Spoiler – “Vetrina digitale” nel prossimo Senza Filtro

New York City, 2017. Una grande stanza marrone: un deposito, forse un magazzino. Ai lati, contenitori di cartone e un transpallet; al centro una scatola di vetro, incorporata in una parete di mattoni. La scatola presenta un’apertura nella parte posteriore, dalla quale si scorge un suggestivo skyline notturno. Un groviglio di cavi ne lega le estremità a […]

New York City, 2017. Una grande stanza marrone: un deposito, forse un magazzino. Ai lati, contenitori di cartone e un transpallet; al centro una scatola di vetro, incorporata in una parete di mattoni. La scatola presenta un’apertura nella parte posteriore, dalla quale si scorge un suggestivo skyline notturno. Un groviglio di cavi ne lega le estremità a un sofisticato sistema di macchine e fotocamere digitali. Un giovane uomo, seduto su un divano marrone tra due lampade, osserva immobile la scatola, in attesa che qualcosa di terribile accada.

Una delle sequenze digitali più accattivanti di Twin Peaks 3 (id., D. Lynch, 2017), la TV series cult di David Lynch presentata a Cannes 2017, è presente nei primi dieci minuti della serie, un film di 18 ore suddiviso in episodi. E si mostra sin da subito come una precisa dichiarazione d’intenti. Anche Lynch si dà al digitale e, spinta consapevolmente nel pieno della Digital Era, la Twin Peaks del futuro — «I’ll see you in 25 years», dichiara Laura Palmer in una sequenza onirica e straniante dell’episodio finale della seconda stagione — punta volutamente a uno spazio artificiale, costringendo lo spettatore a confrontarsi nuovamente con il tema del doppio: il reale e il consapevole da un lato; la realtà digitale e legata allo spazio extrasensoriale della Black Lodge dall’altro. Nel condurre lo spettatore nel perturbante Another Place, dunque, la terza stagione di Twin Peaks fa ricorso proprio a strumenti di questo tipo. Perché quando nel cinema si parla di digitale, il riferimento ai Digital Visual Effects è immediato, anche se non così scontato.

Un digitalizzato agente Cooper passa attraverso una presa elettrica; Dougie Jones, il terzo doppelgänger di Cooper, scompare in una raffica di fumo ed energia elettrica. La trasformazione dello stesso Dougie Jones, «Manufactured by someone for a purpose», in una perlina d’oro e la trasformazione allo specchio di Cooper in Bob. Le distorsioni, il montaggio, il ricorso a tecniche CGI. Ma soprattutto, il viaggio di Cooper nella Black Lodge e il suo ingresso successivo nella Violet Room, un nuovo spazio extrasensoriale dominato da scatti, accelerazioni e rallentamenti e, soprattutto, da una strana donna senza occhi. L’approccio al digitale di Lynch, però, ha anche destato perplessità in fan e critici. Come nel caso del sicomoro parlante, presentato da Mike come “The evolution of the arm”. Che, guarda caso, recita proprio le stesse battute pronunciate da The Man From Another Place  — «I am the arm and I sound like this» — in Fire Walk with Me (id., D. Lynch, 1992).

Quando il cinema riflette sul mondo digitale, inoltre, non può che accendere i riflettori sui millennial, gli occidentali nati convenzionalmente tra il 1985 e il 2005: una generazione di digital native che, fin dalla prima infanzia, ha usato e manipolato tecnologie digitali, dando vita a esperienze significative soprattutto attraverso l’uso dei social media e delle piattaforme di sharing.

E così, in #Uploading Holocaust (id., S. Bornstein, U. Nir, 2016) i nativi digitali rielaborano il dramma della Shoah attraverso una gita scolastica molto particolare, un “Viaggio in Polonia” che porta ogni anno oltre 30mila adolescenti israeliani negli ex campi di sterminio. E le tante immagini raccolte con gli smartphone non possono che essere condivise su YouTube. Mentre in Children Online (id., K. Hager, 2017) tre adolescenti come tanti, che nell’era del web 3.0 demandano deliberatamente la propria vita e la propria identità a una realtà social e parallela, si imbattono nelle minacce legate al virtuale. Solo in apparenza meno aggressivo rispetto alla realtà fisica. E in Tokyo Idols (id., K. Miyake, 2017), in concorso al Sundance Film Festival 2017 e alla 13A edizione del Biografilm Festival (così come i due lavori precedenti, n.d.r.), la regista Kyoko Miyake racconta il suo viaggio in un Giappone ambiguo, in cui le Tokyo Idols, adolescenti perfette e sorridenti, si esibiscono in veri e propri virtual show, destinati a reinventare le forme di fruizione nell’era dei social.

Ma il cinema del web e del Terzo Millennio è anche il cinema degli effetti speciali. Presenti sin dagli albori nelle produzioni finzionali, i trucchi — come venivano definiti inizialmente — afferivano alla funzione di creare elementi profilmici, e quindi di fronte alla macchina da presa, tipicamente costosi, pericolosi: letteralmente, impossibili da realizzare attraverso mezzi convenzionali. Le primissime opere di Georges Méliès e di Edwin Porter sono caleidoscopi di apparizioni e sparizioni, oggetti animati e doppie presenze. I gangster movies prima, l’horror e la fantascienza poi prenderanno ampio spunto da questo modo di concepire — e realizzare — il cinema, facendo via via un ricorso sempre più massiccio all’informatica. Che, in concomitanza con la diffusione dell’immagine digitale, ha innovato radicalmente la dimensione economico-produttiva della prassi cinematografica, abbassando i costi e creando spazi di diffusione del cinema attraverso il web. E oggi, quando il piccolo schermo non è più quello televisivo ma il monitor di un computer, le majors puntano all’animazione, all’ibridazione, al 3D. Come nel caso di Avatar (id., J. Cameron, 2009), la storia di uno scienziato in missione, che decide di esplorare un pianeta dall’atmosfera tossica attraverso un avatar, appunto, ma anche un esempio di integrazione fra immagini “reali” e digitali di livello altissimo. E come Sin City (id., R. Rodriguez, 2005), la storia di una città violenta in cui ogni cosa trasuda corruzione e che, basato sui graphic novels di Frank Miller, dà vita a una vera e propria fusione tra immagine fotografica, animazione e fumetto.

E, se una piattaforma di video sharing come YouTube lascia intendere quale sarà il futuro del cinema postmoderno — sempre più spesso caratterizzato da forme di ibridazione, remake e remix — la dimensione dell’immagine toglie sempre maggiore spazio alla parola e al racconto. Riportando il cinema di finzione in direzione di quelle attrazioni mostrative che caratterizzano gli albori della Settima Arte. E in cui lo spettatore, attratto dall’evento fuori dall’ordinario, è nuovamente stupito, incantato e chiamato in causa. Dimenticandosi quasi della storia alla quale sta assistendo, per concentrarsi unicamente sulle trasformazioni, spesso aliene, di un cinema che va avanti nel tempo ma che, pur tuttavia, volge di continuo il suo sguardo al passato.

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