 1972), il primo film porno regolarmente distribuito oltreoceano, Miss Jones (The Devil in Miss Jones, G. Damiano, 1973), che guadagnò 15 milioni di dollari negli Stati Uniti — diventando il decimo maggior incasso del 1973 — e come Gola profonda (Deep Throat, J. Gerard, 1972), la vicenda di una giovane donna che scopre di avere la clitoride nella gola, che darà fama — ma ahimè, anche scarsa fortuna — all’attrice Linda Susan Boreman aka Linda Lovelace.

Vendere il sesso diventa, dunque, un’attività redditizia e, nel giro di poche generazioni, i film per adulti cessano di essere articoli semiclandestini, controllati dalla criminalità organizzata e disponibili nei vicoli delle grandi città, per diventare prodotti industriali a tutti gli effetti. Aziende come General Motors, Marriott e Time Warner segmentano a mano a mano il proprio business, destinandone parte proprio all’industria del porno.

Secondo dati Reuters del 2014, il mercato della pornografia produce un fatturato di quasi 100 miliardi di dollari e con l’avvento del web 2.0 la produzione porno è in ulteriore crescita. Nel 2015 Pornhub — il sito di pornographic video sharing, nato nel 2007 da un’idea di Malcolm Flannigan — dà i numeri: 21 miliardi di accessi web sui suoi siti, 4 miliardi di ore di video fornite ai suoi utenti, 88 miliardi di video online, per un totale di 12 video che, in media, vengono guardati in un anno da ogni persona. Milf, teen, Rocco Siffredi e Sara Tommasi sono le parole più googlate dagli utenti del porno, in un business che dà lavoro a migliaia di performer, artisti e personale di produzione proveniente da tutto il mondo.

E dunque, nel cinema e nell’hard-core, sì: le dimensioni contano. E non solo in termini di produzioni e fatturati. Perché, accanto a una produzione mainstream di dimensioni mastodontiche, si affianca sempre più spesso un discorso sulla pornografia di qualità. Oggi sono sempre più diffuse le produzioni indie, solitamente low budget che, prendendo in prestito elementi dal porno amatoriale e dall’alt porn, si distinguono per l’autonomia artistico-stilistica, che ne determina l’evidente distacco dal porno di massa. Sì, proprio da quel tipo di pornografia rigidamente strutturata (immagini, movimenti, interpretazioni…) e dagli schemi prestabiliti a discapito della creatività: il porno dell’industria culturale e dei generi cinematografici, che esponenti della Scuola di Francoforte come Adorno e Horkheimer paragonarono al processo di produzione delle automobili. Insomma, il porno destinato solo all’eccitazione sessuale.

Oggi, autrici come l’australiana come Anna Brownfield e progetti come l’italianissimo Le ragazze del porno utilizzano l’hard-core come arma per rivoluzionare lo sguardo sul sesso. E sulla donna. Perché ovunque si discute del ruolo della donna, fuorché nell’industria pornografica.

Prima di diventare una regista di film per adulti e una produttrice cinematografica a Barcellona, Erika Lust è stata una studentessa di Scienze Politiche e Gender Studies in Svezia. E proprio durante gli anni dell’università, a base di popcorn, pigiama e porno, Lust capisce che l’hard-core non è solo un genere in quanto tale, ma un discorso sulla mascolinità e sulla femminilità. Sul ruolo che abbiamo e sul nostro modo di autorappresentarci. Nell’era del web 2.0, 1/3 del traffico di internet è pornografico e il porno, che spesso viene guardato prima ancora di fare sesso, è l’educazione sessuale di oggi. L’obiettivo di Erika Lust? Creare il tipo di cinema per adulti che vorremmo guardare. Non solo eccitare, ma anche educare e ispirare. E spostare l’idea di pornografia: da passatempo eccitatorio e spesso solitario a vera e propria forma d’arte cinematografica.

Nasce, così, il progetto XConfessions, un ciclo di cortometraggi, in cui la regista abbandona l’approccio monolitico del porno mainstream, per dare spazio ad attrici e attori dai corpi non stereotipati e ad interpretazioni, inquadrature e tecniche di montaggio capaci di avvicinare sempre di più l’hard-core al cinema d’autore. E alle fantasie sessuali di chi, quel cinema, lo guarda. Sì, perché in un contesto sempre più svincolato dal ruolo passivo dello spettatore e sempre più vicino all’idea di prosumer, sono gli stessi fruitori che inviano a Lust le proprie confessioni. Che vengono poi selezionate e trasformate in suggestivi, quanto espliciti cortometraggi.

https://www.youtube.com/watch?v=cyd48NbBdS4

E dunque, il futuro del porno è nella consapevolezza. Di ruolo, di genere, ma non solo. Inside Porn è un progetto di ricerca nato nel 2016 e condotto da Arianna Quagliotto, Giulia Moscatelli e Maria Giulia Giulianelli, tre giovani ricercatrici del labES, il Laboratorio di Etnosemiotica dell’Università di Bologna. E il cui scopo è mettere in rapporto la pornografia con la sua effettiva creazione sul set, sospendendo l’assenso rispetto alle implicazioni di carattere etico e morale, a favore dell’osservazione di un oggetto che, al contrario, possa parlare dal punto di vista dei propri attori sociali. Safe sex, porno pedagogico — ma attenzione, senza critica né morale! —, rapporto fra corpo dell’attore e ruolo interpretato: sono questi i principali ambiti di ricerca degli attuali studi sulla pornografia. Che, continuamente in bilico fra immaginario e identificazione, cercano oggi di rispondere all’eterna domanda: cos’è realmente porno?

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